14 agosto 2009

Piccola storia di un nome

Mio padre si chiamava Enea, e fin dai tempi del liceo, quando studiò l'Eneide, decise che il suo primo figlio maschio si sarebbe chiamato Julo.
Devo dire che da bambino, almeno fino ai 14-15 anni, il mio nome mi creava non pochi problemi. Questo a causa delle facili rime a cui si presta (basta sostituire alla J una M o una C). In effetti, quando facevo una nuova conoscenza, ero molto restio a dire come mi chiamavo, se potevo (e a volte anche se non potevo) evitavo di rispondere. Tipico scambio:
- Come ti chiami?
- Non sono io che mi chiamo, sono gli altri che mi chiamano
- E come ti chiamano gli altri?
- Col mio nome.

Ero capace di andare avanti anche per 10 minuti così, senza dire il mio nome. Non avevo capito che ferire per non essere forse feriti non serve a niente, solo a essere stronzi.

Poi ho capito che in fondo il fatto di avere un nome così strano e inusuale mi distingueva, era qualcosa che era solo mio e di nessun altro. E da allora mi ci sono affezionato.

Ho scoperto anche un'altra cosa: che è un nome difficile. È difficile che la gente se lo ricordi giusto. In tutti questi anni ho sentito le storpiature più svariate. Soprattutto gli anziani fanno fatica. Ho imparato anche a sorriderne, specialmente quando la presentazione avviene 'a voce'.
Un po' meno sorridere mi fa quando le storpiature avvengono per iscritto. Capisco che le prime volte qualcuno possa pensare ad un errore di battitura dello spagnolo Julio, e in genere non dico niente, ma quando l'errore si ripete allora la cosa inizia a darmi un po' fastidio.

Chiedo scusa a tutti quelli che ho corretto e cercherò di imparare a sorridere di più.

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