28 marzo 2010

La povertà della Croce (dom. delle Palme)

Quando si pensa alla povertà di Gesù viene subito in mente la grotta di Betlemme, la mangiatoia, la paglia ... ma la vera povertà, quella più radicale,  si ha proprio sul Calvario, sulla Croce.
Solo chi non nessuna cosa da donare può donare qualcuno, cioè la propria persona, può donare sé stesso.
Cristo è nato dalla povertà di Maria, povertà che l’ha resa disponibile ad accettare il dono di Dio, ed è vissuto come un povero che “non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Nella via verso la croce è accompagnato da una folla di poveri, oppressi, straccioni, vittime della prepotenza e dell’egoismo degli altri. E alla fine è appeso al patibolo degli schiavi, accompagnato da due malfattori.
Sul Calvario si incontrano due povertà. Quella radicale dell’uomo, conseguenza del peccato, e quella di Dio che facendosi carne si è svuotato, si è fatto ‘peccato’ per noi. E da questo incontro tra due povertà nasce la nostra liberazione, che è liberazione dalla povertà attraverso la povertà.
La salvezza, cioè l’incredibile ricchezza di figli, ci arriva attraverso un mistero di povertà ma anche di debolezza.
Dio è onnipotenza, ma sul Calvario è anche onni-debolezza. E la sua onnidebolezza è, paradossalmente, proprio l’espressione della Sua onnipotenza. È la potenza non della forza, ma la potenza, che è debolezza, dell’amore. È la potenza di un cuore che ama fino a sanguinare.
Riusciremo a capire, a vivere, questo duplice mistero di povertà e debolezza? Noi uomini, noi cristiani, ci arrenderemo a questa evidenza della Croce?
Cristo ha i piedi inchiodati, eppure percorre tutte le strade del mondo alla ricerca di “ciò che era perduto
Ha le mani inchiodate, eppure abbraccia tutti noi in un gesto di sconfinata tenerezza.
Dio è povero, ma non si rassegna ad essere impoverito dell’uomo. La nostra fuga è finita, siamo caduti nella Misericordia.

21 marzo 2010

Il Cireneo (quinta dom. di Quaresima)

Davvero misteriosa la Via Crucis: Dio entra nella sofferenza umana, la porta sulle proprie spalle; però nello stesso tempo offre all’uomo la possibilità di condividere il suo dolore, di partecipare alla sua Passione, di dargli una mano a portare la croce. L’episodio del Cireneo ci racconta questo mistero. Dio che interviene nella pena dell’uomo e l’uomo che interviene nella pena di Dio; Dio che porta il peso dell’uomo e l’uomo chiamato a portare il peso di Dio.

Non c’è salvezza senza partecipazione; 
non c’è redenzione senza fatica condivisa; 
non c’è croce, ma neanche felicità, solitaria.

Certo non è una cosa facile, difatti il Cireneo è stato requisito, obbligato. Di fronte alla croce si vorrebbe girare al largo, dire che è troppo per le mie forze, che non è giusto, che male ho fatto per meritarmi tutto questo? Invece è questa la croce che oggi devo portare, proprio nel momento meno opportuno, nelle circostanze meno propizie. Viene da dire: “ma proprio a me doveva capitare?” Perché no, se è “capitato” anche a Dio.
Ma anche di fronte alla croce degli altri si scantona facilmente, si finge di non vedere. “Sono cose che succedono”, si dice sperando che succedano sempre e solo agli altri; “a chi tocca, tocca”, purché tocchi sempre agli altri.“Che c’entro io?” pensiamo. E invece c’entriamo eccome dal momento che “c’entra” Dio!

Chi come me ha studiato il catechismo di Pio X ricorda che una delle prime domande, la settima se non ricordo male, era “dov’è Dio?”. Dopo tanti anni non ricordo più la risposta esatta, però saprei ugualmente dare una risposta: “Dio è all’altro capo della croce”. Della mia croce. Ma anche della croce dell’altro. Dovunque ci sia una croce, non c’è che da tirarla su e siamo certi che dall’altra parte c’è Lui. Adesso sappiamo dove trovarlo

18 marzo 2010

Basta un piccolo fiore

Come ogni anno, in questo periodo quando vado al lavoro tengo particolarmente d'occhio un giardino che si trova lungo la strada. Qui è ampiamente visibile un pesco.
Questa mattina come al solito si vedevano solo i rami, ma alle due, tornando, la sorpresa: una nuvola rosa!!!!
È bastata questa visione a rendere rosea tutta la giornata.
Come avere pensieri tristi quando la natura rinasce, quando la primavera avanza e vince il grigio dell'inverno?
A volte anche solo un piccolo fiore rappresenta un dono ineguagliabile.

14 marzo 2010

Le pie donne (quarta dom. di Quaresima)

La Via Crucis è luogo di incontri. Abbiamo visto quello con Maria e quello con la Veronica. Oggi ne vediamo un altro, quello con le pie donne che piangono sulla sorte del condannato,  narrato da Luca (Lc 23,27-31).
Negli altri incontri Gesù non pronuncia neanche una parola, invece qui si rivolge alle donne in modo che sembra brusco, aspro, anche se queste donne sono mosse da una pietà sincera. È l’affermazione della sproporzione: sproporzione tra dolore e conforto, tra ciò che si prova dentro e ciò che capiscono gli altri. 
Chi soffre vive in un abisso di solitudine, di angoscia, che nessuno, neanche chi lo ama e lo assiste col massimo dell’attenzione, riesce a comprendere fino in fondo.
Queste parole sono un avvertimento ad accostarsi al dolore altrui in punta di piedi, con pudore e rispetto, quasi con un senso di adorazione per un mistero che non potremo mai capire completamente.
La croce visibile che uno porta sulle spalle ha anche delle radici invisibili nella carne viva, nelle profondità, nelle regioni più inesplorate della persona. Chi si avvicina con mani maldestre, anche se con le migliori intenzioni e con la volontà di aiutare a portare quella croce, finisce per umiliare, per provocare ferite ancora più dolorose, per aumentare il peso di quella croce.
Ma il pianto delle donne non è inutile, anzi è necessario. Di fronte a uno che porta la croce bisogna piangere, partecipare, offrire aiuto e vicinanza. Ma non bisogna mai dimenticare che tutto ciò che faremo sarà sempre sproporzionato. 
È un divario che non deve scoraggiare, ci deve semplicemente rendere coscienti che non si capirà mai abbastanza, ma soprattutto non si farà mai abbastanza. Ci deve rendere più attenti, più rispettosi del mistero del dolore altrui. Ma soprattutto più puntuali agli incontri scomodi e impegnativi con la croce.

13 marzo 2010

Consiglio di lettura

Ho appena finito di leggere "Daniel Stein traduttore" di Ludmila Uliskaya (Ed. Bompiani, pagg. 558). È la storia di un ragazzo ebreo polacco, scappato in Bielorussia, che diventa interprete della Gestapo. In tale veste riesce a salvare un bel po' di ebrei, fino a che viene scoperto e arrestato. Riesce a scappare e si rifugia per 15 mesi in un convento di suore. Qui scopre il cristianesimo e decide di farsi battezzare. Finita la guerra torna in Polonia ed entra in convento diventando carmelitano. Poi si fa trasferire in Israele dove cerca di rifondare la chiesa gerosolimitana, celebra in ebraico, diventa e tante altre cose. Vive da cristiano non rinunciando al suo essere ebreo, e questo gli genera problemi sia con gli ebrei che con i cristiani di ogni confessione.
Il libro è scritto come una raccolta di lettere, articoli di giornale, brani di diario, verbali di polizia. I personaggi sono tanti, con storie che si intrecciano o si sfiorano nel loro rapporto col protagonista.

Il bello di questo libro è che è una storia vera, è basato su anni di ricerche e di interviste. Solo alcuni personaggi sono inventati, e i nomi sono cambiati in quanto alcuni di loro sono ancora vivi e potrebbero aver problemi in quella realtà complessa e caotica che è il medio-oriente.

Il vero nome di Daniel Stein era Oswald Rufeisen, e l'idea di questo libro venne all'autrice quando per un caso fortuito lo incontrò.  Lei stessa dice che la libertà era la qualità umana che Rufeisen prediligeva; la sua saggezza di vita è racchiusa in poche semplici parole: "Credete come volete, ma osservate i Comandamenti e comportatevi degnamente".

Decisamente un libro da leggere, interessante e che avvince.

Da una ricerca in rete ho appurato che praticamente tutti gli episodi relativi a Daniel raccontati sono veri. Solo di uno non ho trovato traccia: il suo rapporto con un certo polacco a cui aveva 'soffiato' il posto in Carmelo. Un polacco che si chiamava Karol Woytila.


07 marzo 2010

La Veronica (terza dom. di Quaresima)

Nella Via Crucis c’è un episodio, quello della Veronica, che non è raccontato in nessun vangelo, ma che è presente nella tradizione popolare fin dai primissimi secoli. Ma che sia realmente accaduto o meno non è importante, ciò che è importante è che noi oggi lo rifacciamo.
Ogni volta che noi ci fermiamo di fronte ad una disgrazia altrui, ogni volta che rompiamo il cerchio dell’indifferenza, ogni volta che sfidiamo l’egoismo per aprirci all’accoglienza dell’altro, ogni volta che non pensiamo ai guai che potremmo avere ma solo al bene che possiamo dare, ogni volta che non cerchiamo “a chi tocca” intervenire ma iniziamo a operare, noi ripetiamo il gesto della Veronica.
Ma una cosa soprattutto è importante. La Veronica non si è preoccupata se il suo gesto avrebbe risolto la situazione. Ha solo fatto un gesto concreto, modesto e anche forse inutile, ma un gesto d’amore.
E il vero amore non si deve fermare ai grandi discorsi, ma si deve incarnare nei gesti, anche i più semplici e ordinari. Col suo gesto Veronica non aveva la pretesa di risolvere tutto, le bastava alleviare, anche solo per un attimo, la tremenda solitudine di quell’uomo. E il suo fazzoletto diventa la bandiera della compassione sventolata sotto il viso degli aguzzini e sotto gli sguardi degli indifferenti.
L’amore è questo: capire il dramma dell’altro, interpretarne le attese, annullare le distanze, dire “me ne importa”. E spiegarsi con un segno, con un gesto, magari anche povero, umile, inutile, ma che indica un cuore dove c’è spazio per la sofferenza dell’altro.
E il volto rimasto impresso su quel fazzoletto è il segno che quel piccolo, insignificante, inutile gesto è invece stato grandissimo e ha operato al di là di ogni intenzione e di ogni speranza.