23 dicembre 2011

Il peso di una parola

Quando la parola tumore non è più argomento di una discussione, o causa di compassione per qualcuno che conosci anche bene, ma diagnosi espressa all'interno della tua famiglia, allora acquista tutto un altro peso.


E allora quadrantomia, braccio grosso, linfodrenaggio, radio o chemioterapia non sono più parole strane e vaghe, ma realtà che scavano nel corpo e nello spirito.


E per quanto ti sia informato, scopri fino in fondo la differenza abissale tra esperienza letta e vita vissuta.


Ma allo stesso tempo sono l'occasione per scoprire, anche in te, risorse che neanche supponevi.


E in fondo a tutto, nel fondo del cuore continua ad ardere la speranza.


E da questa fiamma sgorga un augurio sentito come non mai:


  BUON NATALE  

18 dicembre 2011

Incarnazione 3


Tra i tantissimi significati e conseguenze dell’Incarnazione questa sera vorrei affrontarne ancora due.





Viviamo in una cultura dell’efficienza, dell’utilità. Tutto ciò che non è efficiente e/o utile non ha dignità, deve essere messo da parte quando non eliminato. E lo stesso trattamento lo si riserva alle persone, basta pensare agli anziani, agli ammalati incurabili, ai bambini non ancora nati. 
Ma cosa c’è di più inutile di un neonato in una mangiatoia? di un uomo inchiodato su una croce? Eppure quel bambino, quell’uomo, salvano il mondo, donano la vera pace e la vera felicità. Sono la vera e unica risposta alla nostra sete di senso, alla nostra fame di amore.


L’Incarnazione ci fa capire l’importanza estrema di tutti quei nostri gesti che troppo superficialmente consideriamo inutili. Non c’è niente di più grande del donare un fiore o un sorriso, un abbraccio a una persona sola o sofferente, cinque minuti del nostro tempo a chi non ha nessuno. Ogni volta che per amore compiamo un gesto gratuito, disinteressato e quindi, per la mentalità del mondo, inutile,  noi rendiamo attuale l’Incarnazione, siamo il mezzo con cui Dio viene tra di noi.





Dio diventa uomo tramite una vergine che è sposata. Con questa sua scelta Dio eleva alla stessa dignità e santità sia la verginità che il matrimonio. Non esistono più scelte di vita privilegiate, ma tutte hanno la medesima dignità, la stessa possibilità di santità e di felicità. Entrambe sono egualmente gradite a Dio e santificate da Lui. 


Ma non solo questo ci insegna la Vergine che partorisce. Ci insegna anche l’importanza dell’unità nella diversità. La diversità non è un ostacolo all’unità, anzi non c’è vera unità se non nella diversità, nell’accettazione e nella valorizzazione delle rispettive diversità. Come sintetizzava il grande teologo Yves Congar, “i cristiani devono essere uniti nella diversità e diversi nell’unità”.

11 dicembre 2011

Incarnazione 2


Chi, come me, ha già una certa età, ricorderà che si è preparato alla Prima Comunione e alla Cresima studiando il catechismo di Pio X, quello con le domande e le risposte da studiare a memoria. La settima domanda era “Dov'è Dio?” e la risposta era “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo: Egli è l'Immenso
Per gli ebrei il luogo della presenza di Dio era il tempio di Gerusalemme. E Dio vi era presente, quindi non vi era altro modo per avvicinarsi a Lui che recarsi al tempio. Però ad un certo punto si rende ‘maggiormente’ presente in un altro luogo: nel ventre di una fanciulla, nella mangiatoia di una stalla subito fuori un piccolo paese della Giudea.

Con l’Incarnazione Dio non si riserva un solo posto, ma viene ad abitare tutta la terra, e soprattutto ogni essere umano. In chiesa Dio è certamente presente. Ma questa presenza non è esclusiva di questo luogo, anzi! Questa presenza mi deve spingere a trovarLo anche fuori, nel mondo.

È un tutto dinamico: vado in chiesa per poter trovare Dio fuori, vado fuori per essere sicuro di averLo trovato in chiesa e per poterLo ritrovare in chiesa.

Dovremmo anche noi riuscire a dire, ogni volta che incontriamo un altro essere umano, quello che disse un vecchio benedettino che da oltre 40 anni faceva il portinaio del convento. Una sera tardi sentì suonare al convento. Alzatosi, mentre si dirigeva verso il portone esclamò: “Signore, ancora tu!Ogni incontro con un essere umano è un incontro con Dio.

04 dicembre 2011

Incarnazione 1


Tutti noi a casa abbiamo delle fotografie. E quelle di alcuni momenti felici o di persone care, soprattutto se lontane o scomparse, le incorniciamo e le teniamo in vista. E quando le guardiamo è un po’ come rivivere quei momenti, come riallacciare il rapporto con quelle persone, ce le fanno sentire nuovamente vicine.

Un’altra cosa. Quando nasce un bambino più o meno tutti si impegnano a trovare a chi assomiglia. Ma quando poi cresce, quando inizia a sviluppare il proprio carattere, la ricerca della somiglianza allora passa al carattere. E allora ecco tutto un fiorire di: in quel comportamento è come il papà, in quell’altro è come la mamma, … e così via.

La Bibbia ci dice che quando Dio ha creato l’uomo, l’ha creato a ‘immagine e somiglianza di Dio’. 

Immagine, cioè guardando l’uomo ci ricordiamo di Dio, entrando in relazione con l’uomo entriamo in relazione più profonda con Dio.

Somiglianza, cioè l’uomo è in grado di comportarsi come Dio.

I Padri della Chiesa ci dicono che col peccato originale abbiamo perso la somiglianza, cioè la capacità, la possibilità di comportarci come Dio. Ci è rimasta l’immagine, ma senza la somiglianza è un po’ come una vecchia foto, cioè sbiadita, non più nitida come appena fatta.

Gesù, incarnandosi, ci restituisce la somiglianza, cioè la capacità di comportarci come Dio. 

Dal momento che Dio si è fatto uomo, in ogni essere umano possiamo contemplare il volto di Dio. E nei suoi confronti abbiamo la capacità di comportarci come si comporta Dio, cioè di amarlo.

Il Figlio, incarnandosi, ci restituisce la capacità di amare come ama Dio. L’amore umano cerca di possedere, di trattenere, di fare proprio. L’amore divino è un amore che dona, che libera, che si fa dono fino alla morte.

14 settembre 2011

Nostalgia

C'è la nostalgia per cose, luoghi o persone che appartengono al nostro passato. E a volte è molto dolorosa, specie quella per persone che non ci sono più. Dolorosa fino alle lacrime.


Ma c'è anche la nostalgia per luoghi non visti, cose non fatte. È può essere altrettanto dolorosa.

25 luglio 2011

Sofferenza

Don Primo Mazzolari scriveva:
"Soffrire per la Chiesa è duro, ma soffrire a causa della Chiesa è tremendo"

Come sono vere le sue parole.....

29 giugno 2011

Internet e il ghiaccio

Non mi piace il copia-incolla da altri siti, ma questa volta (anche su sollecitazione dell'autore) faccio un'eccezione, anche perché l'argomento (e il modo di affrontarlo) lo merita:

Stati Uniti d’America, inizi del XX secolo. L’America crede nel progresso e nella scienza. I piroscafi attraversano l’Atlantico, i treni corrono sempre più veloci, le lampadine inventate da Thomas Alva Edison sostituiscono le vecchie lampade a gas, l’energia elettrica incomincia ad entrare nelle case.

Tutto sembra dire che la freccia del tempo continua ad andare in avanti. Sempre più velocemente.


Alcuni giovani di belle speranze, appena usciti dalle più prestigiose Università americane dove hanno studiato la termodinamica, aprono delle piccole fabbriche ovunque nel Paese. Producono un nuovo marchingegno: il frigorifero domestico. Niente di tecnicamente rivoluzionario, sia chiaro. Macchine del genere già esistevano da tempo, ma erano grandi come case e riservate a chi era in possesso di ingenti capitali da investire nella fiorente industria del ghiaccio. Il frigorifero domestico è diverso: lo metti in cucina e via.

Agli Americani, fieri individualisti, piace subito l’idea di farsi il ghiaccio in casa e di non dover più rivolgersi ai punti vendita per mettere in fresco le vivande e raffreddare i propri drink. Per i locali pubblici (bar, ristoranti) è una vera rivoluzione. Tra le classi meno abbienti impazza la moda della Coca Cola con ghiaccio e del whisky on the rocks. In pochi anni, infatti, il frigorifero è diventato sempre più economico e alla portata di chiunque, anche di impiegati e operai.

L’industria del ghiaccio è in allarme. I suoi margini di profitto diminuiscono a vista d’occhio. Centinaia di analisti guardano i grafici delle revenue in picchiata. In borsa, a New York, tutti vogliono vendere le azioni delle industrie del ghiaccio. Ma nessuno sembra volerle comprare. “Spazzatura”, dicono a Wall Street. Il destino dell’industria del ghiaccio sembra segnato, come era già accaduto per il foraggio dei cavalli (ora la gente viaggia in auto, chi non può permettersela in tram).

E’ a questo punto che la FAIG (Federazione Americana Industria del Ghiaccio) si coalizza con l’UDIGUS (Unione Distributori Ghiaccio degli Stati Uniti) e si rivolge al Congresso. Decine, forse centinaia di lobbisti avvicinano ogni singolo parlamentare. Anche il Presidente li riceve e i membri dell’Amministrazione sono tutti coinvolti.

Ai politici, gli uomini della FAIG spiegano che è sbagliato che gli Americani producano ghiaccio in casa. L’acqua potrebbe essere inquinata, i consumi elettrici sono eccessivi, e poi l’industria sta perdendo profitti di giorno in giorno. Migliaia di operai sono per strada. Molti di più però sono a lavorare nelle industrie di frigoriferi domestici, ma questo i lobbisti non lo dicono ai rappresentanti del Congresso.

Gli uomini della FAIG però capiscono che questo non basta. Sollevano l’argomento morale: non è giusto che i signori del frigorifero domestico usino la nostra stessa tecnologia per distruggerci. E non è giusto che lo facciano i cittadini americani. Chi sono questi consumatori per diventare loro stessi dei piccoli industriali del ghiaccio in casa? Pare infatti che chi ha il frigo addirittura regali il ghiaccio ai vicini! Gratis! Costa talmente poco che è ridicolo farsi pagare. “Non facciamo nulla di male” – dicono i manigoldi – “siamo solo dei buoni vicini”. Ma la FAIG non è d’accordo e spende milioni di dollari in pubblicità sui giornali, nei cinematografi, in radio: “pirati del ghiaccio” vengono subito soprannominati.

La FAIG ottiene dal Congresso la proibizione di “duplicare il ghiaccio e diffonderlo senza autorizzazione dei detentori dei diritti”. Chi lo farà verrà punito dalla legge. Ma non è tutto. Le piccole industrie di frigoriferi domestici devono pagare i brevetti alle grandi industrie della FAIG. Poi devono anche pagare una tassa chiamata “equo compenso”, che sale a seconda di quanti cubetti di ghiaccio il frigo può potenzialmente produrre. Anche i consumatori devono pagare l’equo compenso. Anche quelli che non hanno il frigo. Si sono inventati un modo: siccome il ghiaccio si fa con l’acqua, viene tassata l’acqua. “Ma io non la uso per il ghiaccio” – protestano in molti. Non importa, si presume che tu lo faccia, o che lo faccia il tuo vicino per te, quindi devi pagare ugualmente l’equo compenso.

Nonostante questo, l’industria del ghiaccio è sempre più in crisi. La picchiata non si arresta. Tutte le contromisure sembrano essere inefficaci. Ed è così che nasce l’idea.

La FAIG convince il Congresso a creare una “Autorità Garante per il Ghiaccio”. Una sorta di tribunale senza troppi vincoli, i cui membri sono nominati dal Congresso stesso, che detta le regole, giudica i colpevoli ed emette le sentenze. Molti sostengono sia incostituzionale, ma il Congresso va avanti lo stesso. “Se vuoi puoi ricorrere al giudice contro le decisioni dell’Autorità”, dicono. Decisioni però che sono immediatamente operative. E se non hai i soldi, certo non potrai appellarti contro le sentenze dell’ “A-Gi-Ghi”.

L’Autorità studia come salvare l’industria del ghiaccio. Ma non lo dicono così, perché non è convincente spiegare alla gente che bisogna salvare un’industria vecchia e ucciderne un’altra nuova. Loro parlano di “diritto di congelamento”. L’acqua è privata e le aziende della FAIG possiedono la maggioranza delle azioni degli acquedotti. Pertanto non tutti sono autorizzati a congelarla. Questo è il loro assunto. Puoi pagare per avere il diritto di congelamento ma in realtà io “detentore dei diritti” posso revocartelo quando voglio perché te l’ho solo concesso. Il giacchio l’ho inventato io. Anche l’acqua è mia. Perché dovresti farci altro se non ciò che io “detentore dei diritti” decido tu possa fare con essa? La chiamano “licenza di congelamento”. Le licenze si vendono, per cui ogni cittadino compra la licenza a congelare la “loro” acqua (su cui già paga l’equo compenso). Si stabilisce anche che il cittadino comune non può produrre più di 5 cubetti al giorno. E in ogni drink non possono andarci più di due cubetti. “E il cubetto dispari?”, si chiedono in molti. La nuova legge su “diritto di congelamento” non lo dice, ma il terzo drink lo devi bere fresco appena, e non freddo come vorresti tu.

Viene inventato il sistema “Ice Rights Management”, gestione dei diritti del ghiaccio, e viene inserito nei frigoriferi. All’acqua viene aggiunto un additivo innocuo per la salute, ma che consente il congelamento solo nei frigoriferi autorizzati, quelli che rispondono alle norme tecniche dell’ “IRM”.

I cittadini fanno i salti mortali. Ci sono modi per aggirare i meccanismi di controllo ma non tutti sono capaci di adottarli. E se vieni scoperto a farlo rischi grosso. In Europa un ragazzo che ha inventato un anti-IRM è finito in galera. Anche lui era un “pirata”.

Ma anche questo non basta. Nulla sembra riuscire a fermare la rivoluzione del frigorifero domestico. Le tecniche di controllo si inaspriscono. In Francia, dove hanno lo stesso problema, la società elettrica controlla i flussi di energia: se scopre che c’è un consumo eccessivo, suppone che tu produca troppo ghiaccio. Degli ispettori pagati dalle industrie del ghiaccio possono “aiutare” lo Stato a individuare i malfattori. Se vieni scoperto a produrre cubetti non autorizzati, dopo tre infrazioni ti viene staccata la corrente elettrica. Persino la Società delle Nazioni si ribella e dichiara il frigorifero domestico “diritto umano”. Ma il suo appello cade nel vuoto.

Intanto in America tutto è ormai pronto. Il 6 luglio 1921 l’Autorità Garante per il Ghiaccio vara un regolamento che prevede la “tutela del diritto di congelamento” con ogni mezzo necessario. Compresa la tecnica detta “deep electron inspection” che consiste nel controllare a che scopo gli elettroni vengono consumati. Analoga tecnica, la “deep water inspection”, viene usata per l’acqua. Pare infatti che esistano circuiti di approvvigionamento idrico ed elettrico ancora liberi, che vanno assolutamente contrastati. Lo chiamano “Ice Rights Enforcement”, cioè “applicazione dei diritti del ghiaccio” ma non a caso la parola “enforcement” significa anche “costrizione”. Se violi la direttiva, ad esempio se regali il ghiaccio ai vicini, l’Autorità ti consente di metterti in regola entro 5 giorni. Altrimenti sempre l’Autorità mette delle palizzate intorno a casa tua e il Comune trasforma in un tappeto di chiodi il vialetto che porta nella tua proprietà, così che nessuno possa avvicinarsi. All’inizio del vialetto c’è un cartello: “Sito non raggiungibile per violazione delle norme sui diritti del ghiaccio”. L’idea è nata per contrastare i pedofili, chiudendoli in casa agli arresti domiciliari e segnalandoli alla comunità con cartelli simili. Lo chiamano “oscuramento”. Sei un delinquente, giusto? Perché qualcuno dovrebbe essere libero di venire a casa tua, magari per aiutarti a infrangere la legge? E che dire di quelli che vorrebbero il “nostro” ghiaccio da te?

Qualcuno protesta per l’equiparazione tra pedofili e “pirati”, ma la protesta rimane inascoltata.

Finalmente gli effetti di tanto lavoro incominciano a sentirsi. Migliaia di cittadini vengono “oscurati”. La gente ha paura e fa sacrifici per ottenere il poco ghiaccio concesso secondo le nuove leggi.

Le industrie di frigoriferi domestici avvertono il colpo. Alcune di esse, come “FreezerBook”, “TwiFreezer”, “Froogle” erano diventati dei veri colossi. Ora spendono più in avvocati e sistemi di controllo obbligatorio che in innovazione tecnologica sui frigoriferi. I cittadini sentono che c’è qualcosa di sbagliato, che diffondere il ghiaccio, regalarlo, usarlo per i più svariati scopi e senza limiti al numero di cubetti per drink dovrebbe essere un’attività lecita e libera. Sentono che c’è del “vecchio” in tutto questo, che se l’industria del ghiaccio è messa di fronte ad un nuovo modo di produrre e consumare, allora è l’industria che deve adattarsi. O morire. Non i diritti dei consumatori. Non la nuova tecnologia dei frigoriferi domestici.

Ma il peggio è ormai fatto. La gente ha paura. La vecchia industria del ghiaccio ha vinto. I frigoriferi nelle cucine ci sono ancora, ma sono controllati della Autorità e la FAIG ha persino degli ispettori che vanno casa per casa e denunciano i pochi trasgressori rimasti.

Eppure qualcuno lo aveva detto. Si erano levate voci che avvertivano del pericolo. Molti si sono disinteressati. Altri hanno risposto che era impossibile controllare il progresso e che esso avrebbe vinto, comunque. Non era vero. Era già successo, in Asia, che i frigoriferi dei cittadini fossero controllati dallo Stato. Chi tentò la “Rivoluzione del ghiaccio” fu duramente represso. “Ma quella è una dittatura”, ripetevano in molti. “Ciò non toglie che si possa fare, che la Rivoluzione del frigorifero può essere controllata e addomesticata”, rispondevano le cassandre. Magari non per tutti. Ci sono sempre dei pirati, degli hacker, che bucano la censura. Ma se rivelano come farlo possono venire incarcerati. Uno di loro, il leader di WikiFreeze che voleva “liberare il ghiaccio”, fu colpito con la scusa di aver molestato una donna. Non era vero, ma dovette subire un processo e andò in galera. E la maggioranza non riuscì mai ad applicare le tecniche più sofisticate per scavalcare i controlli.

Fu così che la rivoluzione del frigo domestico fu fermata. Oggi, nell’Anno del Signore 2011, pochi ricordano quegli accadimenti. Eppure hanno cambiato la Storia. Oggi per noi è un fatto assodato non avere la libertà di congelare l’acqua. Ma chiediamoci: è normale che sia così? E’ giusto? Poteva andare diversamente, se avessimo reagito in tempo?

Forse non lo sapremo mai.

P.S. Questo non è un racconto di fantasia. E’ quello che può accadere se l’Autorità Garante delle Comunicazioni italiana varerà il 6 luglio la delibera sull’enforcement del diritto d’autore: http://www.agoradigitale.org/nocensura

Solo che non parliamo di ghiaccio, ma di Internet e di libertà.

Per La Liberta’ Dei Cittadini in Rete: http://www.facebook.com/retelibera

© 2011 Guido Iodice. La copia letterale e la distribuzione di questo articolo nella sua integrità sono permesse (e caldamente sollecitate) con qualsiasi mezzo, a condizione che questa nota sia riprodotta.

Nota: Come tutte le metafore, qualcosa non coincide alla perfezione. Ma lo scopo di questo articolo è mostrare l’assurdità di voler controllare la Rete e la profonda ingiustizia dietro questo intento.

L’idea originale della metafora dell’industria del ghiaccio non è mia, ma di Bruce Perens, che l’ha usata in un contesto differente: http://www.askmar.com/Open%20Source/Bruce%20Perens.pdf

02 giugno 2011

Il mio 2 giugno

Oggi la Festa della Repubblica l'ho festeggiata a modo mio.
Mi è sempre piaciuto camminare, ma da un po' di tempo lo faccio sempre più spesso. Quasi ogni mattina (cioè tranne quelle poche vole che non sento la sveglia) per andare a lavorare non prendo l'autobus, ma mi faccio una bella camminata.
Per il mio prossimo compleanno, moglie e figli mi hanno regalato un nuovo paio di scarpe da hiking (per gli esperti: HEDGEHOG GTX XCR della TheNorthFace).


Così questa mattina nonostante il cielo grigio scuro sono partito per la prima parte del sentiero Trieste-Venezia. Mi sono staccato dal percorso poco prima del punto 4 sulla piantina presente nel link. Qui ho preso un sentiero che risaliva il ciglione carsico. e dopo aver attraversato una pineta sono sbucato nel paese di Aurisina.
La vecchia stazione del Castello di Miramare
All'inizio si passa proprio attraverso la vecchia stazione del Castello di Miramare. È ancora in stile ottocentesco. E quel che meraviglia è che ancora oggi qualche treno ci si ferma e fa servizio passeggeri. Questo perché a meno di 100 metri c'è il Centro Internazionale di Fisica.


Per la prima parte del percorso camminavo avvolto nel profumo dei biancospini. Gli unici rumori erano il canto degli uccelli. Quante voci diverse!!! Alcune non le avevo mai sentite. 


Solo ogni tanto qualche treno passava nella sottostante linea ferroviaria.


Vista sia la festività che l'ora (ho iniziato a camminare verso le 6.45) non c'era assolutamente nessuno. Solo io e la natura. Man mano che procedevo la vista si apriva. 
L'ormai lontano Castello di Miramare e, dietro, la città


A circa mezza costa scorre il sentiero
Erano circa venti anni che non passavo più per questo sentiero e vi ho trovato un bel po' di nuove costruzioni. 


La natura però è la vera regina.


Cespugli di ginestre in fiore
Moltissimi di questi fiori (che non so come si chiamino)

Fichi ancora acerbi
Dopo il paese di Santa Croce inizia la 'via della salvia' (di cui avevo parlato in un vecchio post) che deve il suo nome al fatto che in certi punti si cammina proprio in mezzo a piante di salvia selvatica.
La via della salvia
Il segno di dove dovevo abbandonare il sentiero era dato dalla torre piezometrica del vecchio acquedotto cittadino
Torre piezometrica del vecchio acquedotto

Sono sbucato nel paese di Aurisina proprio in tempo per vedere il bus che si allontanava. Siccome il seguente era dopo mezz'ora, mi sono seduto su un muretto a leggere un libro che mi ero portato dietro. 
Alle 9.30 ero a casa, felice e per niente stanco. 

Dipendesse da me domani riprenderei da dove ho lasciato (e il sogno, purtroppo irrealizzabile, e di iniziare a camminare da casa per arrivare fino a Finisterre).

Purtroppo invece devo andare a lavorare. 

Mi limiterò a farmi una camminato fino all'ufficio.

22 maggio 2011

Luciano Comida

Oggi sul giornale ho trovato una notizia che mi ha lascito senza fiato: è morto Luciano Comida.
Ci siamo 'incontrati' qui sulla rete, qualche volta abbiamo dialogato, su posizioni distanti, ma con rispetto l'uno dell'altro.
Vivendo nella stessa città qualche volta l'ho visto per strada, ma non ho mai avuto il coraggio di fermarlo, di farmi riconoscere, di stringergli la mano, di dirgli che anche se la pensava diversamente da me lo stimavo, e anche tanto.
Me ne pento.

Ciao carissimo Idefix

20 maggio 2011

L'ennesima occasione persa.


Non ho mai amato molto Susanna Tamaro. La reputo una scrittrice molto sopravalutata. I suoi romanzi hanno degli ottimi spunti, sono belle storie, ma manca sempre, a mio avviso, qualcosa. Rimangono sempre al di qua di quella soglia che ne farebbe dei libri splendidi, dei capolavori. Ci si avvicinano molto, a volte si affaciano a questa porta, ma non la valicano mai. Insomma, dopo la lettura mi rimane sempre molto amaro in bocca, la sensazione di un qualcosa che potrebbe essere stato ma non c'è riuscito.


Complice un viaggio in treno ho letto l'ultima sua opera: "Per sempre". Mi incuriosiva il fatto che per la prima volta il protagonista fosse un uomo, e le varie critiche che avevo letto erano tutte molto favorevoli. 


Piccola digressione: ma perché la maggioranza delle critiche che si leggono su riviste, rete e quant'altro, a parte alcune eccezioni, sembrano fatte con il copia-incolla?


La storia narrata è molto bella. Scritta anche bene. Il classico libro che non riesci a smettere di leggere, ma da cui ogni tanto devi fare una pausa perché le emozioni suscitate sono talmente forti che a volte hai il bisogno fisico di fermarti a riprendere il fiato. Ma sempre con la voglia di rimetterti a leggere appena possibile, appena il tuo animo ha ritrovato un po' di quiete.


Insomma, inizio a pensare che finalmente l'autrice abbia scritto un libro veramente splendido. 


Ma poi arrivo all'ultimo capitolo, alla chiusura. E qui casca l'asino. La mia impressione è che la chiusura sia stata buttata giù. Mi ha fatto venire in mente quando a scuola dovevamo fare i temi, e quando stava per scadere il tempo a disposizione, si buttava giù una chiusura quale che sia solo per consegnare in tempo. 
Non so se l'abbia terminato in questo modo perché c'erano scadenze contrattuali da rispettare. Oppure anche se la storia l'abbia presa talmente che non sapeva più come chiuderla, quasi un taglio netto per non cadere nel vortice dell'emozione. 


A conti fatti ancora una delusione, anche se notevolmente minore delle altre volte. Quella soglia non è ancora stata varcata, ma mai come questa volta ci è andata vicino.


Però nonsotante tutto è un libro di cui consiglio la lettura.

17 aprile 2011

dom. delle Palme

Proprio perché la morte, la croce, non sono l'ultima parola, non hanno vinto, in questa domenica delle Palme, più che su un episodio della Passione, vorrei fare la mia riflessione sui giorni seguenti la Risurrezione. E lo vorrei fare coll’aiuto dell’ultimo capitolo del vangelo di Giovanni, il 21.


Gesù appare agli apostoli sul lago di Tiberiade. E la prima cosa che fa è di preparare loro la cena. Quanta delicatezza e fraternità in questo gesto!


Poi per tre volte domanda a Pietro: “mi ami tu?” e ad ogni risposta lo conferma nella sua vocazione di pastore. Tre volte a cancellare i tre rinnegamenti. Ma soprattutto l’esame non è sulla dottrina, ma solo sull’amore.


Perché ogni vocazione, che sia quella di pastore o quella di coniuge, o di genitore, o di qualsiasi altra cosa a cui Dio ci chiama, non è altro che una vocazione d’amore.


E le parole che Gesù rivolge poi a Pietro: “ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” non sono altro che lo sviluppo di ogni vocazione d’amore.


Perché amare non è guardarsi negli occhi, ma guardare insieme in una stessa direzione. Amare non è fare, ma lasciarsi fare. Amare è prendersi per mano, non per condurre, ma per lasciarsi portare.
Amare è realmente un farsi portare dove noi non avremmo mai voluto andare, dove non pensavamo neanche lontanamente di poter arrivare. Ma dove, una volta arrivati, ci rendiamo conto che solo li è il nostro posto, solo li è la nostra felicità più piena. E ci rendiamo conto che solo amando abbiamo potuto raggiungere questo traguardo.

10 aprile 2011

quinta dom. di Quaresima

Nei vangeli della Passione l’evangelista Luca, oltre a quello visto la settimana scorsa, aggiunge anche un altro particolare non raccontato dagli altri evangelisti: “E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E, uscito, pianse amaramente.” (Lc 22, 60b-62)


Mi ha sempre colpito molto questo sguardo di Gesù. E non posso pensarlo in altro modo che come uno sguardo colmo di amore e di misericordia.


Ed è dopo questo sguardo che Pietro si ricorda di ciò che gli aveva detto il Signore. 


È solo l’amore che riesce a tirare fuori il meglio di noi stessi, è solo l’amore che ci fa realmente rendere conto dei nostri sbagli in modo che possiamo migliorare.
Il rimprovero, il rinfacciarci le nostre colpe, il più delle volte generano un sentimento di difesa, di auto giustificazione. 


L’amore ci mette di fronte ciò che possiamo essere, ciò che possiamo diventare nonostante il nostro passato, nonostante i nostri peccati.


Solo davanti ad uno sguardo pieno d’amore e di misericordia scopriamo quello di grande che possiamo essere, e invece quello di piccolo che ci limitiamo a vivere. Ma questa scoperta, proprio perché fatta alla luce dell’amore e della misericordia non ci schiaccia né ci abbatte, ma ci dona le ali per volare nelle braccia protese del Signore che ci vuole solo amare.

I figli: una continua scoperta

Uno pensa di conoscere bene i figli, ma poi questi non finiscono mai di meravigliarti.
Come ho detto nel post precedente ieri è stata un giornata particolare. 


Ebbene il grande, che ultimamente era sempre serio e taciturno (veniva a trovarci e non apriva bocca tutto il tempo) per i problemi di lavoro, è stato quasi tutta la mattina con noi.


Il piccolo, che non hai mai parlato molto, ma che in questo periodo si vedeva solo a cena (e anche qui era l'ultimo a sedersi e il primo ad alzarsi) perché era sempre o in università o chiuso in camera sua a studiare, quando siamo tornati a casa, abbiamo scoperto che aveva fatto la spesa, passato l'aspirapolvere per tutta la casa, fatto una lavatrice, e stirato tutta la roba della settimana!!!!


Decisamente non mi merito dei figli così

09 aprile 2011

La scuola del Pronto Soccorso

Una mattina al Pronto Soccorso può anche essere una bella lezione.
Essere totalmente nelle mani di altri, dover dipendere da loro e dalle medicine ti fa capire che non puoi controllare tutto. Che ci sono dei momenti e delle occasioni in cui l'unica cosa che puoi fare è abbandonarti, lasciarti fare e lasciarti condurre.


Un bel corso pratico di umiltà (che in Quaresima ci sta sempre bene)


A tranquillizzare chi mi legge. 
Questa notte un calcolo renale (che non sapevo di avere) ho deciso di fare le bizze. Due ore di coliche renali e questa mattina ricovero al pronto soccorso. Questo pomeriggio dimesso. Adesso a casa, un po' a pezzi, ma tutto bene.

06 aprile 2011

The Way

Antefatto
45 anni fa. Classe seconda media. Ora di storia. Argomento: il valore dei pellegrinaggi nel medioevo. La testa (mia) parte in un 'sogno': perché non rifare anche oggi quei cammini e in particolare quello cha va a Santiago?
Nel corso degli anni questa idea va e viene, ma sempre tutto rimane a livello di fantasticheria, di sogno ad occhi aperti.

Rapido zoom ad un mesetto fa
In autobus incontro una signora che conosco e che era non vedevo da un po' di tempo. Mi racconta che il marito, per festeggiare la collocazione in pensione, si era fatto il Cammino di Santiago, da Saint-Jean-Pied-de-Port a Santiago. È lanciare un sassolino che scatena una valanga.

Da allora sto leggendo tutto quello che trovo a questo proposito.

Ieri sera ho avuto occasione di guardare (in inglese e senza sottotitoli) il film "The Way" di Emilio Estevez con Martin Sheen.
Racconta il dramma incentrato sulla storia di Tom Avery, oftalmologo californiano che - alla notizia della morte del figlio durante una tempesta sui Pirenei - si reca in Francia per farlo cremare, poi ripone l’urna con le ceneri nello zaino del ragazzo e si mette in viaggio lungo il Cammino di Santiago, portando a termine il pellegrinaggio intrapreso dal figlio. E il Cammino è anche una riscoperta del figlio.

Piccola (per modo di dire) difficoltà è stata la lingua. Lui parla con un forte accento americano, per cui non è sempre comprensibile. Ma quello che è veramente incomprensibile è lo scrittore irlandese. Parla con accento irlandese spiccato, cioè velocissimo e in modo 'martellante'. Sono riuscito a capire si e no il 10% di quello che diceva  . Un po' di problemi all'inizio con la canadese, ma poi tutto liscio. L'olandese invece in alcuni momenti parlava con forte accento 'fiammingo', ma era sempre intellegibile.
Questi sono i 4 protagonisti principali.

Penso che abbia ben descritto lo spirito del Cammino, anche se mi domando come delle persone che dormono all'aperto alla mattina possano essere linde e pulite come se fossero appena uscite da una doccia e da un trattamento di visagista.

Non vengono celati alcuni aspetti 'negativi' del cammino, come ad esempio il non riuscire a dormire per causa dei russatori, o il fatto che non tutti gli hospital sono accoglienti allo stesso modo.
Però nessuno ha mai né una vescica né un mal di schiena o una tendinite.

Un'altra cosa che mi ha un po' meravigliato è il fatto che una persona che fino al giorno prima se solo doveva fare più di 10 metri prendeva un mezzo di trasporto (Martin Sheen), riesca poi a farsi tutto il Cammino senza sforzi eccessivi.

Questi aspetti però non impattano sul giudizio complessivo. Descritto molto bene (a mio avviso) il clima che si crea tra i pellegrini, la complicità e la fratellanza. E anche i momenti di tensione e le litigate alla fine vengono superati e sono occasione di un approfondimento del rapporto.

La scena finale mi pare che sia uno strizzare l'occhio al gusto americano che vuole sempre un lieto fine che sia conclusivo. Per i miei gusti il film era finito a Finisterre. Ma questa è solo una considerazione personale.

Mi è piaciuto molto il contrasto tra le scene iniziali in cui si vedono solo macchine e in cui nessuno cammina, poi c'è lo stacco con i titoli, e infine tutto il film in cui le macchine sono praticamente assenti.

Nel complesso un film molto bello. Fa venire voglia di preparare lo zaino e mettersi in cammino.

03 aprile 2011

quarta dom. di Quaresima

Nel racconto della veglia nell’orto del Getsemani, l’evangelista Luca (22,43) aggiunge un particolare: Dio manda un angelo a consolare Gesù.


A tutti nella vita capitano dei momenti di scoraggiamento, di prostrazione profonda. Di dolore indicibile. Indicibile proprio perché non si può comunicare. Anche alle persone più care, che ci sono più vicine, la nostra sofferenza rimane in parte incomprensibile. Il sonno che coglie Pietro, Giacomo e Giovanni non è segno di indifferenza, ma del nostro limite umano, Nel dolore dell’altro, per quando ci sia caro, rimane sempre una zona irraggiungibile, incomprensibile, misteriosa.


Quando si soffre così, ci si sente sempre molto soli, abbandonati da tutti. Anche Dio a volte sembra lontano e insensibile al nostro dolore.
Ma se proprio in quei momenti si ha la forza di dire: “Non io, ma Tu. Non la mia ma la Tua volontà sia fatta”, allora il Signore ci manda un angelo per consolarci, per darci forza e coraggio.


Può essere un sorriso da una persona sempre seria, un “grazie” per qualcosa che neanche ci siamo accorti di fare, un gesto di amicizia e di affetto da chi conosciamo appena. Sono cose apparentemente piccole, ma che ci danno forza, ci danno il coraggio di affrontare la prova che stiamo vivendo, danno al nostro cuore un po’ di pace e di serenità. Ci fanno capire che non siamo soli, ma che c’è Qualcuno che ci ama di un amore molto più grande del nostro dolore.

27 marzo 2011

terza dom. di Quaresima

Il vangelo di Giovanni nel racconto dell’Ultima Cena, invece dell’istituzione dell’Eucaristia, ci narra la ‘lavanda dei piedi’. 
A questo proposito Madeleine Delbrêl scriveva: 


Se dovessi scegliere una reliquia della Tua Passione, prenderei proprio quel catino pieno d’acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente e a ogni piede cingermi dell’asciugatoio e curvarmi giù in basso, non alzando mai la testa oltre il polpaccio per non distinguere i nemici dagli amici.
E lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato, del carcerato, dell’omicida, di chi non mi saluta più, di quel compagno per cui non prego mai.
In silenzio...
Finché tutti abbiano capito

Per lavare i piedi a qualcuno bisogna chinarsi, inginocchiarsi di fronte a lui. È un gesto allo stesso tempo di servizio e di adorazione. Servizio all’uomo, al fratello; e adorazione all’immagine di Dio presenta in tutti gli esseri umani. 
Per lavare bene i piedi a qualcuno bisogna fissare il nostro sguardo ai suoi piedi. E dimenticare se il volto ci è noto o sconosciuto, simpatico o antipatico. Dimenticare se la persona ne è degna o meno, se è un santo o il peggiore degli uomini. Dimenticare tutti i titoli, le etichette.
L’unico titolo che conta è questo: uomo, figlio di Dio, fratello.

21 marzo 2011

Un libro ritrovato


Nell'antologia delle medie c'era un piccolo brano che mi incuriosì molto: parlava di un bambino di 4 anni, Ulysses, che vive ad Ithaca. Nelle note si diceva che il era il co-protagonista, assieme al fratello tredicenne Homer, del libro "La Commedia Umana" di William Saroyan. Trovai il libro, lo lessi tutto e devo dire che mi piacque molto.
Poi nel corso dei fatti della vita l'ho perso. Ma mi era sempre rimasto un po' nel cuore. Qualche giorno fa in una libreria l'ho trovato (l'ha riedito la Marcos y Marcos). Comprato, letto e riamato.
Non ha perso la sua bellezza. Bellezza delle cose piccole e semplici, ma che sono piene di senso, di gioia e di tristezza, di VITA. È commovente senza essere melenso.


Al di là dei nomi 'classici' (per completare il quadro c'è anche una Helen) niente a che vedere con riedizioni o riletture di Iliade od Odissea. La storia si svolge in America durante la seconda guerra mondiale. È una storia della gente tutti i giorni, degli umili che accettano “l’universo”. 
Libro adatto a tutte le età, dai 12 ai 99 anni.






Un uomo che non piange di fronte al dolore del mondo è un uomo per modo di dire. Nel mondo ci sarà sempre dolore. Questo non significa che si debba perdere la speranza. Un uomo vero si sforzerà di eliminare il dolore del mondo. Un uomo meschino non lo vedrà nemmeno, tranne che in se stesso. E un uomo malvagio, per sua disgrazia, porterà al mondo altro dolore, seminandolo ovunque andrà. Ma non è colpa di nessuno, mi sa, perché nessuno ha chiesto di venire al mondo” (p. 169).


La mano di Saroyan è piena di rabbia, una rabbia armena eppure americana: e soprattutto, la sua scrittura è fantastica, lirica fino all'ultimo punto, all'ultima virgola. (John Fante) 

20 marzo 2011

seconda dom. di Quaresima

Nei giorni che passano tra l’ingresso trionfale a Gerusalemme e la Sua Passione, Gesù si reca spesso al tempio. Durante una di queste visite c’è l’episodio dei due soldi della vedova.


Per fortuna della chiesa il suo è un esempio che continua attraverso i secoli. Quello della povera vedova è un deposito continuamente alimentato dagli umili, dai semplici, dalla gente che non conta e che non appare. Vi vengono versati fede, generosità disinteressata, sacrificio, fatica quotidiana, fedeltà sofferta, dedizione nascosta, preghiera. Cioè vangelo preso sul serio. E il tutto accompagnato da umanità, pietà, misericordia, compassione.
Ed è solo questo il tesoro della chiesa, queste sono le sue vere ricchezze.


In ogni edificio ci sono le colonne portanti, quelle che assicurano che la casa stia in piedi, e senza le quali al minimo soffio di vento la costruzione crolla. Ma queste strutture portanti sono nascoste, in vista ci sono le facciate, le pareti. Tutte cose appariscenti, utili ma non fondamentali, funzionali, a servizio delle colonne portanti.
Diaconi, preti, vescovi hanno senso solo se sono a servizio delle vere colonne portanti, di coloro che nascostamente, silenziosamente, il più delle volte senza neanche rendersene conto, reggono il peso della chiesa, fanno si che essa sia sempre viva, sia sempre in piedi. Sono tutte le ‘povere vedove’ e i ‘poveri vedovi’ che assicurano la sopravvivenza della chiesa. La continua presenza di Dio sulla terra.

13 marzo 2011

prima dom. di quaresima

In questa prima domenica di Quaresima cerchiamo prima di ogni altra cosa di cogliere il senso vero e profondo  di questo tempo liturgico.

Quando pensiamo alla Quaresima,  il nostro pensiero va subito verso la penitenza, il digiuno e la rinuncia. Pensiamo a visi tristi; pensiamo a quaranta giorni come quelli che Gesù ha passato nel deserto, in solitudine e digiuno, o ai quarant’anni che il popolo di Dio ha passato nel deserto del Sinai camminando verso la Terra Promessa.

Tutte cose vere e giuste, ma che rappresentano solo la punta dell'iceberg, la parte più visibile, ma non la maggiore né la più importante.

La Quaresima non è un tempo di austerità o di tristezza, né un periodo per coltivare la colpa fissando il nostro sguardo su di noi, sulle nostre colpe e le nostre mancanze. È soprattutto un momento per cantare la gioia del perdono. I quaranta giorni quaresimali sono il periodo che Dio ci dona per prepararsi a riscoprire le piccole primavere delle nostre esistenze.

Quando, all’inizio del Vangelo di san Matteo, Giovanni Battista proclama «pentitevi!», egli vuol dire «volgetevi verso Dio!». Sì, durante la Quaresima, noi dovremmo volgerci verso Dio per accogliere il suo perdono. Cristo ha vinto il male e il suo costante perdono ci permette di rinnovare la nostra vita interiore. È alla conversione che siamo chiamati: non a volgerci verso noi stessi in una introspezione o in un perfezionismo individuale, ma a cercare la comunione con Dio e la comunione con gli altri.

10 marzo 2011

La forza della vita





Sorpresa di questa mattina arrivando al lavoro. I boccioli hanno resistito a tre giorni di bora fino a 180. E questa mattina hanno iniziato a sbocciare.

25 febbraio 2011

26 gennaio 2011

Registro pubblico delle opposizioni

Dal 31 gennaio prossimo sarà attivo il Registro Delle Opposizioni


È il luogo a cui registrarsi se non si vogliono più ricevere le telefonate pubblicitarie. Da questa data ogni operatore di telemarket dovrà verificare che le persone che ha intenzione di contattare non siano inserite in tale elenco.


Maggiori informazioni si possono trovare anche a questo indirizzo.


E come diceva il maestro Manzi:


Non è mai troppo tardi!

14 gennaio 2011

Un cammino liberazione: Il Decalogo (2)

L’altra volta abbiamo visto come il Decalogo possa essere considerato come la ‘legge della li­bertà’. Nella concezione attuale però, legge e libertà sono due termini che vengono sempre più vissuti come antitetici, si tende a intendere la libertà innanzi tutto come un non dover adeguarsi a nessuna regola e nessuna legge.

Però noi viviamo immersi in tutta una serie di regole di cui siamo più o meno consapevoli. Il lin­guaggio stesso che usiamo per comunicare con gli altri non è che tutta una serie di regole. Innanzi tutto ogni lingua usa certi fonemi e non altri, poi li organizza in parole che abbiano un senso e inol­tre organizza le parole in strutture, le frasi, che seguono tutta una serie di regole. Tutte queste regole quando parliamo le applichiamo inconsapevolmente. Ne diventiamo consapevoli quando ad esem­pio studiamo una lingua straniera, specie se questa lingua appartiene ad un ceppo linguistico diverso da quello della nostra madrelingua.

Proprio l’esempio delle leggi del linguaggio ci permette di capire il senso delle regole. Se noi vi­vessimo completamente soli in un’isola deserta, allora potremmo elaborare il nostro linguaggio come meglio a noi piace. Ma dal momento che viviamo a contatto con altre persone, proprio per in­teragire con loro, per comunicare il nostro pensiero, i nostri desideri e per capire gli altri, diventa necessaria la costruzione di tutta una serie di regole comuni a tutti. 
Una persona completamente isolata e senza nessun contatto con altri può essere legislatore a sé stesso. Ma quando una persona è inserita in un gruppo, in una società, allora sono necessarie delle regole. Questo proprio perché se la mia libertà finisce dove inizia la libertà dell’altro, senza leggi si ha solo la legge della giungla: vince il più forte. E tutti gli altri sono suoi schiavi. Sotto questo punto di vista è significativo che la Bibbia, presentando il primo incontro di un essere umano con un altro, ci narri l’episodio di Caino e Abele. Senza leggi, senza regole non si ha convivenza ma lotta e so­praffazione del più debole.

Ma chi stabilisce le regole? Perché se è importante che delle regole ci siano, è anche importante stabilire chi le deve promulgare, in modo che non ci sia solo la legge del più forte, del più potente. C’è bisogno di un’autorità, da tutti riconosciuta, che operi nel rispetto di tutti. Inoltre con questa au­torità deve essere possibile il dialogo, non deve essere inaccessibile, lontana, sorda alle nostre esi­genze, ai nostri problemi e alle nostre aspirazioni.
Sotto questo punto di vista i 10 Comandamenti sono esemplari. Vengono proposti da un’autorità esterna, ma questa autorità non si presenta in virtù del suo potere, della sua forza, ma solo come co­lui che ha ascoltato i lamenti e le preghiere, che è intervenuto per porre fine alle sofferenze, per li­berare e condurre alla felicità e alla festa.

Indicativo anche il modo del verbo usato. In ebraico non esiste l’imperativo negativo. Al suo po­sto viene usato l’imperfettivo. Per cui, ad esempio, la traduzione più fedele non è ‘non uccidere’ ma ‘non ucciderai’. Non è solo una caratteristica grammaticale, ma è anche segno di molto realismo. Non siamo sempre e in ogni momento col desiderio di uccidere, rubare, mentire, tradire il coniuge. Siamo esseri con pregi, ma anche con difetti, che possono essere soggetti a tentazioni. Il Decalogo non ci vede come peccatori incalliti, ci considera individui fragili, esposti a volte alla tentazione, persone che potrebbero “anche” peccare ma non è detto.
Quindi quel futuro è un elemento che tiene conto della dignità e della fragilità dell’uomo, della sua grandezza ma anche della sua miseria.

Etica e Morale

I 10 Comandamenti rappresentano un’etica o una morale? 
Prima di cercare di capirlo bisogna sapere la differenza tra le due cose. È questa una cosa dibat­tuta, sono state avanzate molte proposte. Penso che la più chiara e semplice sia quella di Paul Ri­coeur.
Paul Ricoeur identifica l’etica come ciò che ha per meta una vita compiuta. È l’orizzonte, il fine dell’individuo e della comunità, il progetto a cui si tende. Invece la morale è costituita dalle norme concrete che si adottano per realizzare un’etica. Queste norme possono, e a volte devono, cambiare in base al variare della situazione. Ma possono anche cambiare in seguito ad una maggiore com­prensione e approfondimento dell’etica che le ha generate. 
Cioè l’etica è una promessa di felicità per sé e per gli altri. La morale è l’insieme di norme per pervenirvi.
C’è, e ci deve essere sempre, dialettica tra etica e morale. Se si perde di vista o si dimentica l’eti­ca, la morale diviene un’insieme di pratiche imposte, senza più senso, gravose e assurde. Ma senza norme morali, l’etica diventa un vago orientamento, un principio vuoto e astratto.

Tornando alla domanda, direi che il Decalogo, sotto questo punto di vista rappresenti più un’etica che una morale. Quindi sta a noi elaborare, a partire da questa etica, una morale. D’altra parte Dio ha sempre cercato la nostra collaborazione, non ci ha mai comandato a bacchetta, ma ci ha sempre dato fiducia, ci ha sempre invitato a prenderci le nostre responsabilità.
Penso che il fatto che già nella Bibbia ci siano due versioni leggermente diverse dei Comanda­menti (Es 20,2-17 e Dt 5,6-21) sia indice di questo. Se poi confrontiamo queste due versioni con quella che abbiamo studiato a catechismo, vediamo che ci sono ancora più differenze. Non sono dif­ferenze sostanziali (se si eccettua il divieto al farsi immagini), sono diversità dovute ad un appro­fondimento, ad una maggior comprensione. Come diceva s. Gregorio Magno “la Scrittura cresce con chi la legge”, il Decalogo, pur conservando una caratteristica di fondo di immutabilità, tuttavia cresce nello svolgersi della storia umana. C’è una comprensione sempre più profonda del testo, se ne scoprono sempre più implicazioni e determinazioni pratiche man mano che lo si interroga e non si cessa di ricercare e meditare.

Distruzione e costruzione

Un’ultima notazione ‘geografica’. Le tavole con i 10 Comandamenti sono state donate da Dio sul monte Horeb. I maestri ebrei fanno notare che il nome deriva dalla radice “h’arav” che significa ‘distruzione’. Quindi il dono della legge è legato alla distruzione. La spiegazione che danno di que­sto è che il Decalogo demolisce l’ordine precedente, rovescia le nostre idee precedenti, distrugge il nostro egoismo, per stabilire un’armonia nuova nel mondo e in ciascuno di noi.
Ma questo suggerisce anche un’altra considerazione. L’Horeb si trova nel mezzo del deserto del Sinai. Allora i 10 Comandamenti, oltre a distruggere, hanno anche lo scopo di far fiorire il deserto, rendere la terra più abitabile per gli uomini.
Siamo noi, col nostro egoismo, che abbiamo reso aspra, selvaggia, desertica la terra dove Dio ci aveva collocati perché vivessimo come fratelli. Nel deserto creato da noi abbiamo aperto le gabbie delle nostre belve. Le Dieci Parole dovrebbero trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne, ammorbidire le nostre durezze, neutralizzare la nostra cattiveria. Ricordarci che la nostra vocazione è quella di essere custodi, sia della terra-giardino (Gn 2,15) che del proprio fratello (Gn 4,9), e non quella dell’animale da preda che tutto devasta, calpesta, che vuole solo azzannare e sbranare.
Dal Decalogo nasce la civiltà del rispetto.

01 gennaio 2011

Buon Anno

Saprai accogliere il giorno che spunta come un oggi di Dio?
Saprai cogliere stimoli di poesia ad ogni stagione, nei giorni di luce piena come nelle notti gelide d'inverno?
Saprai rendere gioiosa la tua umile abitazione con segni che allargano il cuore?


Senza riserve mentali, senza rimpianto, senza nostalgia, cogliere gli avvenimenti, anche i più piccoli, con una capacità inesauribile di meravigliarsi.
Va', cammina, avanza un passo dopo l'altro dal dubbio verso la fede e non preoccuparti delle impossibilità.
Accendi un fuoco, anche con le spine che ti dilaniano


fr. Roger