30 marzo 2014

quarta domenica di Quaresima

Nei Fioretti leggiamo: un giorno Francesco dice al suo compagno: “Vieni, fratello, andiamo a predicare”. Risponde il fraticello: “Ma, Padre, come posso predicare io che sono tanto ignorante?”.
“Non ci pensare - sussurra Francesco - andiamo, andiamo a predicare”.
Vanno girando per la città e pregano insieme camminando, salutano tutti in pace ed umiltà, aiutano insieme i bisognosi.
Dice infine Francesco al compagno: “Vieni, fratello, torniamo al convento”. “Ma, Padre mio, la nostra predica?”.
Sorridendo gli replica Francesco:
“Ma è già finita, fratello mio. La più bella predica è l’esempio: noi oggi l’abbiamo fatta così”
.

E, come ci ha ricordato papa Francesco nel corso della sua visita ad Assisi, il santo esortava i suoi frati dicendo: “dobbiamo predicare sempre e senza sosta il Vangelo. Se serve anche con le parole”.

Gesù ci ricorda che non è su ciò che diciamo che verremo giudicati, ma su cosa abbiamo fatto (Mt 7,21). E negli Atti leggiamo che molte persone si convertivano ‘vedendo come si amavano’ i cristiani. 

Viviamo in una società che non capisce più le nostre parole, che non sa che farsene dei nostri innumerevoli documenti. La gente trova maestri, spesso anche più attraenti, dappertutto. Ne ha talmente tanti che non ci bada neanche più. 

Le persone non hanno bisogno di maestri, ma hanno una fame straziante di testimoni. Non sanno cosa farsene di uno che gli dice che devono amare, ma hanno un disperato bisogno di due braccia protese ad abbracciare, di due labbra che si aprono non per parlare, ma per sorridere. Hanno l’esigenza di vedere, di toccare con mano che un altro modo di vivere è possibile.

Soprattutto cercano persone che prima fanno  e poi, a volte, dicono, persone che più che con le parole, gli parlino con la loro vita, persone che non gli indichino solamente la strada, ma che le accompagnino, che siano coinvolte nei loro problemi, nelle loro paure ma anche nelle loro gioie in modo anche da festeggiare insieme.

Il cristiano più che bocca parlante (spesso a sproposito) è chiamato ad essere cuore palpitante d’amore.

23 marzo 2014

terza domenica di Quaresima

Di circa il 90% della vita di Gesù non sappiamo assolutamente niente: è il mistero della vita nascosta. Noi ci dimentichiamo molto facilmente di quei 30 anni, ma sono egualmente salvifici degli ultimi 3 anni; ai fini della nostra salvezza hanno la stessa importanza e la stessa efficacia degli ultimi giorni. Gli ultimi 3 giorni, gli ultimi 3 anni, la vita pubblica di Gesù, ci sono proprio perché prima ci sono stati 30 anni di vita nascosta.

L’unica cosa che sappiamo è che in questi anni Gesù era sottomesso ai suoi genitori e “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52). Una vita normale, come tutti gli esseri umani, senza apparente grandezza, vita di lavoro manuale, vita religiosa, vita nella comunità.

E qui abbiamo una prima indicazione: la nostra via alla santità, alla salvezza, non la dobbiamo percorrere nonostante la famiglia, nonostante il lavoro, nonostante le centinaia di impegni quotidiani, ma attraverso, per mezzo: famiglia, lavoro, impegni non sono un impedimento, un freno alla nostra salvezza, anzi. Sono proprio gli strumenti, i mezzi che Dio ci dona per la nostra salvezza! Non è con i gesti clamorosi, eroici, che diventiamo santi, ma con i piccoli gesti di ogni giorno fatti per amore e per il Signore.

E così ricaviamo la seconda indicazione: non è mettendoci in mostra, mettendoci sempre in prima fila, che facciamo la volontà di Dio. Facciamo la volontà di Dio quando siamo ciò che siamo, quando siamo semplicemente moglie, marito, figlio, padre, madre, lavoratore e così via. Semplicemente ma fino in fondo, seriamente. La vita nascosta di Gesù è la celebrazione divina del lavoro quotidiano.

Ma la lezione forse più difficile in questa società, è che la vita nascosta ci insegna il silenzio. Dobbiamo riscoprire, dobbiamo imparare a stimare il silenzio. Senza il silenzio le nostre parole sono un semplice usare le corde vocali. Le parole più vere e più efficaci nascono solo dal silenzio. Solo il silenzio ci apre alla Parola che ci pone nel cuore le parole.

16 marzo 2014

seconda domenica di Quaresima

La carità è la scala verso il paradiso. Ma non è una scala lunga o impervia. È una scala piccola, con solo 3 gradini, ma per arrivare in cima bisogna farli tutti. E questi sono:
1 - Non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te;
2 - Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te;
3 - Fai all’altro ciò che di cui lui ha realmente bisogno.

Il primo gradino, cioè non fare il male, non far soffrire, non è un livello trascurabile, però non basta. Dire “io non faccio del male a nessuno” non basta per farci ritenere a posto. Può addirittura essere un atteggiamento egoistico, volto a semplice tutela della nostra tranquillità, a giustificare la nostra indifferenza. Non si deve confondere l’amore con l’amore del quieto vivere.

Il secondo gradino rappresenta la novità evangelica. Siamo decisamente ad un livello superiore. Difatti qui si tratta di fare del bene, non solo di evitare di fare il male. Però c’è il rischio di rifilare all’altro il nostro bene, cioè quello che noi abbiamo in testa, quello che decidiamo noi, e che non è detto che sia il suo bene. C’è il pericolo di trapiantare nell'altro i nostri desideri e le nostre esigenze.

Bisogna arrivare al terzo gradino. E questo richiede attenzione, delicatezza, rispetto. Occorre scoprire ciò che l’altro cerca realmente da me, in questo momento, in questa situazione particolare, evitando di appioppargli il prodotto che abbiamo stabilito noi, che abbiamo scelto in partenza. Bisogna “ascoltare” veramente l’altro (anche quando non riesce a parlare, anche in quello che non riesce a esprimere), e non interpretare a modo nostro le sue richieste. Bisogna ascoltarlo fino al fondo del suo cuore, anche nella sua voce silenziosa, facendo tacere tutte le altre voci (le voci chiassose dei nostri impegni improrogabili, della comodità, degli interessi, delle nostre risposte stereotipate e preconfezionata, della preoccupazione di non aver fastidi e di non cercare guai...)

09 marzo 2014

prima domenica di Quaresima

Una leggenda spagnola racconta che un penitente andava sempre a confessare lo stesso peccato dallo stesso sacerdote. Il sacerdote, alla fine, gli dava l’assoluzione, raccomandandogli però di emendarsi. All’ennesima confessione, si spazientì e non volle più dargli l’assoluzione. Si sentì allora una voce proveniente dal Crocifisso posto dietro il confessionale “Non sei mica morto tu in Croce per lui...” e Cristo abbassò il braccio dalla Croce per dare lui stesso l’assoluzione al penitente.

In genere dire “leggenda” equivale a dire “cosa non vera, cosa inventata”. E stando al vocabolario questo è proprio uno dei significati di questa parola. Ma c’è un altro significato: spiegazione, ausilio alla lettura (pensiamo alla leggenda alle figure, cioè la spiegazione di un’immagine o di un disegno).
Ed è con questo significato che vorrei usare questa leggenda.

La prima cosa che mi sembra ci illustri questa leggenda è che Dio non si stanca mai di perdonare. Anzi, per Lui è sempre il momento buono per perdonare. Basta solo che glieLo chiediamo. In fondo si è fatto uomo, ha vissuto in mezzo a noi, si è fatto mettere in croce solo per questo: perdonarci. Possiamo dire che ci perdona perché così ci può donare le gioia vera: perdona per donare.

E la seconda che ci racconta è che non importa se gli altri, se la società ci condannano. Non importa neanche se il nostro cuore ci condanna, perché Dio è più grande del nostro cuore (1Gv 3,20). Lui non chiede altro che di perdonarci. Come col figliol prodigo, non chiede neanche il nostro pentimento, non gli interessa se andiamo da Lui per calcolo, interesse o abitudine: gli basta che decidiamo di tornare da Lui. Non dimentichiamo mai che il contrario del peccato non è la virtù, ma la grazia di Dio.