30 marzo 2008

A scuola dai bambini

S. è un bambino di tre anni. È un bambino dolcissimo, lo si vede dallo sguardo, dal modo di fare, ma soprattutto da come letteralmente 'adora' F., la sorellina di un mese.
Tra lui e me c'è da tempo una consuetudine: al termine della Messa, ci incontriamo e insieme andiamo, mano nella mano, in sagrestia. Qui gli do un'ostia non consacrata.
Col passare del tempo anche altri bambini si sono accodati, e così finita la messa sono accerchiato.
Domenica scorsa mi ha chiesto un'ostia anche per sua sorellina. Io gliel'ho data e gli ho chiesto se, visto che F. non la può mangiare, l'avrebbe mangiata lui. "No - mi ha detto - la dò alla mamma, così F. prende Gesù col latte".
Pace e benedizione

29 marzo 2008

Amico grande o Grande amico?

A. è un bambino di circa 8 anni, piccolo per le sua età, con gli occhiali tondi su di una faccia smilza, sempre allegro e mai fermo.
Prima della Messa delle 10 (quella per i giovani) aiuta sempre la suora a mettere a posto le panche per i piccoli, le sedie per il coro. E io, nel mio giro per la chiesa per salutare le persone, mi fermo sempre a fare due chiacchiere con lui, a informarmi se la suora l'ha pagato (una caramella) per il lavoro che aveva fatto, e le varie piccole cose che si dicono tra un adulto e un bambino.
La Domenica di Pasqua, solito giro, questa volta per fare gli auguri. Mi fermo dalla mamma di A., lui è seduto sul banco poco distante. Quando ho finito di parlare con sua mamma, A. i viene incontro, mi abbraccia forte-forte ed esclama "Il mio grande amico!". Poi mi fa vedere tutto orgoglioso la sua nuova cravatta. È giallo fosforescente, con i Simpson. Per farmela vedere meglio la sfila dal maglione che la ricopre. E siccome io dico che mi piace molto e che anzi, se un giorno mi servisse una cravatta, gli domando se me la può imprestare, decide di non metterla più sotto, ma di tenerla sempre in vista. E si fa tutta la Messa con questa cravatta che gli arriva fino quasi alle ginocchia bene in vista.
Il regalo più bello di questa Pasqua me lo ha fatto A. chiamandomi suo grande amico.

Approfitto del sorriso di A. (e del sorriso che lui mi ha donato) per ricordare la campagna Un sorriso lungo un anno.

Pace e benedizione.

Noi e la Parola


Tra le varie letture di questi giorni pasquali c'è quella dei discepoli di Emmaus. Dopo la constatazione che in pratica Gesù con loro celebra una Messa (liturgia della Parola e liturgia eucaristica), una cosa che mi ha sempre colpito è la constatazione dei due: come ci ardeva il cuore quando ci spiegava le Scritture.

È un passaggio che mi ha sempre fatto un po' tremare i polsi.
Mi spiego. Noi ministri della Parola (e non intendo solo quelli ordinati, ma tutti coloro che a vario titolo si trovano a dover commentare/spiegare/proclamare la Bibbia) riusciamo a "scaldare i cuori" di coloro a cui ci rivolgiamo? o riusciamo solo ad annoiarli o ad addormantarli? quando non ad allontanarli dalla Chiesa?

Penso che il problema principale sia innanzi tutto se quella parola ha prima scaldato il nostro cuore. Amiamo realmente, teneramente, quella Parola? l'abbiamo assaporata, gustata, ruminata? l'abbiamo fatta penetrare nel nostro cuore? è stata realmente una spada a due tagli che ci è penetrata nelle ossa e nelle giunture?

Non basta essersi preparati intelletualmente, aver letto magari un mucchio di dotti trattati di esegesi e di critica testuale. Per poter parlare della Parola, bisogna che sia diventata la base della nostra vita. Dovremmo parlarne come un ragazzo parla della sua fidanzata, più che lo studio, dalle nostre parole deve sgorgare l'amore, la vita. Più che con la testa (che comunque non andrebbe dimenticata) dovremmo parlarne col cuore. Con un cuore ardente d'amore, di passione.

Pace e benedizione

21 marzo 2008

Buona Pasqua

È Pasqua.

L'angelo del sepolcro ci annuncia che Gesù non è più qui, che ci precede in Galilea.

Sempre così con Gesù: non è mai dove ci aspettiamo, non è mai dove lo cerchiamo. Fin dall'inizio ci ha detto "seguimi". Invece a noi farebbe molto comodo un Dio che stesse fermo, che ci desse la possibilità di sapere sempre dov'è, ma soprattutto dove non è presente.

Per fermarlo, per bloccarlo, facciamo di tutto: l'abbiamo messo in croce, sperando che dei chiodi gli impedissero di muoversi; l'abbiamo messo in un sepolcro, sperando che una grossa pietra gli impedisse di andersene in giro per il mondo.

Ma tutto questo non è stato sufficiente. Lui non si lascia di certo bloccare da noi, dal nostro egoismo e dai nostri piccoli interessi.
Lui ci precede sempre, e noi dietro ad arrancare appesantiti dalle nostre false certezze e dalle nostre infime sicurezze.

Che questa Pasqua sia l'inizio di un viaggio dietro a Lui verso le braccia protese del Padre.

Auguri a tutti.

16 marzo 2008

Domenica delle Palme - Il Cireneo


Anni fa vi proponevo di andare a lezione di teologia dagli asini (chi fosse interessato vada qui, invece quest’anno vi propongo di andarci da un uomo: Simone di Cirene, più conosciuto come il Cireneo.

A tutti noi, quando capita qualcosa di brutto, viene da esclamare: “Ma guarda cosa mi è capitato!”. Il Cireneo ci insegna che ci è captata l’occasione di essere contemporanei alla Passione di Cristo.
Quando scopriamo, viviamo, questo allora la croce, da sofferenza personale e faticosa, diventa sofferenza partecipata. Allora ogni circostanza dolorosa da qualcosa che “mi capita” diventa qualcosa che “ci” capita. Questo perché non siamo più noi a portare la nostra croce, ma ci scopriamo ad essere coloro che aiutano Gesù a portare la sua croce.

Perché a Gesù è capitata nello stesso nostro momento la stessa nostra cosa. Quando c’è di mezzo la croce, ogni croce, lui c’è già, lui è già sotto quel peso, l’ha già portato e lo porterà fino alla fine del mondo.

Una sola cosa gli manca: la mia presenza accanto a lui.

Ma il Cireneo ci insegna anche che ogni croce la posso, la debbo portare per un tratto più o meno lungo, ma poi alla fine è Lui che ci sale sopra e mi sostituisce. E sale sulla mia croce. Gesù mi chiede di sollevare e di portare la mia croce e di andargli dietro fino al momento in cui Lui ne prenderà possesso con i chiodi, e la farà sua definitivamente.
È proprio per questo che noi non siamo dei condannati, ma dei graziati.

09 marzo 2008

5° domenica di Quaresima - La risurrezione di Lazzaro

Sono andato a controllare, e ho notato che in tutto il vangelo, Lazzaro non dice mai niente, non apre mai bocca. Al contrario di Marta e Maria, sue sorelle, di lui sappiamo solo che era molto amico di Gesù, ma dei motivi di questa amicizia, di cosa parlassero, non sappiamo niente.

E poi per lui è arrivato il momento della malattia, della morte. Sono momenti in cui si avrebbe piacere di avere attorno le persone care, gli amici più intimi e sinceri. Però in quel momento, il suo grande amico Gesù non c’era.

Ci siamo mai chiesti quale potevano essere i pensieri di Lazzaro prima di morire? Bella domanda! Io credo che forse avrà pregato proprio con il salmo che usiamo in questa domenica: è “dal profondo” di una malattia che non lascia scampo, anche le speranze di guarigione, normale o miracolosa, sono ormai spente, eppure può confidare nel Signore: spero nel Signore, l’anima mia spera nella sua parola, sono come una sentinella che attende il mattino, perché il Signore usa misericordia e offre il perdono, redime Israele da tutte le sue colpe. Parole imparate, parole sussurrate in punto di morte e proprio per questo fatte profondamente personali, parole gridate a tutti nel giorno che doveva essere solo il quarto dalla sua morte e invece è il primo del ritorno alla vita. Parole stabili anche per noi, perché vere!

E penso che proprio alla luce, al calore di quelle parole si sia accorto che anche se il suo amico Gesù non era fisicamente presente, lo era però in un modo particolare, forse più forte ma senz’altro più vero: era lì col cuore ardente d’amore e d’affetto.

08 marzo 2008

Riflessione su Ez 37,12-14

Riflessione per il ritiro interparrocchiale quaresimale dei giovani

La breve lettura di Ezechiele è la chiusura di una visione che il profeta ha appena descritto: una moltitudine di ossa aride è divenuta, per opera dello Spirito di Dio, una moltitudine di persone vive (37,1-10). Ezechiele stesso ci dà la chiave di lettura della visione: le ossa rappresentano Israele in esilio, che si sente oramai perduto senza speranza, definitivamente finito (v. 11). In questa assenza di prospettive umane il Signore annunzia il suo intervento, che è una nuova creazione (il racconto richiama Gen 2,7), per la quale le ossa rivivranno: Israele, cioè, tornerà in patria e proseguirà il suo cammino nella storia. In quel momento Israele farà davvero l’esperienza (“conoscere”, vv. 13-14) di chi sia Dio, di chi abbia la signoria sulla storia, di quanto infallibilmente la sua Parola sia efficace, quanto potentemente creatrice.

È importante ricordarlo: si conosce davvero il Signore solo nella misura in cui si fa l’esperienza del suo amore fedele e della sua potenza liberatrice, che risalta tanto più netta quanto meno è possibile aspettarsi dalle forze umane. L’immagine delle ossa inaridite esprime come meglio non si può l’assoluta inaccessibilità della salvezza: “queste ossa potrebbero mai rivivere?” (v. 3), domanda Dio a ciascuno di noi. Dobbiamo prendere coscienza con chiarezza: i mezzi umani, di qualunque genere, non possono salvarci. Arte, scienza, tecnica, ricchezza, piacere, successo, lo stesso impegno etico, ci lasciano preda della morte; anzi, proprio tramite essi noi non facciamo altro che costatare e riconoscere una volta per tutte il potere della morte. Abbiamo bisogno di uno Spirito nuovo, di una vita che non può venire da noi. È in fondo il discorso sulla “sana dottrina” che tante volte abbiamo visto quest’anno nella lettura della seconda lettera di Paolo a Timoteo.
Pur riguardano direttamente l’esilio in Babilonia, la profezia di Ezechiele apre il cuore umano a una grande promessa, di ben più vasta portata: “farò entrare in voi il mio Spirito” (v. 14). Venendo in noi, lo Spirito ricrea quanto è distrutto, e con ciò apre a una conoscenza nuova del Signore. Egli è adesso colui che ha cura della nostra vita, che nella morte ci resta fedele, che - lo leggiamo oggi nel Vangelo - con potenza ci richiama dal sepolcro.

Questo brano presenta una promessa davvero grande: Dio si impegna con il suo popolo che “giace” nella “tomba di Babilonia” ad aprire i sepolcri, e tramite lo Spirito, risuscitare e ricondurre il popolo in Israele. L’uscita dalla tomba e la nuova vita portano al ritorno nella terra promessa, da cui erano partiti con l’esilio, seguito alla distruzione di Gerusalemme. Per un popolo schiavo, scoraggiato, privo di speranza queste parole suonano da incoraggiamento e come professione di fede: “saprete che io sono il Signore”.

Oggi il mondo ha bisogno soprattutto di speranza, e specialmente della speranza cristiana, che è presenza d’amore. È questa la speranza che riempie il nostro cuore? E quale forza ci procura nelle difficoltà?
- Il nostro è un mondo disperato e deprimente. Mondo di tenebre: nessuna luce per rischiarare e dare all’uomo il senso della vita; prosperano le teorie filosofiche più contraddittorie, pullulano le sette religiose, e ognuna pubblicizza la sua ricetta di vita.
Mondo di odio: i violenti trionfano, i deboli sono oppressi, le classi sociali si combattono, i popoli tremano di fronte alla minaccia di uno scontro generale. Mondo di corruzione: l’inquinamento materiale non è che un riflesso dell’inquinamento e della corruzione spirituale e morale, che sono da temere molto di più.
- Ma noi cristiani possediamo una speranza incrollabile. Speranza che non è illusione, oppio dei popoli - come disse qualcuno -; ma che è “certezza assoluta”: “Non temere, piccolo gregge: io sono con voi”. Speranza che è vittoria della fede: Cristo ha vinto le potenze del male con il suo trionfo sulla morte. Speranza che è soprattutto vittoria dell’amore: nessuno ha mai amato come lui ha amato, e il suo amore divampa oggi come ieri, divamperà domani e sempre. Cristo è sempre al centro della nostra vita: non per eliminare la prova, ma per farcela accettare in una nuova prospettiva e per aiutarci a superare insieme con lui, per mezzo dell’amore.
Sostenuti da questa speranza, noi cammineremo sempre con coraggio, serenità e gioia sulla via della vita, nella certezza che essa ci conduce alla casa del Padre.
- Un ultimo spunto di riflessione. Negli incontri dell’anno scorso abbiamo visto come l’amore sia donazione totale di sé stessi, morte del proprio io per l’altro. Ma è proprio in questa morte che agisce lo Spirito, donandoci nuova vita, ritessendo sulle nostre ossa scarnificate nuovi nervi e nuova carne. La risurrezione non è solo quella che avverrà con la seconda venuta di Gesù, ma è anche quella che ogni giorno possiamo sperimentare nell’amore e attraverso l’amore.

01 marzo 2008

Quarta domenica di Quaresima - Il cieco nato

Succede a volte che quando chiediamo al Signore con insistenza qualcosa nella preghiera, ci sentiamo delusi se non la otteniamo subito, ci sembra che lui non ci voglia accontentare. E così ci dimentichiamo di tutti gli infiniti miracoli che ci accompagnano ogni giorno e che prendiamo come dovuti, come ovvi.

C’è una cosa che colpisce nel vangelo di oggi: al contrario delle altre volte, Gesù per fare il miracolo non aspetta che ci sia una richiesta da parte di qualcuno. Anzi, qui sembra che tutti, più che chiedere un miracolo, siano impegnati a trovare delle colpe. E allora è Gesù che deve prendere l’iniziativa.

Anche noi forse siamo un po’ ciechi perché non ci accorgiamo di tutti quei miracoli che non abbiamo mai chiesto ma che pure abbiamo! Quanti sono i miracoli che non abbiamo mai chiesto ma che rendono incredibilmente bella la nostra vita!

Al risveglio di Tommasino, la mamma gli chiede: Hai fatto una bella ninna? Sì, è la risposta. E che hai sognato? Baci, coccole e carezze, risponde Tommasino. Il commento della mamma: Che cosa si può volere di più dalla vita? (*)

I sogni non li programmiamo, ci vengono e basta. Anche noi, come Tommasino, ogni giorno siamo colmati da Dio di baci, coccole e carezze: il sorriso di una persona cara, l’incontro con un amico, una bella canzone che sentiamo alla radio, qualcosa di bello che vediamo inaspettatamente, ma anche il solo essere vivi, il poter vedere il giorno che avanza, il poter cantare, ridere … Sono davvero tantissimi i miracoli che non abbiamo chiesto mai ma di cui possiamo gioire ogni giorno!

Dobbiamo imparare a riconoscerli, ad accorgerci di quanto siamo amati da Dio, di quanto immensamente ci vuol bene, per regalarci così tanta bellezza, così tanta felicità! Sarebbe bello se ogni sera, insieme all’esame di coscienza, facessimo anche una specie di inventario dei tanti miracoli non richiesti che ci sono capitati durante la giornata.


(*) Ringrazio Marina per avermi concesso di citare questo episodio da lei narrato. Questa però è la versione che ho usato coi grandi. Coi piccoli vado a braccio. Spero che mi perdoni se sono andato oltre il suo permesso.