28 dicembre 2023

Dio si rivela solo ai bambini - 31/12/2023 - Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

San Giuseppe balia asciutta
Libro d'Ore composto a Besançon (1450 ca.)
Fitzwilliam Museum - Cambridge (UK)



Penso che il punto culminante del Vangelo di oggi sia quello della 'rivelazione' dell'identità del Bambino all'interno del Tempio, cioè del riconoscimento e dell'omaggio messianico da parte di due anziani: Simeone ed Anna. Questo momento è una specie di cerniera tra l'Antico e il Nuovo Testamento.
La legge ha spinto Giuseppe e Maria a Gerusalemme, lo Spirito Santo muove Simeone ed Anna ad andare al Tempio. L'incontro avviene nel cuore stesso della religione ebraica.

Il 'Nunc dimittis' è un grandioso respiro profetico che tratteggia la futura missione di Gesù in chiave universalistica, è uno spostare l'orizzonte oltre i confini di Israele. Simeone ha «visto la tua [di Dio] salvezza», ma questa salvezza, anche se viene da Israele, non è esclusiva del popolo ebraico, ma è per «tutti i popoli».
La luce folgorante percepita da Simeone, e scaturita dal contesto ordinario di tre umili persone, è destinata ad «illuminare le genti», tutte le genti.

Alla profezia di Simeone si lega quella di Anna. Anche lei indica il Messia. E anche lei viene presentata come un testimone autorevole, nonostante sia una donna, che per l'uso del tempo non poteva dare testimonianza valida. Dopo la profezia cupa di Simeone riguardo alla Madonna (l'immagine della spada) il personaggio di Anna "viene come un sorriso" (Alessandro Pronzato).

Ma un altro tema emerge dalla presentazione di Gesù al tempio: quello della giovinezza. Certo c'è implicato un Bambino, Ma Simeone e Anna, benché dal punto di vista anagrafico siano vecchi, in realtà sono giovani. O meglio, sono riusciti a rimanere giovani.
La loro vita è stata cucita dal filo dell'attesa. Più che accumulare esperienze e delusioni, loro hanno accumulato speranza. Hanno avuto il coraggio dei propri sogni, sono rimasti 'creature di desiderio'. Non si sono lasciati piallare dall'abitudine. Gli anni non hanno inaridito il loro cuore.
Nemmeno la rigidità dell'istituzione e le numerose leggi della Torah, sono riuscite a spegnere la luce del presentimento.
Inseriti nelle rigida struttura del Tempio, i loro occhi sono rimasti puntati verso il futuro.

Così nel Tempio, un bambino di nome Gesù è stato preso in braccio da un fanciullo di nome Simeone e da una ragazzina di nome Anna. La Madre stessa era una fanciulla.
Tutta la scena si svolge in un clima di giovinezza, di stupore, anche se siamo nell'ambiente austero e 'antico' del Tempio. Dio si rivela solo ai bambini, il Regno che si è appena inaugurato è riservato a loro.

Nelle fissità del Tempio, un gruppetto di persone ha rinunciato alle cose vecchie e si è dimostrata disponibile ai 'tempi nuovi'. Non si è accontentato del 'già visto', ma si è aperto al 'nuovo'. Si sono resi disponibili al progetto di un Dio che è sempre nuovo e che fa nuove tutte le cose.




Letture:
Genesi 15,1-6; 21,1-3
Salmo 104
Ebrei 11,8.11-12.17-19
Luca 2,22-40


21 dicembre 2023

Diventa la casa di Dio! - 24/12/2023 - IV domenica di Avvento




Nella prima lettura sentiamo che il re Davide è preoccupato perché, mentre lui ha una casa per ripararlo dal freddo e dal maltempo, l'Arca dell'Alleanza, cioè Dio stesso, è costretto in una tenda, è senza una dimora adeguata. E invece Dio gli risponde, per mezzo del profeta Natan, che sarà Lui, Dio, a costruire una casa per la discendenza di Davide e per tutto il popolo d'Israele.
Dio dice che la casa che fisserà come dimora universale per tutti gli uomini sarà Lui stesso nel suo Verbo, che verrà a dimorare fra gli uomini per essere la loro stessa dimora, luogo d'incontro. E tutto questo si realizza nell'estrema umiltà, nella semplicità, in quella piccolezza in genere rigettata dagli uomini, ma che invece è esaltante per il Creatore del mondo.

Dio, per costruire questa sua casa in mezzo a noi, ha fatto le cose con calma, senza clamori ed effetti speciali. Il Vangelo di oggi ci ricorda che Gesù ci ha messo anche lui, come tutti noi, nove mesi per venire al mondo. Gesù non era un bambino speciale, e alla sua nascita non c'è stato nulla di spettacolare, anzi, la nascita del figlio di Dio è posta sotto il segno del rifiuto degli uomini. Gesù non ha bruciato le tappe, non ha fatto salti mortali, è semplicemente cresciuto, poco a poco come ognuno di noi. Ogni nascita è qualcosa di lento, che chiede tempo, pazienza, rispetto; se un seme diventa subito albero, vuol dire che c'è qualche forzatura. Gesù è cresciuto nella fatica, come tutti, nessun privilegio, nessuna scorciatoia. Non è "nato imparato", ma come tutti noi ha dovuto imparare tutto, a parlare, a camminare, a mangiare, a leggere e scrivere, insomma, ha dovuto anche lui imparare a vivere.

Il Vangelo di oggi ci dice che Dio è venuto tra di noi per mezzo di una giovane ragazza sconosciuta, senza meriti particolari; in una ragione, la Galilea, molto periferica e con una brutta fama; in una "città" (che in realtà contava solo circa un centinaio di abitanti) chiamata Nazareth mai prima nominata nella Bibbia; in una casa qualunque, ma che viene visitata da Dio.
Dio è un visitatore. E se noi vogliamo incontrarlo dobbiamo farlo qui, in questa nostra vita quotidiana, perché per rendersi presente, per raggiungere l'intera umanità, Lui ha scelto la comunissima e banalissima quotidianità di Nazareth.

Ma Dio per nascere ha bisogno degli uomini, ha bisogno di una donna e del suo grembo! Una donna, Maria, ha messo a disposizione sé stessa. La grandezza dell'uomo sta in questo: mettere a disposizione sé stesso! È bellissimo quello che chiede il vangelo: non accontentarti di costruire a Dio una chiesa, invece diventa tu la sua casa, come ha fatto la Vergine Maria! Diventa la casa di Dio!
Dio non si vede, ed è vero! Ebbene, anche duemila anni fa non si vedeva, quando una donna lo portava in grembo. È necessario tornare al tempo della gravidanza di Dio; anche questo è il tempo di un Dio che non si vede, il tempo di un Dio nascosto nella vita degli uomini e delle donne di oggi.

Il Vangelo di oggi ci ricorda che non siamo noi ad allestire il presepe per accogliere il Signore, ma è il Signore che crea un solo presepe per accogliere ciascuno di noi.
Quella dei nostri presepi non è un'immagine sentimentale, una semplificazione del vangelo. Al contrario, ne esprime l'essenza. Il Signore stabilisce la sua dimora nella nostra casa. Vive con noi. La nostra storia e la sua storia sono una sola cosa. Stabilisce con noi un'alleanza, una amicizia eterna. Il nostro destino è per sempre legato al suo.



Che il Natale che viene possa essere la riscoperta della sorpresa di Dio, che possa aprire il nostro cuore alla meraviglia. Quella meraviglia che ci porta ad incontrare Dio nelle piccole cose della vita, che ci porta a gioire perché anche oggi è sorto il sole, a gioire perché anche oggi una persona ci ha sorriso o è stata gentile con noi, a gioire perché anche oggi possiamo donare qualcosa agli altri. E allora dal nostro cuore sgorga un "Grazie Signore, grazie di tutto!"




Letture:
2 Samuele 7,1-5.8-12.14.16
Salmo 88
Romani 16,25-27
Luca 1,26-38


14 dicembre 2023

Essere solo una voce - 17/12/2023 - III domenica di Avvento (Gaudete)




Anche questa domenica il protagonista del Vangelo è Giovanni il Battista, «uomo mandato da Dio» con il compito di "dare testimonianza alla luce".

Bellissima la definizione egli che dà di sé stesso: si definisce come "voce", semplicemente una voce.
Siamo circondati da voci. Dappertutto ci sono voci che gridano, e per non sentirle ci mettiamo gli auricolari nelle orecchie in modo da sentire solo le voci del nostro smartphone.
Sono voci che ci impongono di acquistare quel prodotto, di non lasciarsi sfuggire quell'occasione, di mettersi in marcia contro qualcuno o qualcosa, di indignarsi, firmare, ecc. ecc. Rimbombano le voci del guadagno, del successo, dell'odio, della violenza, del piacere, della furbizia, e chi più ne ha più ne metta.

La voce di Giovanni invece è unica, insolita: "Preparate la via del Signore". Un invito molto gentile per farci notare che le nostre strade più battute ci fanno mancare l'incontro più decisivo. Ci avverte che il Signore arriva da un'altra parte, che sulla strada dell'avidità, dell'egoismo, della prepotenza è molto difficile, se non impossibile, incontrare Dio.
Ma questa 'voce' a volte viene affidata anche a noi. E non importa se dobbiamo farla risuonare nei deserti dell'indifferenza, dell'ostilità, del sarcasmo. Non tocca a noi valutare se il nostro grido viene accolto, se porta frutto, se qualcosa inizia a cambiare. Gli uomini e le donne possono continuare ad ascoltare le voci delle vanità, delle mode, ma è importante che qualcuno avverta che la via da preparare è un'altra.

Ma Giovanni, oltre che definirsi come «voce», chiarisce ogni dubbio sulla sua persona. Lui non è il Cristo, ma neanche uno dei grandi profeti del passato. Lui indica "Colui che viene" (tempo presente, non in un futuro più o meno vicino). Non vuole assolutamente accentrare l'attenzione su di sé, anzi: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3, 30).
Anche in questo ci è maestro. Anche noi dobbiamo imparare a dare spazio all'Altro, a dare spazio alla libertà degli altri. A volte (penso ai genitori, agli educatori, a tutti quelli che hanno una qualche responsabilità su altre persone) il nostro compito è di favorire l'incontro, prepararlo. Ma quando avviene dobbiamo discretamente farci da parte. Dobbiamo resistere alla tentazione di fare le veci dell'Altro, di imporre i nostri schemi, i nostri gusti, le nostre idee su come debba avvenire l'incontro, le nostre tempistiche su quando debba succedere.
Il vero testimone deve unire un grande coraggio (e ce ne vuole per gridare la verità) ad una straordinaria modestia, una spiccata capacità di 'cancellarsi'.
L'incontro va preparato, atteso, sofferto, pregato, desiderato intensamente. Ma bisogna essere disposti anche a pagarne il prezzo forse più difficile: nel momento un cui finalmente avviene, andarsene in punta di piedi, non importunare, non aspettarsi un cenno di saluto o un invito alla festa.
Dobbiamo imparare dal Precursore una cosa importantissima: a dire "Non sono io".




Raccontino a guisa di haiku

Un filosofo e un teologo
passeggiavano disputando
filosofemi e sillogismi;
una pratolina udì,
e umilmente offri all'ape la sua corolla

(il titolo è mio. Il testo non so di chi sia)



Colsi il sorriso
di una violetta solitaria.
A chi sorridi piccolo fiore?
A Dio che m'ama
e a te che mi contempli.

Margherita Pavesi Mazzoni




Letture:
Isaia 61,1-2.10-11
Luca 1
prima Tessalonicési 5,16-24
Giovanni 1,6-8.19-28


07 dicembre 2023

Nella piccolezza c'è una potenza infinita - 10/12/2023 - II domenica di Avvento




Una cosa che mi colpisce molto nelle letture di oggi è lo spostamento dei 'due punti' che avviene tra la prima lettura e il Vangelo, tra l'Antico Testamento e il Nuovo. Nella prima lettura il profeta Isaia scrive «Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, ..."», mentre nel Vangelo, Marco scrive: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore».
Isaia dice a chi abita in Gerusalemme di andare nel deserto per preparare la strada al Signore che verrà per consolare il popolo, per "portare gli agnellini sul petto e condurre dolcemente le pecore madri" (Is 40, 11). Il Battista invece, dal deserto, invita tutti alla conversione per accogliere il perdono.

Dobbiamo tener presente che qui il deserto è si un luogo determinato, ma è soprattutto un simbolo. Il deserto, per il popolo ebraico, è il luogo della vicinanza, dell'intimità con Dio. È nel deserto che Yahweh ha parlato al suo popolo, nel deserto si sono celebrate le nozze tra Dio e il popolo eletto. È quindi naturale che il tempo della salvezza venga inaugurato ancora nel deserto.

Ma in special modo è nel deserto che il Signore aveva spinto Elia per confermare e rafforzare la sua vocazione (1 Re 19,1-18). Tutto questo, unito alla descrizione dello stile e delle vesti, fanno del Battista un chiaro riferimento al profeta Elia. Il profeta Elia che secondo la tradizione ebraica doveva ritornare sulla terra subito prima del Messia, è proprio Giovanni il Battista.

E Giovanni, come i veri profeti, si preoccupa di precisare che il "più forte" non è lui, ma qualcuno che viene dopo. Giovanni, come i veri profeti, crea un'attesa, invita all'attenzione sul personaggio più grande. Non concentra l'attenzione su di sé, rimanda ad un Altro.

Strano percorso quello di Giovanni: per raggiungere gli ascoltatori, fugge dalla città. Non cerca un pubblico, ma si fa cercare. E anche Gesù, prima di iniziare la sua vita pubblica, si ritirerà ne deserto. Un antico Padre del deserto ricordava che "dal momento che avrai imparato a fare a meno degli uomini, gli uomini si accorgeranno che non possono più fare ameno di te". Nel silenzio del deserto le parole e i pensieri vengono ripuliti dall'abitudine e ritrovano la loro forza e il loro splendore originari. Nel silenzio del deserto l'annuncio trova la strada per arrivare al cuore degli uomini. Nel deserto scopri la tua piccolezza, ma scopri anche che nell'estrema piccolezza, se ti lasci prendere per mano dal Signore, c'è una potenza infinita: «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 10) ci ricorda l'apostolo Paolo.
La miseria ammessa, non sarà impedimento, ma può trasformarsi in trasparenza.
La piccolezza riconosciuta, può diventare manifestazione della grandezza.

Come cristiani, e come Chiesa, solo se ci facciamo piccoli, se non annunciamo noi stessi, se ci facciamo da parte per far passare un Altro, diventiamo credibili e suscitiamo interesse.




Letture:
Isaia 40,1-5.9-11
Salmo 84
seconda lettera di san Pietro 3,8-14
Marco 1,1-8


30 novembre 2023

Far nascere "nostalgia di futuro" - 3/12/2023 - I domenica di Avvento




Inizia oggi il tempo dell'Avvento, il tempo dell'attesa. Attesa di ciò che deve venire, di ciò che viene. Difatti il Vangelo di oggi è un continuo ripetere questi due atteggiamenti: fare attenzione e vegliare.

'Fare attenzione' vuol dire 'tendere verso' qualcosa o qualcuno. È la coscienza che il segreto della nostra vita è al di là di noi. Tutti sappiamo cosa vuol dire fare una cosa pensando ad un'altra, incontrare in modo superficiale le persone.
Gesù ci invita all'attenzione, a guardare l'altro negli occhi, a farlo entrare nel nostro sguardo e nel nostro cuore. A rompere i muri di indifferenza (quando non di ostilità), ad ascoltare quello che ci dice, anche oltre le parole.

'Vegliare' perché c'è un futuro, perché non si esaurisce tutto qui, abbiamo una meta da raggiungere, uno sguardo che vede lontano, oltre il nostro tempo, oltre la nostra persona.
Il vegliare di cui ci parla Gesù è il vegliare di chi nella notte scruta il cielo per vedere le prime luci dell'alba, è il vegliare della madre che passa la notte al letto del figlio malato, è il vegliare della sposa che vede il sole iniziare il giorno del suo matrimonio.
È il vegliare di chi porta le persone nel proprio cuore, che si appassiona alla loro vita, alla loro storia, che si fa portatore di futuro nella loro esistenza.
È vegliare su tutto ciò che germoglia, sui primi raggi di luce, sui primi passi di pace.

"Le cose più importanti non vanno cercate, vanno attese" scriveva Simone Weil, e cosa c'è di più importante di Dio?
Dio non si merita, si accoglie; non si conquista, si attende.
E attenzione e veglia hanno proprio lo scopo di prepararci all'incontro con Colui che viene e che verrà. Colui che viene ad incontrarci ogni momento, che verrà ad incontrarci per l'eternità.
Hanno lo scopo far nascere il desiderio di un incontro, di far sorgere "nostalgia di futuro".




Letture:
Isaia 63,16-17.19; 64,2-7
Salmo 79
prima Corinzi 1,3-9
Marco 13,33-37


23 novembre 2023

Una sola cosa conta: l'Amore! - 26/11/2023 - XXXIV domenica del Tempo ordinario - Cristo Re dell'Universo

Majestas Domini - Cristo in gloria
Altare del duca Ratchis (particolare - 734-744)
Cividale del Friuli



Uno dei sogni di ogni studente è quello di riuscire a sapere in anticipo il testo del compito in classe o le domande che gli verranno fatte all'interrogazione. E Gesù, che come uomo conosce bene questo nostro sogno, come Dio ci dice quali saranno le domande che ci farà nell'esame più grande della storia, quello che chiamiamo il Giudizio Universale.

Non saranno domande difficili, non ci chiederà di parlare di teologia tomista, o se ci ricordiamo quali sono i vizi capitali o le virtù teologali. Non ci chiederà se abbiamo letto le varie encicliche papali o la Bibbia.
Saranno domande elementari, col sapore della vita quotidiana, degli avvenimenti spiccioli di ogni giorno. Si parlerà di mangiare, di bere, di vestiti, di sorrisi e di carezze.
Perché in fondo non sarà un esame irto di domande, ma sarà una chiacchierata tra te e il Signore in cui ci farà rileggere la nostra storia, con le luci e le ombre, con la spiegazione degli episodi incompresi, delle cose di cui non abbiamo capito il senso, afferrato il contesto.
Perché per Dio una sola cosa conta: l'amore! E l'amore è una cosa enorme, ma fatta da milioni e milioni di piccole cose, quelle che non hanno nessuna pretesa, che nessuno nota, neanche tu mentre le facevi. Ma in quel momento, sotto la luce del Signore, risplenderanno di una luce immensa.

"Ho paura che Dio mi mandi all'inferno" dice qualcuno, senza rendersi conto che in fondo questa è un'eresia. Dio non vuole mandare nessuno all'inferno, basta leggere il Vangelo di oggi! Cos'altro poteva fare per salvarci?
A Dio interessa solo il bene: quello compiuto è il Paradiso, la vicinanza a Lui, quello non compiuto pur essendo nelle nostre possibilità è l'inferno, cioè la lontananza da Dio. Dio non manda all'inferno, al massimo sono io che decido di andarci. Perché peggio di un'assenza, c'è una presenza distratta, fatta di un corpo che c'è ma di una mente che è altrove. In un bicchiere d'acqua dato o non dato, in una carezza data o non data, in un sorriso fatto o non fatto c'è nascosta la strada per il Paradiso o l'Inferno.
La scelta tocca a me.



«Questa carota è mia!»
(storiella orientale)

Una vecchia signora morì e fu condotta dagli angeli davanti al trono del Giudizio.
Nell'esaminare i registri, il Giudice non riuscì a trovare neppure un gesto di carità da lei compiuto, a eccezione di una volta che ella aveva regalato una carota a un mendicante affamato.
Tuttavia la potenza di un singolo atto d'amore è tale che fu decretato che sarebbe andata in paradiso proprio in forza di quella carota.
L'ortaggio fu portato in tribunale e consegnato alla donna.
Nell'istante in cui ella lo prese in mano, cominciò a salire come se fosse trainato da un filo invisibile e sollevò con sé la donna verso il cielo.

Comparve un povero, il quale si afferrò all'orlo del suo vestito e fu sollevato in alto con lei; una terza persona si attaccò al piede del mendicante e salì anche lei. Presto si formò una lunga coda di persone che salivano verso il paradiso attaccate alla carota e, per quanto sembri strano, la donna non sentiva il peso di tutta quella gente, anzi, poiché guardava verso l'alto, non la vide neppure.
Salirono sempre più in alto finché giunsero quasi al cancello del paradiso e in quel momento la donna si voltò per dare un ultimo sguardo alla terra e vide dietro di sé quella lunga fila di persone.
Ne fu assai irritata!
Fece con la mano un gesto imperioso e gridò: «Via! Andatevene via! La carota è mia!»
Nel fare quel gesto lasciò andare per un attimo la carota e precipitò giù con tutto il suo seguito.

Non è Dio che ci manda all'inferno
siamo noi che scegliamo di andarci




Letture:
Ezechiele 34,11-12.15-17;
Salmo 22;
prima Corinzi 15,20-26.28;
Matteo 25,31-46


16 novembre 2023

Se sono doni ... donali - 19/11/2023 - XXXIII Domenica Tempo Ordinario

Parabola dei talenti
(icona)


La pagina di Vangelo della scorsa domenica sottolineava la dimensione di 'vigilanza' nella vita del credente. Vigilanza che si concretizza nell'attesa e che proietta il cristiano nel futuro, senza per questo fargli perdere i contatti col tempo presente. Si tratta di avere i piedi ben piantati nel presente, ma con lo sguardo al futuro. Insomma, si tratta di un'attesa attiva, che obbliga l'uomo a prendere decisioni, fare delle scelte.
La parabola dei talenti sviluppa lo stesso discorso chiarendo il contenuto dell'attesa e specificando il dovere del credente che consiste, essenzialmente, nel 'darsi da fare'. Stavolta si tratta di una parabola facile, ma che necessita di alcune precisazioni.

Primo punto: cosa sono questi talenti. Gli studiosi ci informano che il talento era una specie di grosso lingotto d'argento, del peso di circa trenta chilogrammi. Quindi, quello che ne ha ricevuto cinque, si è visto affibbiare un carico di oltre cento cinquanta chili! Inoltre un talento era l'equivalente di circa 20 anni di uno stipendio medio del tempo. Quindi ciò che il padrone dà, è qualcosa di enorme, sia come valore che come peso.
Bisogna fare una prima osservazione fondamentale: il talento non viene guadagnato, conquistato, meritato. È ricevuto. Tutti e tre i servi son accomunati da questa realtà di un dono enorme. Un dono diverso quantitativamente. Ma pur sempre dono. Per tutti.
Nella vita cristiana, dunque, il punto di partenza non è rappresentato dal nulla. Non si parte da zero. Nessun cristiano si è fatto da sé. L'esistenza viene costruita con materiale che ci è stato messo a disposizione, donato gratuitamente. C'è tutta una serie di uomini e donne che ci hanno preceduto e che ci hanno trasmesso il sapore di Dio, il profumo del bene.
Tutto è grazia, tutto è dono. E l'impegno, da parte nostra, è soltanto la risposta a un dono che ci siamo ritrovati tra le mani. Il Signore, dunque, ci consegna qualcosa perché ci diamo da fare. E questo qualcosa diventa 'nostro'.

Ma attenzione, bisogna fare una precisazione.
I primi due servi hanno considerato giustamente il dono ricevuto come loro. Il padrone gliel'aveva donato. Per questo l'hanno usato, trafficato, sfruttato, si sono dati da fare, si sono fidati del giudizio del padrone. Hanno visto giusto.
L'altro, invece, non ha capito niente, non si è reso conto che il lingotto era suo almeno durante l'assenza del padrone. Non è riuscito a credere all'amore, alla generosità e alla fiducia del padrone. Il dono, quindi, si è tradotto in motivo di paura. E la paura ha ucciso la spontaneità, la creatività del titolare dei trenta chili. La paura ha bloccato nell'immobilismo l'uomo dell'unico talento.

Ma occorre dire anche un'altra cosa, perché è vero che la parabola dice che occorre darsi da fare, ma bisogna sapere per che cosa e per chi. Perché alla fine i servi devono rispondere al padrone, che «volle regolare i conti con loro ». È al Signore che dobbiamo sottoporre i risultati dei nostri traffici.
Il talento è nostro, ma alla fine deve tornare a Lui. Ecco il paradosso: non basta aver fatto fruttare i doni ricevuti. Occorre verificare in che modo, a vantaggio di chi. Se al centro di tutto stanno i nostri interessi egoistici è sicuro che i conti col Signore non tornano.
Se il talento fondamentale, quello della vita, lo impieghiamo unicamente per fare collezione di banconote, per far prosperare i nostri traffici senza badare troppo per il sottile, il Padrone ha diritto di considerare sprecato quel talento che ci ha consegnato non certo perché lo investissimo in egoismo, in sopraffazione, in 'vanità' (Qo 1, 2).

Le ricchezze di Dio fruttificano solo se sono condivise. Dio è contento solo se i suoi doni noi li ricicliamo. Lui ci suggerisce: "Se sono doni ... donali!"




Letture:
Proverbi 31,10-13.19-20.30-31;
Salmo 127;
prima Tessalonicesi 5,1-6;
Matteo 25,14-30


09 novembre 2023

L'olio della fede, l'olio dell'amore - 12/11/2023 - XXXII Domenica Tempo Ordinario

Le vergini sagge e le vergini folli (particolare)
Cappella Castel d'Appiano (BZ)
(affreschi fine XII inizio XIII secolo)



Sono molti i biblisti che ritengono che questa sia la parabola più difficile. In effetti ci sono molti dettagli che non tornano con gli usi del tempo (il ritardo dello sposo, la chiusura della porta) o con le parole precedenti di Gesù (condividere tutto, donare la vita).

Per capirla un po' meglio bisogna tener presente a chi sta parlando l'evangelista. La parabola si inserisce in una problematica particolarmente sentita nella Chiesa primitiva. I cristiani esprimevano la loro fede nella 'prima venuta' di Gesù (incarnazione). Ma testimoniavano pure la fede nell'attesa della 'seconda venuta'. Si tratta della parusia, un termine che significa presenza, ma anche venuta, cioè 'divenire presente'. Il vocabolo, però, viene abitualmente impiegato per indicare il ritorno di Gesù alla fine dei tempi. Tra la prima e la seconda venuta si colloca il tempo presente. Il tempo dell'attesa. Il tempo della Chiesa.
Soltanto che non pochi fanatici tendevano ad accorciare questo tempo intermedio. C'erano tanti che, facendo leva sull'emotività popolare, predicavano l'imminenza della fine. Quindi il tema della parabola è la "vigilanza"

La vigilanza è necessaria perché non sappiamo il quando Gesù tornerà. È questo il senso del ritardo dello sposo.
Il credente non è uno che viaggia consultando il calendario o l'agenda. È uno che ha in mano una bussola. Cristo dà la direzione del cammino, non ci fornisce la descrizione anticipata di ciò che accadrà lungo la strada.
La sua parola non è una chiave magica per risolvere gli enigmi della storia, i rebus della cronaca quotidiana. È luce che permette di cogliere il significato degli avvenimenti.
Il cristiano non è uno che sa già tutto prima, ma è uno che dovrebbe riuscire ad afferrare il filo conduttore delle diverse vicende.
La colpa del cristiano non è quella di non essere informato. Il cristiano, in un certo senso, 'sa'. Ma non sa né il 'quando', né il 'come'.
Gesù non dice: "State tranquilli", ma ammonisce: "State attenti. Non lasciatevi prendere alla sprovvista".
La linea di distinzione tra vergini prudenti e stolte non passa attraverso il sonno. Il Vangelo sottolinea: «si assopirono tutte e si addormentarono». La linea di discriminazione è data dalla provvista di olio: l'olio della fede, l'olio dell'amore. Le sagge si sono portate la riserva. Quelle altre non ne hanno a sufficienza.
La fedeltà non s'improvvisa. Nell'ora, sempre sorprendente, dell'incontro, conta ciò che si ha, ciò che si è, non ciò che si vorrebbe. Nessuno può mettere la fede, l'amore al nostro posto. Nessuno può pagare per noi il biglietto per l'incontro decisivo.
In quell'Ora, l'olio dev'essere il nostro. La fedeltà deve essere timbrata da noi, l'amore deve venire dal nostro cuore.
Quell'olio che manca alle lampade è un prodotto artigianale, fatto in casa, realizzato a mano. Olio su misura: se non ce l’hai, nessuno potrà dartelo. Non è ripicca: è che si parla di un amore capace di attendere, di stregare il cuore. "Un amore infuocato che trasforma il ritardo in desiderio" (d. Marco Pozza)




Letture:
Sapienza 6,12-16;
Salmo 62;
prima Tessalonicesi 4,13-18;
Matteo 25,1-13


02 novembre 2023

Siete tutti fratelli - 5/11/2023 - XXXI Domenica Tempo Ordinario

we the people must come together
(Kelly Simpson)



Lascio ad altri, ben più competenti di me, tutte le considerazioni sui pesi inutili, sul legalismo crudele e ipocrita, sulla necessità di coerenza tra ciò che si  predica e ciò che si vive, tra il nostro dire e il nostro fare.

Vorrei invece fermarmi a considerare una piccola frase: «Voi non fatevi chiamare "Rabbi", perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli». Mi ha colpito molto perché, data la premessa, mi sarei aspettato che terminasse con "e voi siete tutti discepoli".
Al quadro negativo di una religiosità vuota, tronfia, pomposa, formalista, caratterizzata dall'esteriorità, dominata da uomini avidi di potere, onori e successi, Cristo contrappone il quadro di una comunità evangelica dove emergono le vere, radicali esigenze del suo messaggio, dove i membri si riconoscono fratelli.
Una comunità dove non ci sono dei tronfi possessori della verità, ma degli umili e appassionati cercatori; dove non ci sono rigidi moralisti, ma c'è abbondanza di 'ministri della pazienza del Cristo'; dove i responsabili rivendicano il colossale privilegio di servire; dove la grandezza è misurata dalla ... piccolezza; dove la 'carriera' è determinata dagli scatti di ... carità (ed è fatta per scendere i gradini della 'scala sociale'); dove chi esercita il ruolo dell'autorità non ha la pretesa di sostituire la presenza dell'unico Capo, ma cerca renderla visibile, quasi sensibile, con la sua trasparenza e la sua capacità di 'scomparire'; dove nessuno tenta di dominare, controllare o manovrare gli altri; dove gli unici titoli validi sono quelli della fede e di essere degli 'aspiranti cristiani'. Una comunità di persone che alla domanda 'sei cristiano?' risponde 'No, ma cerco di esserlo, vorrei esserlo!'

È la comunità del Cielo: i santi. Gente imperfetta, peccatrice (e conscia di esserlo). Ingegnosa, però: da peccatori non si sono mai arresi al peccato. Dopo ogni caduta sono ripartiti, con le cicatrici addosso.
È la comunità che fa sobbalzare di gioia e amore il cuore del Cristo.
Alla perfezione asettica di cuori senz'anima, Lui preferisce di gran lunga l'imperfezione carnale di chi, provandoci ripetutamente, fallisce ripetutamente; di chi non si preoccupa di non cadere, ma pensa solo, una volta caduto, a rialzarsi e riprendere il cammino.




Letture:
Malachia 1,14- 2,2.8-10;
Salmo 130;
prima Tessalonicesi 2,7-9.13;
Matteo 23,1-12


26 ottobre 2023

Amare perché ci si scopre amati - 29/10/2023 - XXX Domenica Tempo Ordinario

Amore
(Foto: micheile henderson su unsplash)



«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente»
Dio. E sopra Dio nessun altro: nemmeno la Legge.
"Ama Dio!" dunque. Ma non perché qualcuno ti ha imposto di farlo, ma perché Dio per primo ha amato te. L'amore, quindi, sarà sempre un amore di risposta, la risposta ad una chiamata: "Camminiamo insieme. Ci stai?".

Amare perché ci si scopre amati di un amore immenso. Di un amore così grande che non possiamo fare a meno di condividerlo, di portarlo a chi ci sta vicino.
«Amerai il tuo prossimo come te stesso». Dio, poi l'uomo e infine te stesso. Ma anche il movimento inverso: da te, attraverso l'uomo, a Dio. È questa la dinamica di Dio, la dinamica della Trinità: una continua circolazione d'amore. Un abbraccio che non vuole escludere nessuno, che sogna di allargarsi a tutto il mondo.

"Il comandamento più grande", che poi sono due, non è più grande perché sta sopra gli altri. È il più grande perché sta sotto gli altri, è la radice che ne dà il senso, che orienta tutte le altre osservanze. I vari precetti, sono vuoti di significato, di valore, di contenuto se non vengono letti e attuati alla luce e in prospettiva dell'amore.
Quando la Legge viene prima dell'uomo, il non rispettarla è una condanna.
Quando la Legge viene posta al servizio dell'uomo, per quanto egli sia sfigurato dai troppi peccati, nessuna legge potrà mai togliergli l'immagine di Dio impressa nel volto.

Ama l'uomo, quindi anche l'uomo che sei, così come sei: disfatto, sporco, triste, lunatico. Ma anche sorridente, generoso, compassionevole. Perché nessuno di questi aggettivi, per quanto giusti, potrà sostituire il sostantivo che sei: tu sei uomo, tu sei donna. Prima il sostantivo, poi l'aggettivo. Perché il sostantivo è di Dio, tu sei di Dio.

Facciamo attenzione che non è vero che Dio veda tutto bello nell'uomo. Gli dice infatti d'amare anche sé stesso, quasi a dirgli: "Carissimo, c'è un po' di disordine dentro di te".
Ma c'è modo e modo di farlo notare. Perché un conto è comandarti di farlo subito, presto e bene.
E un conto è dirti: "So che è un lavoro pesante e noioso. Vuoi che ti dia una mano? Insieme farai meno fatica e ci divertiremo!"
La vita di Gesù ci dice che Dio preferisce il secondo modo.


(Letture:
Esodo 22, 20-26; Salmo 17;
prima Tessalonicesi 1, 5-10; Matteo 22,34-40
)


19 ottobre 2023

Tutti siamo di Dio - 22/10/2023 - XXIX Domenica Tempo Ordinario

Foto: Diego PH su Unsplash


«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»
Frase famosissima, ma che a ben guardare più che essere una risposta, è una sorgente di domande.
La prima cosa da notare è che la domanda posta dai farisei parla di "pagare", e Gesù dice di "rendere". I farisei e gli erodiani, acerrimi nemici che si alleano contro Gesù, mettono tutto, anche il rapporto con Dio, sul piano commerciale, è tutto un dare-avere in cui si cerca di dare il minimo sperando di ottenere il massimo.
Gesù invece vive tutto sul piano del rapporto personale di amicizia, di amore, di dono. Per Dio tutto è dono, che per dare buoni frutti (cfr. i vangeli delle domeniche passate), per essere restituito, si deve condividere.

C'è da dire anche che questa frase non rappresenta una spartizione dei campi di influenza. Non è un trattato tra due potenze che si spartiscono territori e sudditi vari tracciando un confine rigido e guai a chi l'oltrepassa. E questo perché anche Cesare è di Dio, come di Dio è chi ha posto la domanda. Tutti siamo di Dio.
Quindi come facciamo a riconoscere le cose di Dio e le cose di Cesare? La frase di Gesù non risolve i problemi quando, come spesso succede, le due realtà si mescolano. Perché la realtà concreta è molto complessa, le situazioni storiche cambiano, gli equivoci sono sempre possibili.
Il cristiano non ha una soluzione prefabbricata, buona per tutte le stagioni. Sa però che ciò che torniamo al Padre deve avere il sapore del pane spezzato e condiviso, il profumo della libertà.

Ciò che dobbiamo tornare a Dio non lo dobbiamo cercare tra pietre preziose, vesti lussuose, monete o pergamene. Lo dobbiamo cercare tra le persone. Ogni essere umano porta, anche se sbiadita, corrosa, l'immagine di Dio (Gen 1, 26). Restituire a Dio la sua immagine impressa in ogni uomo e in ogni donna è sempre più urgente.
Ciò che si deve restituire a Dio comprende anche ciò che si deve restituire ai poveri, agli esclusi, alle vittime dell'ingiustizia, ai senza voce, ai dimenticati, agli schiacciati da tutte le forme di oppressione e sfruttamento, a tutti coloro che sono stati privati della dignità e della speranza.
Perché Dio non accetta i resi solo in chiesa, anzi. Lui spesso preferisce riscuotere agli sportelli dell'umanità.


(Letture:
Isaia 45,1.4-6; Salmo 95; prima Tessalonicesi 1,1-5; Matteo 22,15-21)


12 ottobre 2023

Indossare l'abito della gioia e della speranza - 15/10/2023 - XXVIII Domenica Tempo Ordinario

Banchetto di nozze
(icona)



Sinceramente facevo un po' di fatica a comprendere questa parabola per due motivi.

Il primo è che non capisco come si possa rifiutare l'invito ad un pranzo di nozze fatto da un re! Immagino che gli invitati fossero gente che già lo frequentava, per cui non avevano neanche il problema di non avere gli abiti adatti, o di non sapere neanche quali fossero.
Poi però ho notato che Gesù, come le domeniche precedenti, si sta rivolgendo «ai capi dei sacerdoti e ai farisei», cioè a gente che frequentava il tempio giornalmente e conosceva le scritture a memoria. Quindi gli invitati sono loro.
Penso che se il Signore li avesse convocati per una discussione su alcuni problemi urgenti, o per un consiglio su quali punizioni affibbiare, avrebbero mollato tutto subito e sarebbero andati di corsa. Dio invece li sorprende con un invito a nozze, una chiamata a mangiare, bere e festeggiare.
Spesso anche noi cristiani siamo così, facciamo fatica a mollare le 'cose da fare' per fare festa, anche se l'invito viene da Dio.
Gesù ci ricorda che l'ideale cristiano non è una morale opprimente, ma una beatitudine. Il cristiano non è un servo piegato sotto il giogo di un codice severo, ma una persona perdonata e liberata. L'esistenza cristiana non è una sofferenza, ma una festa.
Facciamo fatica ad accettare un dono non previsto, immeritato. Abbiamo sempre paura che nasconda un secondo fine, una fregatura. È sempre il serpente che, anche a noi come ad Eva, cerca di allontanarci dal Signore presentandoci una falsa immagine di Lui.

Il secondo motivo di difficoltà è quella persona trovata senza l'abito nuziale. I servi sono andati per strada e hanno fatto arrivare tutti, non hanno scelto chi invitare e hanno fatto entrare ricchi, poveri, straccioni, mendicanti, operai, giovani, vecchi; «cattivi e buoni» specifica il Vangelo. Non penso proprio che gli invitati abbiano avuto la possibilità di cambiarsi, ma che si siano presentati col vestito, o gli stracci, che avevano.
Quindi il «vestito nuziale» non è quello indossato sul corpo, ma è un vestito del cuore. È l'abito di un cuore che sogna la festa della vita, che desidera credere, perché credere è una festa.
Allora quella persona è il simbolo di tutti quei cristiani che non riescono a credere che il Regno sia un banchetto di nozze, ma pensano piuttosto a un tribunale, magari dell'inquisizione. E perciò si vestono come per un funerale.
Come scrive il biblista Alphonse Maillot, è il simbolo del credente "rivestito di severità, austerità, tristezza, mentre bisognerebbe indossare l'abito della gioia e della speranza. Un uomo che si fa l'idea che occorre portare la tristezza del mondo, invece di portare al mondo il sorriso di Dio".
Troppo spesso anche noi dimentichiamo che in cielo si fa festa per ogni peccatore pentito, per ogni figlio che ritorna, per ogni mendicante d'amore. Quindi per ognuno di noi.


(Letture:
Isaia 25,6-10; Salmo 22; Filippesi 4,12-14.19-20; Matteo 22,1-14)


05 ottobre 2023

Dio non spreca il suo tempo in vendette - 8/10/2023 - XXVII Domenica Tempo Ordinario

acini di luce
(foto J.C.)



Con questo brano si chiude quella che viene anche detta la 'trilogia della vigna' di Matteo che abbiamo visto in queste domeniche. Mentre la prima parabola era rivolta ai discepoli, le ultime due sono rivolte «ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo», cioè alle autorità religiose e civili.
La vigna è spessissimo usata nella Bibbia come metafora del popolo ebraico, per cui il senso immediato della parabola è chiarissimo ai destinatari e anche a noi.

Ma c'è anche un senso un po' più profondo, non così immediato. La vigna non è solo il popolo d'Israele, ma siamo anche tutti noi, tutta l'umanità è la vigna coltivata, curata, amata dal Signore. Ma noi siamo anche la delusione del Signore, siamo gli «acini acerbi» (prima lettura), i contadini malvagi.
Allora per capire la parabola mi pare si debba partire da una frase della prima lettura, dove il profeta Isaia fa esclamare al Signore «Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?».
Nonostante tutto Dio è appassionatamente innamorato della sua vigna, cioè anche di me, nonostante le mie infedeltà, nonostante le mie cattiverie, Lui cerca di fare per me quello che nessun altro cercherebbe di fare. Per quanto io sia una vite insignificante e improduttiva, Lui non vuole rinunciare a me. È questo il fondamento della fede!

Ma quando noi usciamo da questa logica di amore, di dono, e ci lasciamo prendere dalla smania del possesso, del primeggiare, quando noi non pensiamo più secondo il "noi", ma solo secondo l'"io", allora diventiamo come i vignaioli della parabola. Invece della gioia del raccolto, del produrre insieme dei prodotti per la festa e la vita, diventiamo portatori di violenza, produttori di frutti insanguinati, distruttori della vita.
Ma anche i sacerdoti e gli anziani del popolo sono sulla stessa lunghezza d'onda, hanno la stessa mentalità. Anche loro continuano a essere legati alla catena della violenza.

Ma Dio non è d'accordo. Lui non ci sta. Lui è per la vita, non per la morte. Lui non è legato a nessuna catena, anzi, vuole spezzare tutte le catene, prima fra tutte quella della violenza. Nella storia continua dell'amore di Dio e del tradimento dell'uomo, Gesù immette la novità del Vangelo: al contrario di quanto detto dal profeta Isaia, non c'è nessuna vendetta, nessuna nuova vigna.
I nostri peccati, le nostre infedeltà, non riescono a fermare il piano di Dio. La vigna darà buoni frutti. Dio non spreca il suo tempo in vendette.
Dio darà la sua vigna «a un popolo che ne produca i frutti». Un popolo formato da chi avrà scelto il perdono al posto della vendetta, la misericordia al posto della giustizia, l'amore al posto della paura, il "noi" al posto dell'"io". E per far parte di questo popolo non conta il nostro passato, quello che conta è solo la nostra voglia di futuro.
E allora la vigna non darà più grappoli rossi di sangue, ma rossi d'amore, acini di luce gonfi del mosto di Dio per donare un vino di felicità e gioia senza fine.


(Letture:
Isaia 5,1-7; Salmo 79; Filippesi 4,6-9; Matteo 21,33-43)


28 settembre 2023

Due figli che sono uno solo - 1/10/2023 - XXVI Domenica Tempo Ordinario




Come sempre, quando Gesù parla di due figli, non vuole indicare due persone diverse, ma due tendenze che sono presenti nel cuore di ognuno di noi.
Il fatto è che non abbiamo quella qualità, peraltro difficile da ottenere e soprattutto da mantenere, che i padri del deserto chiamavano 'cuore indiviso', cioè un cuore che sia centrato su di unico obiettivo e non si lasci distrarre da niente altro.
Noi invece siamo presi da tante cose. A tutti noi capita di dire no, ma poi di ripensarci e fare, o di dire di si e poi dimenticarci di fare. Capita di abbandonare Dio ma poi sentirne la nostalgia e tornare a casa, o di arrabbiarsi col padre perché fa festa per chi è tornato.
Anche a noi capita, come a san Paolo, di fare il male che non vogliamo, e di non riuscire a fare il bene che vorremmo (Rm 7,18-25). Tante volete anche per noi vale la frase che Goethe fa dire a Faust 'Ah, due anime abitano nel mio petto'.

Ma Dio non si arrabbia per questo, anzi, come un genitore davanti ad un figlio che fa fatica a capire, cerca il modo migliore di spiegare come fare. Gli indica una strada e lo rassicura che sarà sempre con lui per sorreggerlo e accompagnarlo. E la strada è quella della ricerca di avere un cuore semplice (Sap 1, 1), di pregare il Signore ce ne faccia dono (Sal 86, 11). La strada è quella del primo figlio che si pentì e andò a lavorare.

Letteralmente Matteo dice che questo figlio 'si convertì', cioè cambiò il suo sguardo. Pensando a quanto detto domenica scorsa, abbandonò 'l'occhio cattivo'. Cioè vide in modo nuovo la vigna, il padre, l'obbedienza.
La vigna non è più la vigna del padre, ma è la 'nostra' vigna, quella del padre, del figlio e di chiunque venga a lavorarci.
Il padre non è più un padrone a cui sottostare, ma il vignaiolo che chiede aiuto per preparare il vino per la festa di tutta la casa.
Ed ecco che il cuore, liberato da vincoli e imposizioni, si ricompone, si unifica. Perché non si può lavorare o amare bene per imposizione, ma solo per libera scelta.

Il nodo della questione sta proprio nel fare la volontà del padre. Ma occorre capire bene quale sia questa volontà. Dio non vuole dei figli che siano dei servi ossequienti, dei burattini che si muovono a comando. Lui vuole dei figli liberi e adulti, che si alleino con lui per la fecondità del creato, che cerchino di portare più vita e più bellezza nella realtà in cui vivono.
Dio non vuole obbedienza, ma fecondità. Non ci chiede sottomissione, ma che lo aiutiamo a portare nel mondo frutti abbondanti, grappoli gonfi di vino per la festa senza fine.

Il Vangelo di oggi si chiude con parole di speranza, con promesse di vita.
Dio ha sempre fiducia in ogni suo figlio o figlia. Nei pubblicani, nelle prostitute, e anche in noi, nonostante i nostri errori, i nostri ritardi nel dire sì. Dio crede in noi, sempre.
Forte di questa certezza, posso anch'io cominciare ogni giorno la mia conversione verso un Dio che non è dovere, ma amore e libertà.
Assieme a Lui e a tutti i fratelli, vendemmieremo grappoli abbondanti, dolci di rugiada e di sole, anticipo di festa e di gioia senza fine.


(Letture:
Ezechiele 18,25-28; Salmo 24; Filippesi 2,1-11; Matteo 21,28-32)


21 settembre 2023

Non scandalizzarsi della generosità di Dio - 24/09/2023 - XXV Domenica Tempo Ordinario

Vigna dopo la vendemmia
(foto J.C.)



Questo è un brano ricco di significati, proviamo a vederne alcuni.

- Essere chiamati a lavorare dal Signore è grazia, è dono. Al Signore, poi, non importa quanto e come abbiamo lavorato. Per Lui conta solo che noi abbiamo accettato di lavorare nella sua vigna.

- Il dono principale non è il denaro che viene pagato. Il Signore dona molto di più: restituisce la dignità! A persone che provavano la vergogna di apparire scansafatiche anche se non volevano esserlo proprio per niente, che vivevano l'umiliazione di essere padri senza stipendio, che erano spolpati della pur minima dignità, il Signore ha donato la dignità di poter tornare a casa a testa alta, l'orgoglio di poter dire ai figli che quel giorno c'era da mangiare per tutti.

- Dio è un padrone "insolito". La sua priorità non è dare lavoro a tutti, ma aprire a tutti la sua vigna. Più che lavoratori cerca partecipanti alla festa del raccolto. Per questo va per le strade ad ogni ora del giorno a chiamare tutti. L'unica condizione che pone è che dicano di sì.

- Proprio per questo non conta 'l'anzianità di servizio'. Non è questione di quanto si è lavorato, ma di intensità, disinteresse, modo di essere, disponibilità a rispondere alla voce del Signore quando si fa sentire. Gli piacciono gli 'operai' che si fidano di Lui, quelli che evitano, perché non gli passa neanche per la testa, di mercanteggiare.

Per questo può sembrare un padrone ingiusto. E umanamente parlando lo è. Perché la giustizia umana è dare a ciascuno quello che si merita. Ma la giustizia di Dio è dare a ciascuno il meglio. E questa apparente ingiustizia ci porta al punto centrale della parabola, a quella constatazione un po' amara del padrone: «sei invidioso perché io sono buono?»
'Invidioso' è la traduzione di un termine che letteralmente significa 'avere occhio cattivo'. In fondo la parabola ci dice che possiamo essere buoni lavoratori, ma essere malati di 'occhio cattivo'. Troppo spesso è più facile accettare la severità di Dio che la sua misericordia. La prova principale è proprio questa: sei capace di accettare la bontà del Signore, di non brontolare quando perdona, quando dimentica le offese, quando è paziente, quando è generoso con chi ha sbagliato? Sei capace di perdonare a Dio la sua 'ingiustizia'?
Siamo capaci di partecipare alla festa del Signore, o anche noi, come il fratello 'obbediente' del figliol prodigo, ci rifiutiamo di entrare?
Il nostro guaio è l'invidia, l'occhio cattivo, la nostra incapacità di gioire quando Dio fa festa per chi, secondo noi, non se lo merita. Dimentichiamo che il primo santo, l'unico canonizzato direttamente da Gesù, era il ladrone appeso alla croce accanto.
L'infinita misericordia di Dio ha un solo nemico: l'occhio cattivo.



Concedimi, Signore, di essere
lavoratore contento della vigna,
di aver servito il Vangelo,
operaio di non so quale ora
ma che non si aspetta ricompensa alcuna.

Lieto solo di aver lavorato alla tua vigna,
per grappoli profumati,
per un vino nuovo,
per una terra più bella.
Contento di essere primo al lavoro
e contento per il denaro degli ultimi.

Ti prego, Signore,
concedimi uno sguardo buono
e poi di imparare a godere della tua bontà.
Tu sei la mia vita,
la mia ricompensa,
il mio frammento d'oro.

Ti dispiace che io sia buono?
mi domandi.
No, Signore, non mi dispiace
perché sono l'ultimo della fila
e tutto è grazia.
Ermes Ronchi
(il grassetto è mio)



(Letture:
Isaia 55,6-9; Salmo 144; Filippesi 1,20-24.27; Matteo 20,1-16)


14 settembre 2023

Dio è colui che perdona - 17/09/2023 - XXIV Domenica Tempo Ordinario




Sono tante le qualità di Dio: può tutto, sa ogni cosa, è misericordioso, è giusto, è padre (e anche madre), è amore, e via dicendo.
Pensando alla raccomandazione di Gesù ad essere «perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt. 5, 48), noi cerchiamo, come possiamo, come riusciamo, con tutti i nostri limiti e difetti, di vivere queste qualità. Ma ce n'è una che ci risulta di estrema difficoltà: perdonare.
Dio è colui che perdona. Il perdono è proprio una delle caratteristiche di Dio. Umanamente parlando il perdono è una follia, una debolezza.

Gesù ci spiega, con questa parabola, le particolarità del perdono di Dio.
Innanzi tutto è del tutto gratuito, è realmente e fino in fondo 'per dono'. È un dono del tutto immeritato e immotivato. Dio non ci perdona perché ci siamo pentiti (anzi, è il suo perdono accolto che suscita il mio pentimento), perché gli chiediamo scusa, perché il nostro errore è piccolo, ecc.. Lui ci perdona per il semplice fatto che siamo esseri umani, sue creature, suoi figli, ed egli ci ama. È questa l'unica causa del suo perdono.
Difatti perdona per primo un debito enorme, impossibile da restituire (10.000 talenti erano pari a circa tutto il gettito della tassazione annuale del regno d'Israele).

L'altra caratteristica del perdono divino è che, come tutti i doni di Dio, per essere efficace, per durare e aumentare nel tempo, dobbiamo condividerlo. Scoprirci perdonati non ci deve far pensare che siamo dei privilegiati, migliori degli altri. Saperci perdonati ci deve insegnare a perdonare. Se non doniamo il perdono ricevuto, finiamo per perderlo.

Con questa parabola Gesù sembra suggerirci che per essere felici sempre bisogna perdonare. La vendetta, il 'fargliela pagare' ci dà al massimo una soddisfazione momentanea, solo il perdono ci dona una pace e una serenità senza fine.
Come scriveva un ragazzo napoletano alla fine di un tema: "Perdono non perché loro meritano il perdono, ma perché io merito la pace"
Il perdono fa bene prima di tutto a noi stessi.





Cercando spunti per questo commento, ho ritrovato un mio vecchio post. Non so dove ho preso questo testo (troppo bello per essere mio) e non avevo indicato la fonte, mi spiace. Ve lo ripropongo (sperando che qualcuno sappia chi l'ha scritto):

Con l'Incarnazione Dio ci dice:
"Accetta il mio perdono. È il mio regalo per te.
Ti perdono tutto.
Ti perdono tutte le volte che nei tuoi fratelli hai visto dei nemici, tutte le volte che li hai sfruttati, umiliati, schiacciati per il tuo interesse.
Ti perdono tutte le cose che anche tu fai fatica a perdonarti, tutte le cose che neanche tu ti perdoni.
Ti perdono tutte le volte che mi hai usato per il tuo egoismo, tutte le volte che hai usato il mio nome per uccidere, tutte le volte che ti sei fatto scudo di me per andare contro gli altri uomini.
Ti perdono tutte le volte che hai rovinato, deturpato, distrutto quel gioiello che è la Terra e che ti avevo affidato perché tu la rendessi ancora più bella.
Ti perdono tutto, ma proprio tutto.
Accogli il mio perdono, per piacere.
E dopo cerca anche tu di perdonare.
Perdona i tuoi fratelli, perdona gli altri esseri umani, sono deboli e impauriti come te.
Perdona te stesso. Perdonati di non riuscire ad essere dappertutto, perdonati di non riuscire a fare tutto, perdonati di non riuscire a prevedere tutto, perdonati di fare scelte che poi si rivelano sbagliate. Perdonati, te ne prego!
E alla fine perdona anche me. Perdonami per tutte le volte che ti sei sentito abbandonato da me, perdonami per tutte le volte ti sei sentito condannato da me, perdonami per tutte le volte che non ti sei sentito amato da me.
"


(Letture: Siracide 27,33-28,9; Salmo 102; Romani 14,7-9; Matteo 18,21-35)


07 settembre 2023

Guadagnare un fratello - 10/9/2023 - XXIII Domenica Tempo Ordinario

Altare della
chiesa della Riconciliazione (Taizé - Francia)
(foto J.C.)



Dopo il discorso programmatico sul monte, dopo il discorso in parabole, col brano di oggi Gesù inizia il 'discorso comunitario' che affronta i problemi della vita di una comunità cristiana.

«Se il tuo fratello...» Tutto deve partire da qui: siamo fratelli. All'interno di una comunità che cerca di essere cristiana c'è un'uguaglianza fondamentale, una pari dignità. Le differenze sono nei ruoli, nelle funzioni, no nel valore delle persone. E questi fratelli non sono perfetti, non sono privi di difetti e mancanze. La Chiesa è santa, ma formata da peccatori. È da questa realtà che nasce l'esigenza della 'correzione fraterna'.

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va'...». Ecco la cosa straordinaria! Andare! Non rimanere fermi nel rancore e nelle proprie ragioni.
Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamarlo all'ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare. 
Un qualcosa ha rotto il 'noi', allora non bisogna stare fermi, ma bisogna far in modo di 'guadagnare il fratello'. La riconciliazione è sempre un guadagno, mai una perdita. Si tratta di rinunciare a qualcosa per guadagnare molto di più. L'una o l'altra parte si devono muovere, e Gesù, sempre coraggioso e provocatorio, dice che è proprio la parte 'offesa' a doversi muovere per prima.

Punto di arrivo è: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Cioè la consapevolezza che una comunità di credenti si regge non sugli sforzi personali del singolo, ma sul nome di Gesù. È il mettere al centro della comunità non la propria persona, il proprio senso di giustizia, il proprio onore, ma sempre e solo Gesù che permette a una comunità di superare tutti i conflitti.

E in questo cammino di riconciliazione, tra il punto di partenza e quello di arrivo, c'è una strada da seguire, ed è quello che Paolo ci indica nella seconda lettura: «La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità».
Ma oltre alla carità, è necessaria anche l'umiltà. Umiltà che si traduce nell'abbandonare qualsiasi atteggiamento di superiorità. Chi ha sbagliato deve sentire che chi lo ammonisce sa di essere peccatore quanto e più di lui, sa di condividere la stessa fragilità e miseria. Non: "Guarda che cosa hai fatto!", ma: "Guarda che cosa siamo stati capaci di fare...".

E se una frattura tra due persone della comunità diventa insanabile? Dobbiamo fare come Gesù, che ha vissuto e ci ha detto di "amare i propri nemici". Gesù amava tutti, la sua famiglia, i suoi amici, ma amava anche i più lontani e li amava per primo anche senza ricevere il contraccambio. Ecco cosa significa "sia per te come il pagano e il pubblicano": anche se non riesci più a sentire l'altro come fratello, almeno amalo come farebbe Gesù, cioè sempre e comunque.


(Ez 33,1.7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20)


31 agosto 2023

Prendi su di te tutto l'amore di cui sei capace - 3/9/2023 - XXII Domenica Tempo Ordinario

Chiesa di San Damiano
Assisi (PG)
(foto J.C.)



Brano molto famoso, ma anche molto facile da fraintendere, soprattutto se lo si legge secondo un dolorismo che ben poco ha di cristiano. Forse il titolo che veniva dato a questo brano, primo annuncio della Passione di Gesù, ha contribuito a distorcere la nostra prospettiva.
Gesù non ha mai annunciato solamente la sua Passione. Lui ha sempre parlato di Passione, Morte e Resurrezione. Queste tre realtà vanno sempre tenute insieme. Se non temiamo conto di ciò che succederà "il terzo giorno" commettiamo lo stesso errore di Pietro.

Gesù, dopo la confessione di Pietro, inizia a spiegare lo scandalo del cristianesimo; un Dio che entra nel rifiuto, nel dolore e nella morte perché ogni suo figlio vive il rifiuto, il dolore e la morte. Pietro, e noi con lui, questo fa fatica a capirlo. Come può salvare il mondo un crocifisso in più tra i milioni di crocifissi della storia? per salvare il mondo ci vuole il potere, il miracolo, l'autorità. In fondo Pietro non fa altro che ripresentare le tentazioni del diavolo subito dopo il battesimo nel Giordano.
Per questo che Gesù lo chiama Satana. Perché invece Dio sceglie i mezzi più poveri: l'amore disarmato, non fare mai violenza, perdonare tutti fino alla fine.

E dopo questo annuncio Gesù ci dona l'essenza del cristianesimo: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»
"Se qualcuno vuole": è sempre una libera scelta. Gesù non si impone mai, lui si propone. E a maggior ragione anche noi non dovremmo mai imporlo. La molla che ci spinge a seguirlo è la vita, perché Lui fa grande la vita, la fa fiorire, la fa sbocciare alla massima bellezza.
"Rinneghi sé stesso", che non vuol dire annùllati, butta via le tue capacità e potenzialità, diventa sbiadito e incolore. Gesù vuole delle persone che facciano fruttare appieno i propri talenti. Seguire Cristo è conquistare un'infinita passione per tutte le creature. Rinnegare sé stessi vuole dire sapere che non si è il centro dell'universo, ma che si è dentro una forza molto più grande.
"Prenda la sua croce" non vuole assolutamente dire che si deve soffrire con pazienza, sopportare, rassegnarsi. La croce nel Vangelo è la prova che Dio mi ama più della propria vita. Per capire il senso di queste parole allora dobbiamo provare a sostituire la parola 'croce' con la parola 'amore': "se qualcuno vuole venire dietro a me, prenda su di sé tutto l'amore che è capace di donare". Ama, altrimenti non vivi, e prendi anche la porzione di croce che ogni amore comporta.
E infine "seguimi", cioè fai come fa Gesù. Abbi anche tu il coraggio di toccare il lebbroso, di sfidare chi voleva lapidare l'adultera, di commuoverti per due passeri, di essere libero come nessun altro, di amare come nessun altro.
La legge fondamentale dell'amore è proprio questa: sei ricco solo delle cose che hai donato; se dai ti arricchisci, se trattieni ti impoverisci.


(Ger 20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27)