29 maggio 2020

Pentecoste 2020

Più che la mite e tenera colomba oggi, lo Spirito Santo, è uno di quei robusti refoli di bora "ke fa tuto un remitur". È il caso di dire che fa fuoco e fiamme, proprio in senso letterale. 
E sbatte tutti fuori di casa, dove se ne stavano tappati e sprangati per paura. Lo Spirito Santo quando arriva non lascia mai le cose come stanno, ti butta fuori. Fuori dalle tue paure, dalle tue false sicurezze, da tutte quelle difese che ti sei costruito e che un po' alla volta ti stanno isolando, ti stanno soffocando.
È proprio una boccata d'aria pura, pulita, frizzante. Che ti alleggerisce il cuore e ti mette nei piedi la voglia di muoverti, di andare.

Ma quando esci dai tuoi timori, dalle tue abitudini, incontri gli altri. E qui, agli Apostoli, avviene quello che a me pare il miracolo più grosso: non il parlare varie lingue, ma il fatto che gli altri capiscano!
Quante volte è capitato che pur parlando la stessa lingua alla fine, dopo ore di discussioni, non ci si sia capiti. Penso a certe riunioni di lavoro, a certe sedute parlamentari, ma anche a certi consigli pastorali o certi incontri ecclesiali. Ore, giorni di discorsi, ma alla fine  non ci si è capiti.
Perché l'importante non è parlare varie lingue, ma parlare bene, in vari modi. Parlare non per imporre la propria idea, ma per proporre un cammino da fare insieme; parlare non per dimostrare la propria cultura, la propria supposta superiorità, ma perché l'altro capisca; parlare non per vincere, ma per abbracciarsi. Non si può parlare allo stesso modo ai bambini come agli adulti, a tante persone come ad una singola persona, a Tizio come a Caio. Non si deve parlare per mostrare sé stessi, ma per farsi capire. E per farsi capire dobbiamo spostare la nostra attenzione, il centro dei nostri pensieri, da noi a chi ci sta di fronte. Dobbiamo, anche qui, uscire da noi stessi, spostare il nostro sguardo dal nostro ombelico agli occhi e al cuore dell'altro.

Ma anche per ascoltare dobbiamo uscire da noi stessi, dalle nostre idee preconcette. Dobbiamo innanzi tutto dare all'altro la possibilità di stupirci, di dirci qualcosa che tocchi il nostro cuore. Dobbiamo ascoltare per capire, non per controbattere, aprire il nostro cuore a ciò che l'altro ci vuole comunicare, non a quello che noi vogliamo dire. Perché ascoltare realmente è fare comunione, è spezzare insieme lo stesso pane.

A me pare che più si moltiplicano i mezzi di comunicazione, meno si comunichi. Questo perché il più delle volte usiamo questi mezzi non per incontrare gli altri, ma per mostrare noi stessi, per imporci agli altri. È questa una tentazione, un rischio che tutti corriamo e non solo con facebook, twitter, ecc., ma nella vita di tutti i giorni, nel nostro ambiente di lavoro come nella famiglia o con gli amici. Se cerchiamo di non lasciarci prendere con le nostre sole forze, con la sola nostra volontà, è molto difficile, ma se invece domandiamo l'aiuto, il soccorso, dello Spirito Santo allora non saremo più soli, ma, come agli Apostoli, ci verrà donata la capacità di parlare e di ascoltare. Cioè di fare Comunione.

26 maggio 2020

Amore

Amare è presto detto, è molto facile da dire
Vivere l'amore che perdona, che sempre si dona e mai chiede, è tutta un'altra cosa

21 maggio 2020

Aforisma

Essere creduti cretini da un imbecille è un piacere da squisito intenditore.
(Jean Failler) 

Ascensione 2020

Nelle letture di questa solennità dell'Ascensione ci sono, tra la prima lettura e il Vangelo due coppie di frasi che si integrano e si completano. In entrambi i brani vengono raccontati gli ultimi momenti di Gesù sulla terra: nel primo, dagli Atti degli Apostoli (At 1,1-11), c'è il racconto dell'Ascensione fatto da Luca, mentre nel secondo, il Vangelo (Mt 28, 16-20), c'è il racconto di Matteo.

La prima coppia è fatta da "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?" (Atti) e "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Vangelo). Una prima cosa da notare è che Gesù, nel lasciare la terra, non dice che "sarà" con noi, ma che "È" con noi. Con l'Ascensione Gesù non ci ha abbandonato, ma continua ad essere con noi qui ed ora. Solo che lo è in maniera differente. E se vogliamo incontrarlo, se vogliamo vederlo, non dobbiamo alzare gli occhi al cielo. Dobbiamo invece abbassarli alla terra. Ricordando le sue parole (quello che avete fatto al più piccolo degli uomini, l'avete fatto a me - Mt 25,35-46 ), per vedere Gesù dobbiamo abbassare lo sguardo fino ad incontrare gli ultimi, i più schiacciati. In ogni essere umano sfruttato, violentato, perseguitato, sofferente, bastonato dalla vita o dagli uomini, c'è Gesù. Dovremmo accostarci a questi uomini con la stessa devozione con cui ci accostiamo all'Eucarestia: è lo stesso Gesù sotto diversi aspetti. E dovremmo considerare ogni offesa ad un essere umano come un'offesa a Gesù. Ogni volta che calpestiamo la dignità, l'umanità delle persone, è come se calpestassimo le ostie consacrate. 

La seconda coppia è costituita da "ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme" (Atti) e "Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli" (Vangelo). Due frasi in apparente contraddizione: una dice di stare fermi in città e l'altra di andare in tutto il mondo. La chiave per capire si trova in quella specificazione alla prima frase: rimanere fino a quando non siate investiti di forza dall'alto. Senza la forza dall'alto, senza lo Spirito, il messaggio suona falso, poco credibile. Andate, ma prima di tutto rimanete. Rimanere nella preghiera, nella contemplazione. Altrimenti il nostro è un annunciare noi stessi, un chiassoso girare a vuoto come ci ricorda san Paolo nella lettura delle lodi del lunedì della prima settimana T.O. "L'uomo che si agita, fa scoppiare di risate gli angeli" diceva Shakespeare. 
Non solo come persone, ma anche come comunità dobbiamo vivere queste due cose: pregare e meditare per poter andare e predicare (con le parole se necessario, con la vita sempre).
La vita del cristiano, come quella della Chiesa, deve essere comunitaria e comunicativa.
Senza comunicazione, senza uscita verso gli altri, non facciamo altro che girare intorno a noi stessi. Il nostro non è altro che un rimirarsi l'ombelico. 
Ma se manca il centro, il nostro agire finisce per diventare un girare a vuoto, un agitarsi, magari facendo molto baccano, per nascondere (anche a noi stessi) la nostra debolezza spirituale.
Sono questi i due rischi per la vita personale ma anche comunitaria, della Chiesa. Rischi che vengono superati solo in una visione unitaria  e completa della vita personale e della Chiesa. "Stare" (il centro) è in funzione di una precisa responsabilità verso gli altri. E "andare", l'uscire, diventa una manifestazione, obbligatoria, di ciò che si è ricevuto in profondità. Bisogna non solo "essere", ma anche "essere per".
Come diceva fr. Roger, fondatore e priore della comunità monastica ecumenica di Taizé: "Se i cristiani cercano di essere visibilmente in comunione, ciò non è fine a sé stesso, non è per stare meglio insieme o per essere più forti, ma è per essere veri di fronte agli uomini, per offrire a tutti gli uomini un luogo di comunione... La nostra comunione, un fuoco acceso su tutta la terra: ci ardiamo dentro"

19 maggio 2020

Inizio fase 2

Qual'è stata la primo cosa che ho fatto ieri, primo giorno della fase 2?
Alle 8.10 ho telefonato al barbiere e sono riuscito ad avere un appuntamento per le 11.00!!!!!
(chi telefonava alle 11 mentre ero là, doveva aspettare una settimana!)

14 maggio 2020

Sesta Domenica di Pasqua 2020

Ci sono due parole, nel Vangelo di questa domenica (Gv. 14, 15-21), che non mi 'piacciono'.

La prima è una parola "difficile", che non capisco perché non venga messa in modo che tutti possano capirla. Questa parola è "Paraclito", e non capisco perché non venga usata l'antica (anche se non del tutto esatta) traduzione "Consolatore".
Gesù è preoccupato per noi, non vuole che ci sentiamo soli, abbandonati, che ci dibattiamo nello sconforto. Stando in mezzo a noi, vivendo con noi, si è reso conto che l'uomo non può stare senza consolazione, non può fare a meno di qualcuno che lo consoli. Gesù non ci dispensa dalla sofferenza e dalla croce, ma chiede al Padre, e ottiene, che l'esperienza amara del dolore sia sempre accompagnata dall'esperienza della consolazione.
Consolare è molto di più che passare sulle nostre ferite una pomata di frasi dolciastre e melense. È rimettere in piedi una persona, ridarle cuore, voglia e speranza di vivere. Il linguaggio dell'amore è un linguaggio che conforta, non che abbatte.
Ma il linguaggio non basta. Nella seconda lettura s. Pietro dice che dobbiamo rendere conto della speranza che è in noi. Ma aggiunge che "questo sia fatto con rispetto e dolcezza".
È importante che nelle nostre notti di dolore ci venga data una luce calda, una persona. Non una teoria astratta e gelida.
In una striscia, Linus dice al suo amico Charlie Brown: "Non temere, Charlie Brown! Poiché dopo tutto quello che si dice e si fa, c'è qualcuno che ti vuole bene, e questo "qualcuno" è soltanto un rappresentate molto umile, a misura di nocciolina, di Qualcuno molto più grande di lui"

La seconda è "Comandamenti". Mi sa di coercizione, di obblighi. Preferisco molto di più la forma greca (Decalogo = 10 Parole) o quella ebraica (Devarim = le Parole). Mi pare più fedele al racconto biblico. Il dono del Decalogo avviene nel mezzo di un dialogo che Dio ha per mezzo di Mosè col suo popolo. È un discorso. E questo discorso inizia con la presentazione di Dio, che si presenta come colui che ha liberato il popolo dalla schiavitù e lo conduce su di una via di libertà. Ecco quindi il vero significato del Decalogo. Queste parole sono come quei paletti che si vedono in inverno ai lati delle strade innevate. Sono i segnali per gli spazzaneve di dove sia la strada. Le 10 Parole sono proprio questi paletti, ci indicano la strada verso la libertà. Sono i segni dell'amore di Dio per noi, della sua volontà di volerci liberi dal peccato, dall'egoismo.
Ma qui Gesù non indica il Decalogo, la legge, ma la sua vita, il suo annuncio, la buona notizia, cioè il Vangelo. Non è un obbligo, una tassa da pagare, ma un invito ad inserirsi in una comunione di vita, in un rapporto d'amore. È scoprire, sapere, di essere amato. È l'aspetto passivo della nostra vita cristiana, è l'esperienza di sentirsi oggetto di amore. 
E l'amore di DIo è spontaneo, non ha nessuna causa se non Dio stesso. Cristo ci rivela un amore che non si lascia determinare da nessuno se non da DIo stesso. Dio ama i peccatori non a causa del loro peccato, ma nonostante il peccato, come ama i giusti non a motivo della loro buona condotta. Non dobbiamo essere degni per essere amati da Dio, ma diventiamo degni perché siamo amati da Dio. L'amore di Dio non si lascia condizionare dal comportamento degli uomini. Lui fa sorgere il sole sui giusti e sui malvagi. Che brutta notizia sarebbe sapere che Dio ci ama perché siamo buoni e in quanto siamo buoni.

E scoprirsi amati di questo amore sollecita la nostra risposta. E questa risposta va data al prossimo. Dio vede il nostro amore per Lui nell'amore che mettiamo verso gli altri esseri umani. L'unico strumento che abbiamo per misurare il nostro amore per Dio è la nostra carità, è il nostro amore per il prossimo.

Quinta domenica di Pasqua 2020

Il Vangelo di questa domenica (Gv 14,1-12) fa parte del discorso di addio che Gesù fa agli apostoli dopo aver lavato loro i piedi la sera del giovedì santo. Sono delle parole che hanno lo scopo di scacciare la paura, di dire che ci sarà un distacco, un allontanamento. Ma che questo non sarà definitivo. È un discorso molto ricco. Mi fa venire il mente il salmo 62: " Una parola ha detto Dio, due ne ho udite"
Ogni parola di Gesù è un mondo, un forziere di significati, uno scrigno di gesti d'amore. Si parla di casa, cuore, posto, cammino, tutte cose comuni, ma che qui diventano segno della presenza divina, del suo amore, dei suoi gesti e delle sue premure per gli uomini.

Gesù non sta per andare in un luogo, ma va al Padre. Ci indica non una meta ma una persona. Non dobbiamo fare una strada, dobbiamo allacciare un rapporto personale. La base, la radice della nostra fede, della nostra vita non sta in quello che facciamo ma nei rapporti che viviamo, soprattutto nel rapporto che viviamo con Dio. Se viviamo un rapporto d'amore allora siamo capaci di compiere gesti d'amore. Non dobbiamo fare le "buone azioni" per poter avere un buon rapporto con Dio, ma dobbiamo avere un buon rapporto con Dio per poter fare le "buone azioni".

Gesù dice di essere la verità. La verità non è una idea, un concetto più o meno astratto. È una persona. E una persona non si può possedere, si può, si deve essere in relazione. Maggiore sarà la nostra relazione con Gesù, più vicina sarà la nostra relazione con la verità.

Ma tutto il discorso di Gesù ci deve aprire alla speranza, ci deve "far cadere in alto" (P. Evdokimov). Gesù vuole farci capire che anche nel momento più buio possiamo scorgere una luce, magari piccola e fioca, ma quella luce è li per noi, perché noi, attraverso di Lui e insieme a Lui, possiamo uscire al sole che viene a illuminare la nostra vita e scaldare il nostro cuore.

Forse questo brano, vista la sua ricchezza, lo potrebbe commentare bene solo un poeta.

A me ha fatto venire in mente, non so perché, due frasi del beato papa Giovanni XXIII.
La prima nella lettera ai bulgari quando lasciò la Bulgaria dopo anni di servizio: "Dovunque io dovessi andare nel mondo, se qualcuno passasse dinanzi alla mia casa, di notte, in condizioni angosciose, costui troverà alla mia finestra un lume acceso. Bussa! Bussa! Non ti domanderò se sei cattolico o no"
E la seconda: Alla mia povera fontana si accostano uomini di ogni specie. La mia funzione è di dare acqua a tutti"

Quarta Domenica di Pasqua 2020

Il centro del discorso del Vangelo di oggi, 3/5, è il rapporto tra le pecore e il pastore. Per capirlo meglio occorre sapere quali erano gli usi in Palestina al tempo di Gesù.
Nel recinto sono alloggiati diversi greggi appartenenti a svariati padroni che, per la notte, affidano le proprie pecore alla sorveglianza di un guardiano. Al mattino si presentano i vari pastori. E ciascuno chiama le proprie pecore che, così, escono fuori e lo seguono. Pur confuse, mescolate insieme, le pecore rispondono unicamente all'appello del proprio padrone. Non vanno dietro a un altro pastore, che per loro risulta «estraneo». È la voce che permette il riconoscimento. «Un estraneo ... non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Questo particolare, è la chiave di tutta la similitudine. Le pecore, nel recinto, durante la notte, possono provare l'impressione di aver perduto il pastore, di essere state abbandonate da lui. Lo ritrovano al mattino, non quando lo vedono, ma quando «ascoltano la sua voce».

Allora avviene l'incontro, il riconoscimento reciproco, grazie a una specie di «liturgia della voce». È la voce che permette di distinguere il pastore dagli estranei. È la voce che restituisce ciò che è stato sottratto agli occhi. Pure Maria di Magdala, il mattino di Pasqua, allorché si affida al «vedere», si sente autorizzata a piangere perché avverte ciò che le è stato tolto: «Hanno portato via il mio Signore dal sepolcro e non so dove l'hanno posto» (Gv 20, 13).
Lo ritrova al suono della voce:
- Maria!
- Rabbunì!
Gli occhi non sono stati affidabili, difatti l'ha scambiato per il giardiniere. Ma la voce non tradisce. Quel timbro, quel tono, ma soprattutto il nome pronunciato in quella maniera, fanno scoccare la scintilla del «riconoscimento ». Anche lei, come le pecore, riconosce il Pastore quando lo sente pronunciare il proprio nome. Come mi faceva notare un’amica, i neonati riconoscono la madre dalla voce.
«Chiama le sue pecore una per una ... » Ciascuna, oltre a riconoscere quella voce unica, inconfondibile, riconosce il proprio nome. Si tratta di un pastore che si occupa, non di un gregge, di una massa, ma delle singole pecore. E proprio questo rapporto personale, intimo, all'insegna dell'unicità, è quello che si stabilisce tra noi e il vero Pastore, e lo caratterizza rispetto a tutti gli altri « abusivi ».

Ognuno di noi non è uno fra i tanti. È unico. Non è un numero, confuso nella quantità, una pedina che può essere sostituita da tante altre, esse pure intercambiabili, nel vasto scacchiere del mondo .

Ogni individuo è una scoperta, un esemplare esclusivo. L'uomo medio, ordinario, standard esiste soltanto nelle statistiche.
Dio non lavora in serie. L'uomo non esce da una colossale catena di montaggio celeste, che sforna prodotti pressocché uguali. Ogni uomo è un modello originale, con delle caratteristiche peculiari, che possiede in esclusiva. 
Dio concede a ciascuna creatura l'esclusiva della Sua immagine. Ognuno di noi è un qualcosa che non può essere ripetuto, e di cui non esiste copia o sostituto.
Ogni uomo che nasce ha un compito « unico» da svolgere nel mondo.
Ogni uomo che viene al mondo è necessario. Dal momento che è stato creato, è necessario alla vita, è necessario all'amore, è importante di Amore.
Ogni uomo è insostituibile nella vita. Io sono chiamato a produrre una nota originale, insostituibile, nel concerto dell'universo. Se non mi realizzo, se non sono me stesso, privo il mondo, la Chiesa, di qualche cosa che soltanto io sono in grado di produrre. Se io non vivo in pienezza, lascio mancare la mia nota, necessaria alla sinfonia generale. Una nota che nessun altro può produrre al mio posto. 
Posso farmi sostituire in un lavoro. Ma non posso farmi sostituire nella vita.
Per qualunque «padrone del vapore» si può trovare facilmente un sostituto (anche se lui ne dubita). Ma nessuno può sostituire la più piccola creatura che rifiuta il proprio posto nella vita.
Per ciò che fai, puoi anche essere inutile (anzi, è igienico possedere questo senso di inutilità), ma per ciò che sei, per ciò che sei chiamato a essere, risulti addirittura indispensabile.
La vita non può fare a meno di te.

Ma torniamo alla voce. Quell'essere chiamato per nome, non è soltanto un fatto di «riconoscimento». Quella voce è un appello. Quando mi sento interpellato personalmente, avverto una sollecitazione a muovermi, a mettermi in cammino, a tener dietro al Pastore.

Quella non è una voce semplicemente consolante.
Il mio nome non viene pronunciato per cullarmi nel sonno
È un perentorio segnale di risveglio.
La risposta a quella voce la si dà ... lungo la strada della vita

Terza Domenica di Pasqua 2020

l vangelo di oggi è quello dei discepoli di Emmaus. Dopo la constatazione che in pratica Gesù con loro celebra una Messa (liturgia della Parola e liturgia eucaristica), una cosa che mi ha sempre colpito è la constatazione dei due: come ci ardeva il cuore quando ci spiegava le Scritture.

È un passaggio che mi ha sempre fatto un po' tremare i polsi.
Mi spiego. Noi ministri della Parola (e non intendo solo quelli ordinati, ma tutti coloro che a vario titolo si trovano a dover commentare/spiegare/proclamare la Bibbia) riusciamo a "scaldare i cuori" di coloro a cui ci rivolgiamo? o riusciamo solo ad annoiarli o ad addormentarli? quando non ad allontanarli dalla Chiesa?

Penso che il problema principale sia innanzi tutto se quella parola ha prima scaldato il nostro cuore. Amiamo realmente, teneramente, quella Parola? l'abbiamo assaporata, gustata, ruminata? l'abbiamo fatta penetrare nel nostro cuore? è stata realmente una spada a due tagli che ci è penetrata nelle ossa e nelle giunture?

Non basta essersi preparati intellettualmente, aver letto magari un mucchio di dotti trattati di esegesi e di critica testuale. Per poter parlare della Parola, bisogna che sia diventata la base della nostra vita. Dovremmo parlarne come un ragazzo parla della sua fidanzata, più che lo studio, dalle nostre parole deve sgorgare l'amore, la vita. Più che con la testa (che comunque non andrebbe dimenticata) dovremmo parlarne col cuore. Con un cuore ardente d'amore, di passione.