Ci sono due parole, nel Vangelo di questa domenica (Gv. 14, 15-21), che non mi 'piacciono'.
La prima è una parola "difficile", che non capisco perché non venga messa in modo che tutti possano capirla. Questa parola è "Paraclito", e non capisco perché non venga usata l'antica (anche se non del tutto esatta) traduzione "Consolatore".
Gesù è preoccupato per noi, non vuole che ci sentiamo soli, abbandonati, che ci dibattiamo nello sconforto. Stando in mezzo a noi, vivendo con noi, si è reso conto che l'uomo non può stare senza consolazione, non può fare a meno di qualcuno che lo consoli. Gesù non ci dispensa dalla sofferenza e dalla croce, ma chiede al Padre, e ottiene, che l'esperienza amara del dolore sia sempre accompagnata dall'esperienza della consolazione.
Consolare è molto di più che passare sulle nostre ferite una pomata di frasi dolciastre e melense. È rimettere in piedi una persona, ridarle cuore, voglia e speranza di vivere. Il linguaggio dell'amore è un linguaggio che conforta, non che abbatte.
Ma il linguaggio non basta. Nella seconda lettura s. Pietro dice che dobbiamo rendere conto della speranza che è in noi. Ma aggiunge che "questo sia fatto con rispetto e dolcezza".
È importante che nelle nostre notti di dolore ci venga data una luce calda, una persona. Non una teoria astratta e gelida.
In una striscia, Linus dice al suo amico Charlie Brown: "Non temere, Charlie Brown! Poiché dopo tutto quello che si dice e si fa, c'è qualcuno che ti vuole bene, e questo "qualcuno" è soltanto un rappresentate molto umile, a misura di nocciolina, di Qualcuno molto più grande di lui"
La seconda è "Comandamenti". Mi sa di coercizione, di obblighi. Preferisco molto di più la forma greca (Decalogo = 10 Parole) o quella ebraica (Devarim = le Parole). Mi pare più fedele al racconto biblico. Il dono del Decalogo avviene nel mezzo di un dialogo che Dio ha per mezzo di Mosè col suo popolo. È un discorso. E questo discorso inizia con la presentazione di Dio, che si presenta come colui che ha liberato il popolo dalla schiavitù e lo conduce su di una via di libertà. Ecco quindi il vero significato del Decalogo. Queste parole sono come quei paletti che si vedono in inverno ai lati delle strade innevate. Sono i segnali per gli spazzaneve di dove sia la strada. Le 10 Parole sono proprio questi paletti, ci indicano la strada verso la libertà. Sono i segni dell'amore di Dio per noi, della sua volontà di volerci liberi dal peccato, dall'egoismo.
Ma qui Gesù non indica il Decalogo, la legge, ma la sua vita, il suo annuncio, la buona notizia, cioè il Vangelo. Non è un obbligo, una tassa da pagare, ma un invito ad inserirsi in una comunione di vita, in un rapporto d'amore. È scoprire, sapere, di essere amato. È l'aspetto passivo della nostra vita cristiana, è l'esperienza di sentirsi oggetto di amore.
E l'amore di DIo è spontaneo, non ha nessuna causa se non Dio stesso. Cristo ci rivela un amore che non si lascia determinare da nessuno se non da DIo stesso. Dio ama i peccatori non a causa del loro peccato, ma nonostante il peccato, come ama i giusti non a motivo della loro buona condotta. Non dobbiamo essere degni per essere amati da Dio, ma diventiamo degni perché siamo amati da Dio. L'amore di Dio non si lascia condizionare dal comportamento degli uomini. Lui fa sorgere il sole sui giusti e sui malvagi. Che brutta notizia sarebbe sapere che Dio ci ama perché siamo buoni e in quanto siamo buoni.
E scoprirsi amati di questo amore sollecita la nostra risposta. E questa risposta va data al prossimo. Dio vede il nostro amore per Lui nell'amore che mettiamo verso gli altri esseri umani. L'unico strumento che abbiamo per misurare il nostro amore per Dio è la nostra carità, è il nostro amore per il prossimo.
Caro Julo,
RispondiEliminaben tornato su questo blog!!!
E' sempre un piacere leggerti!
Grazie, Luigi. In effetti ho deciso di riprenderlo in mano.
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