27 agosto 2020

Dio propone, non impone - 30/08/2020 - XXII domenica tempo ordinario

Tra l'episodio del Vangelo di oggi e quello di domenica scorsa non c'è una settimana, ma qualche decina di minuti al massimo. Gesù ha appena appurato che i suoi discepoli hanno capito chi lui sia, cioè il Messia. E allora inizia a spiegare 'come' lui intende essere il Messia, 'come' il Padre intende salvare l'umanità per mezzo del Figlio: amandoci fino alla fine, donando la sua vita per noi ("non c'è amore più grande che donare la vita per i propri amici" cfr. Gv 15,13).

Ecco quindi il suo primo annuncio della Passione, Morte e Resurrezione. Si può capire fino in fondo la Passione e la Morte solo alla luce della Resurrezione. Se ci fermiamo alla Passione, commettiamo lo stesso errore di prospettiva di Pietro, che non ha saputo andare oltre, non ha tenuto conto di ciò che sarebbe accaduto 'il terzo giorno'.
"Venire ucciso e risuscitare il terzo giorno". Venire ucciso e risuscitare sono due verbi che non si possono separare. Pietro invece si è fermato al 'soffrire' e al 'venire ucciso'. Non ha fiato abbastanza per arrivare al 'terzo giorno'. Non capisce. Non riesce ad adeguare la sua idea di Dio al Dio che ha davanti. E allora cerca di far adeguare Dio all'idea che ha lui. Cerca di insegnare a Dio come si deve comportare.
In fondo mi fa un po' pena. Si è appena laureato 'magna cum laude' in ortodossia, e una decina di minuti dopo viene ignominiosamente bocciato all'esame, forse più importante, di mentalità. Di ortoprassi, direbbero i teologi.

Si nota subito la differenza: Gesù parla apertamente, Pietro prende in disparte. Sembra quasi il comportamento del serpente con Eva del capitolo 3 della Genesi! E difatti Gesù lo chiama Satana! Poco prima è stato proclamato beato. Adesso diventa Satana. Beato quando si lascia istruire da Dio, quando ascolta il 'suggerimento' dall'alto. Satana quando ascolta l'istinto umano. Satana è il diavolo, il divisore, colui che cerca di separare il Cristo dalla strada segnata dal Padre e accettata per amore. A volte la pietra invece di essere la roccia che garantisce la solidità delle fondamenta può diventare l'inciampo che cerca di farti cadere.

Gesù si 'volta' verso Pietro. Un gesto che ristabilisce le posizioni. È lui che sta davanti perché è Lui che traccia la strada. Solo seguendo Lui possiamo vivere fino in fondo l'amore di Dio, l'amore che dona la vita, che fa fiorire la vita. Ma il gesto di Gesù non è un gesto di rimprovero, ma di amore.
Anzitutto dice 'Se qualcuno vuole venire dietro a me'; non dice: devi venire. Dice 'se vuoi', se t'interessa. Non è un obbligo o una cosa che devi fare per forza per evitare un castigo futuro. È solo un invito che fa a chi desidera stare con lui.
'Rinneghi sé stesso' cioè smetti di pensare a te stesso, di preoccuparti per te stesso, perché non ne avrai più bisogno. Il Padre sa meglio di noi di cosa abbiamo bisogno. Penserà ai tuoi bisogni meglio di come faresti tu. Quindi è una proposta di pienezza, non di rinuncia.
'Prenda la sua croce e mi segua'. Non si tratta della croce di Gesù, ma della tua. Gesù non prende la sua croce per soffrire, ma per manifestarci quanto è grande l'amore di Dio per noi. E allora, se la croce di Gesù ci vuole parlare solo di Amore, qual è la tua croce? È la via che scegli per amare, e non è sempre facile. Basta pensare a quanto è bello, ma anche difficile far crescere i nostri figli. Quanta gioia, ma anche quanta sofferenza, quanta speranza, ma anche quante preoccupazioni ci sono nell'essere genitori! L'amore per le persone ti dona pienezza di vita, ma ti può anche far sanguinare il cuore, lacerarlo.

Gesù ci chiede di seguirlo perché solo andando dietro a Lui, facendo la sua strada, possiamo, se lo vogliamo, diventare come Lui. Mai nessuna divinità ha pronunciato parole come queste. Solo quando sono dietro a Lui sono con le spalle protette. Solo dietro a Gesù "sto-da-Dio"!


20 agosto 2020

23 agosto 2020 - XXI domenica del tempo ordinario

Faccio parte di quelle generazioni che hanno studiato sul catechismo di san Pio X, quello con le domande e le risposte da studiare a memoria. E quando ti interrogavano, guai a sbagliare una parola o una virgola! Non c'era nessuno spazio per la riflessione personale, per un approfondimento, per un dubbio.

Anche Gesù pone delle domande. Ma non cerca il compitino ben fatto, la risposta perfettina imparata a memoria e ripetuta come un pappagallo. Anche la prima domanda, che pare quasi da sondaggio di opinione, da ricerca su Google, in realtà serve proprio a far uscire i discepoli dalle risposte preconfezionate.
Gesù chiede ai suoi discepoli di uscire dalla mentalità del 'compitino fatto a casa'. Proprio per questo immediatamente dopo chiede: 'Voi, chi dite che io sia?'. Dalla domanda teorica, con riposta studiata a tavolino consultando i testi e i documenti, Gesù passa all'interiorizzazione della sua vicenda, al rapporto personale discepolo-Maestro. Difatti alla prima domanda vengono citati tutti personaggi del passato più o meno remoto. A Gesù non interessa il passato, interessa solamente il momento presente. Ma soprattutto a Gesù interessa il rapporto personale: "Chi sono io, Gesù di Nazareth, per te?"
Gesù non cerca parole formalmente corrette ma parole fortemente sentite, non cerca definizioni ma coinvolgimenti. Gesù cerca relazioni, cerca un "io e te". Le sue non sono domande da insegnante o da giudice. Le sue sono domande da innamorato!
Gesù vuole sapere se anche Pietro, se anche gli apostoli sono innamorati di Lui. E vuole sapere se anche noi, oggi e qui, siamo innamorati di Lui. Ma lo fa non per giudicarci, ma perché noi possiamo prendere coscienza del nostro e del suo amore.
Con le sue domande Gesù vuol farci capire che il Cristianesimo non è né una dottrina né una morale. Il Cristianesimo è un rapporto, una relazione amorosa con Gesù.

Simone dice a Gesù: "Tu sei il Cristo", che significa: "Tu sei veramente il Messia che aspettavamo", una professione di fede bella e buona e, decisamente, ardita. Riconoscendo nel falegname, nella persona "mite e umile di cuore" con cui ha un rapporto di amicizia da pari a pari, l'inviato di Dio, il pescatore Simone fa un salto di qualità determinante nella sua storia, un riconoscimento che gli cambierà la vita. Per Simone, dire che Gesù è il Cristo è come un salto mortale, un ribaltamento totale della propria vita. E Gesù gli restituisce il favore. Gesù gli risponde: "Tu sei Pietro".

Simone non sapeva di essere Pietro. Sa di essere cocciuto e irruente ma, riconoscendo in Gesù il Messia, scopre una dimensione a lui sconosciuta. Scopre un suo volto nuovo che lo porterà a garantire la saldezza della fede dei suoi fratelli.
Sapeva di essere un testone, scopre di essere una roccia.
Sapeva di essere un irruento, un sangue caldo; e il Signore gli svela che proprio con questo difetto potrà essere di aiuto ai fratelli. Gesù non ci toglie i difetti, ma se ci lasciamo fare da Lui, riesce ad usare i nostri difetti per la realizzazione del Regno di Dio.
Pietro rivela che Gesù è il Cristo. Gesù rivela a Simone che egli è Pietro.
Quando ci avviciniamo al mistero di Dio, scopriamo il nostro volto. Quando ci accostiamo alla Verità di Dio riceviamo in contraccambio la verità su noi stessi. Ed è sempre una verità più bella di come la crediamo noi.

E subito dopo che Pietro ha manifestato la sua fede, la sua comprensione della realtà di Gesù, Gesù gli affida "le chiavi del regno dei cieli". Gesù si fida di Pietro, proprio quell'apostolo che più volte nel vangelo manifesta la sua generosità mista a durezza di comprendonio (il soprannome 'Pietro' sembra proprio indicare anche la sua 'testa dura'). Gesù affida a Pietro e ai suoi compagni una enorme responsabilità, che è quella di rendere accessibile il Regno dei cieli sulla terra. Pietro e gli altri, e di seguito tutti coloro che seguiranno la testimonianza degli Apostoli (quindi anche noi oggi), hanno il compito di custodire e aprire le porte di Dio sulla terra facendo in modo che nessuno rimanga fuori e nessuna porta rimanga sbarrata.

Perché le chiavi non servono solo per chiudere, ma anche per aprire. Le 'chiavi' non sono un potere ma sono una responsabilità, un compito preciso che non va preso alla leggera! Non dobbiamo mai dimenticare che Dio è 'accessibile' proprio attraverso l'umanità di coloro ai quali Gesù ha affidato il suo messaggio, cioè a tutti noi. Avere le chiavi significa fare in modo che le porte siano sempre custodite, ma mai sbarrate. Avere le chiavi non vuol dire sprangare, rendere inaccessibili le porte.
Nel corso dei secoli tante volte molti uomini e donne sono rimasti chiusi fuori dalla comunità perché chi stava dentro non apriva le porte ed era preoccupato più di chiudere che di aprire. Giudizi, pregiudizi, condanne, anatemi, invidie e via dicendo, hanno spesso reso 'il regno dei cieli' come un qualcosa per pochi eletti, e non la 'notizia che dà gioia' (questo è il significato della parola "vangelo") di un Dio che ti ama e che vuole solo la tua felicità.
Ascolto, amore e perdono, sono il modo in cui le porte della comunità cristiana non rimangono mai chiuse, sia per chi sta dentro che per quelli che sono fuori.

Ma avere le chiavi non è sempre facile. A volte è faticoso tenerle in ordine perché tutto funzioni al meglio. Le chiavi custodiscono spazi per tutti e in modo che tutti si sentano accolti e responsabili. In genere per le nostre chiavi mettiamo delle etichette o dei segni che ce le rendano facilmente riconoscibili, per capire cosa aprono le chiavi del Regno dei cieli affidate alla Chiesa basta leggere il Vangelo. Lì troviamo ogni indicazione e ogni apertura.


12 agosto 2020

16 agosto 2020 - XX domenica del tempo ordinario

Gesù, come uomo, ha dovuto imparare tutto proprio come noi. Ma ha anche dovuto imparare come vivere il suo essere "vero Dio e vero uomo". E ha fatto fatica, c'ha messo tanto tempo. Tutti noi ricordiamo l'episodio di Gesù nel tempio a dodici anni (era l'età in cui gli ebrei maschi diventavano legalmente adulti). Poi durante i tre anni di vita pubblica, dapprima ritiene che il suo messaggio sia rivolto solamente al popolo ebraico. Ma un po' alla volta la sua azione si allarga, inizia a predicare e operare anche in mezzo ai pagani e ai samaritani. Ci sono alcuni episodi che lo spingono a capire che il Padre vuole raggiungere tutti gli uomini. E quello del Vangelo odierno è uno di questi.

C'è questa donna. Ma per un ebreo del tempo ha tre disgrazie: è donna, è pagana, è cananea. In pratica la feccia della feccia. Un cane randagio, insomma. E proprio 'cani' venivano chiamati i pagani dagli ebrei. Ma questa donna ha un grande dolore, ma non per sé, lo ha per sua figlia. Non chiede per sé, chiede per un'altra persona. Lei non avrebbe nessun titolo, nessun diritto di rivolgere la parola al rabbì ebreo, ma è tanto l'amore che ha nel cuore, che osa. L'amore porta ad osare, a superare le convenzioni e le usanze, anche i propri limiti e le proprie paure.

Ma noi di fronte alla sofferenza, di fronte alla disperazione, spesso non sappiamo cosa dire, né cosa fare. Arriviamo anche a non sopportarla. E reagiamo con fastidio. Come gli apostoli, che in pratica dicono a Gesù: "dagli qualcosa così finisce di rompere e ce la leviamo di torno".

E Gesù, che alla donna non rispondeva (non era bene che un rabbì rivolgesse la parola ad una donna in pubblico, neanche a sua moglie!), ai discepoli ribatte che lui è venuto solo per gli ebrei.

Ma la donna non si arrende. Gli si prostra davanti come di fa con un dio, e gli dice semplicemente "Signore, aiutami". Nel Vangelo di domenica scorsa era Pietro a implorare "Signore, salvami". E davanti alle invocazioni di aiuto Gesù non rimane indifferente, risponde. Solo che le sue risposte non sono quasi mai quelle che cerchiamo noi. Perché le sue risposte non vogliono solo risolvere un problema, ma vogliono anche farci crescere, farci fare un passo avanti, farci diventare sempre più esseri umani.
E la risposta di Gesù alla donna le fa prendere coscienza di tutto il suo amore.
E la risposta della donna fa capire a Gesù che per il Padre non ci sono figli e cani. Per il Padre tutti sono figli.

E succede una cosa molto particolare. Nel Padre Nostro Gesù ci insegna a dire "sia fatta la Tua volontà". Ma adesso è lui, il Figlio di Dio, che dice alla donna "sia fatta la tua volontà"! Veramente, come diceva Origene, "le nostre preghiere sono padri e madri di ciò che accade nel mondo".
Gesù che all'invocazione di Pietro gli aveva detto che aveva poca fede, all'invocazione della donna pagana risponde che la sua fede è grande.

La donna scopre di avere una grande fede e che anche lei è figlia.
Gesù si rende conto sempre più che nel regno di Dio non ci sono figli e non figli, uomini e cani. Ma ci sono solo figli da saziare di amore, e che sono figli sono anche quelli che pregano un altro Dio.
Gli apostoli, e noi con loro, scoprono di non avere il monopolio della fede, anzi. Scoprono (e noi con loro) che anche l'ultimo degli infedeli può avere una fede più grande della loro. Scoprono che si può imparare da tutti, tutti hanno qualcosa da insegnarci, perché tutti sono figli di Dio e da Lui amati.

06 agosto 2020

9 agosto 2020 - XIX domenica del tempo ordinario

Gesù è sempre pronto a farsi trovare e ad agire quando la folla si reca da lui in cerca di ascolto, di soccorso, di aiuto e di compassione. Ma è altrettanto, se non di più, pronto a fuggire, a non farsi trovare, quando c'è in vista un'ovazione, un'esaltazione, un trionfo. E dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci il rischio che la folla sfamata lo voglia portare in trionfo è molto alto. 
Ma lo stesso atteggiamento, la stessa scelta Gesù la vuole per la sua Chiesa. Difatti 'costringe' i discepoli a salire sulla barca e andare dall'altra parte. E dopo aver rimandato a casa la folla, se ne va in cima alla montagna. Sulla cima di un monte come Elia nella prima lettura di oggi, come nella Trasfigurazione di pochi giorni fa (il 6 agosto). Sono tutte manifestazioni di Dio. Come lo sarà tra poco il camminare sulle acque.

Ma se ne va da solo perché è vero che la comunità è importante, è vitale per la nostra vita di fede, ma senza dei momenti di incontro personale, dei tête-à-tête intimi, delle cenette a lume di candela, ma anche delle litigate col Signore, la comunità diventa gruppo, può diventare setta. Da luogo di apertura agli altri e al mondo, diventa luogo di chiusura, autoreferenziale. Senza momenti di preghiera personale la nostra fede rischia terribilmente di sbilanciarsi sul fare, sull'ansia pastorale, sull'efficientismo organizzativo. Ma questo sbilanciamento è una terribile riduzione dell'esperienza cristiana. Il vero problema che stiamo vivendo noi cristiani non è di essere in pochi, ma di essere poco cristiani!

Nei vangeli di queste ultime domeniche l'appello del Signore è sempre molto chiaro: uscire. Uscire per seminare ovunque, uscire per trovare il tesoro, uscire per cercare la perla. Ma noi invece siamo in ricerca più di ciò che ci dà garanzie che non di ciò che possiamo scoprire, trovare, incontrare. Siamo sempre più schiavi del 'si è sempre fatto così' e sempre meno disponibili al "prendi il largo" (Lc 5,4). Anche per questo Gesù ha dovuto spingere gli apostoli a prendere il largo.

Ma prendere il largo significa lasciare il porto, abbandonare l'approdo sicuro e affrontare il mare aperto. E il mare aperto non è sempre la pesca miracolosa. Molto spesso è invece il vento contrario, la tempesta. E le tempeste nella vita a volte arrivano, come questa del vangelo di oggi, subito dopo un grande trionfo, quando ci sentiamo forti, vincenti.
Ma non è Dio che ti manda la tempesta, la tempesta non è Dio che ti presenta il conto per i tuoi successi. Semplicemente è la vita. Dio non ti manda la tempesta. Ma Dio approfitta della tempesta per venirti incontro, per cercarti, per raggiungerti, per stare con te. 
Solo che noi molto spesso non lo riconosciamo. Siamo abituati ai potenti che si fanno precedere da araldi, che arrivano tra squilli di tromba, salve di cannoni e rulli di tamburi. Ci aspettiamo tuoni e fulmini e invece arriva il sussurro di un vento leggero, ci aspettiamo una sfilata e invece arriva una persona che passeggia. Perché Dio, quando cerca l'uomo, fin dai tempi del paradiso terrestre, scende a passeggiare. Allora lo faceva la sera nel giardino dell'Eden, nel racconto di oggi lo fa di notte sulle acque agitate.
A noi un Dio che scende a cercarci, che cammina tranquillo verso di noi, a volte fa paura. Non lo riconosciamo, troppo diverso dalle nostre aspettative. Lo prendiamo per un fantasma. E anche quando ci rassicura, quando ci dice "Sono io, non abbiate paura!", in fondo ne dubitiamo, abbiamo bisogno di ulteriori rassicurazioni. Abbiamo bisogno di prove. E allora anche noi, come Pietro gli diciamo "Signore, se sei tu ...". Anche noi vorremmo, ma temiamo. Vorremmo avere fede, ma nello stesso tempo dubitiamo.
In fondo è bella questa richiesta di Pietro: chiede di andare verso Gesù sulle acque. Non chiede di camminare sull'acqua, chiede semplicemente che nulla, nemmeno la sua paura, nemmeno la minaccia della morte (di cui il mare è simbolo nella bibbia) possa impedire il suo andare verso Gesù. Ma non basta il nostro desiderio per camminare sulle acque del dubbio. E nel momento in cui Pietro distoglie lo sguardo da Gesù e guarda al pericolo, affonda. Nel momento in cui pone l'attenzione sulla forza del vento e sulla potenza del mare più che su Gesù, va a picco. Dolcissima ironia divina: il capo dei pescatori, il pescatore di uomini, viene ripescato.

È stupenda l'immagine della Chiesa che chiude questo passo del Vangelo. Una Chiesa che è una comunione di fragilità, di dubbio, di paura. Una comunità di "gente di poca fede". Una comunità che non mostra i muscoli, che non si crede migliore degli altri ergendosi a giudice del mondo. Ma una comunità che conscia del propri limiti, delle proprie difficoltà e dei propri peccati, piega le ginocchia e il capo e si affida totalmente a Dio.