30 novembre 2020

Facciamo il Presepe una statuina alla volta: Il BUE

Riprendo (aggiornando) alcune riflessioni proposte anni fa.*


La prima figura che mi capita tra le mani è quella del bue. Non è una figura che sia presente nel vangelo natalizio, però nel presepe ci entra di diritto a furor di tradizione.

Ma che significato ha il bue nel presepe?

Chi ha la mia età, o ancor di più, si potrà ricordare di aver visto in gioventù il bue attaccato all'aratro che percorre il campo. Su e giù, solco dopo solco. Passo lento, sforzo costante, fatica, regolarità. È la nostra vita di tutti i giorni: un lavoro spesso nascosto, a volte duro, comunque ripetitivo, monotono.
Le solite cose ordinarie, i soliti impegni gravosi, i compiti non sempre graditi e poco gratificanti.
Si tratta di realizzare la propria santità con i materiali comuni che ci fornisce la nostra vita ordinaria; nel quotidiano, attraverso il quotidiano, insieme al quotidiano; arrivare a Dio con i vestiti, la polvere e il sudore del nostro vivere quotidiano.

Il bue è a disposizione per le faccende più gravose, i servizi più umili. Non partecipa alle sfilate, non rivendica ruoli più importanti.
Il bue ci ricorda che nella vita ci vuole costanza, determinazione, tenacia, applicazione, pazienza, disposizione al sacrificio, voglia di ricominciare sempre da capo. Ma soprattutto impegno ad arrivare fino in fondo.

Inoltre il bue ha bisogno del giogo per poter esprimere tutta la sua forza. A noi invece il giogo da fastidio; vorremmo muoverci liberamente, senza imposizioni. Scambiamo la spontaneità, la naturalezza, la creatività con l’arbitrarietà, il velleitarismo e il rifiuto di ogni regola e disciplina. Dimentichiamo che la passione va accoppiata col rigore; che la disciplina interiore è indispensabile a governare la propria vita. Picasso sosteneva che ogni quadro era frutto per il 5% di talento e per il 95% di duro studio e lavoro, invece noi vorremmo fare solo ciò che ci piace e senza nessuna fatica, e non ciò che è utile e necessario.

Gesù ha detto: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo su di voi... Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero.” Bella solidarietà, bell'aiuto: noi siamo stanchi, non ce la facciamo più... e lui ci appioppa un carico supplementare. In realtà siamo stanchi perché non camminiamo abbastanza. Siamo stanchi per i pesi, soprattutto degli altri, che non intendiamo portare.


(*) Spunti tratti da "La novena di Natale davanti al presepe" di A. Pronzato - Gribaudi (2001)


26 novembre 2020

ATTENZIONE! Arrivo In Corso! - 29/11/2020 - I domenica Avvento

Inizia oggi l'Avvento, il tempo dell'attesa, del tempo che sembra non arrivare mai, della lentezza. Michelangelo Buonarroti, che oltre ad essere scultore era anche scrittore, diceva che "l'attesa è il futuro che si presenta a mani vuote". Ma la nostra non è l'attesa alla coda della cassa del supermercato o quella in una delle tante sale d'aspetto della nostra vita. È per questo che Vangelo di oggi è racchiuso tra due verbi: 'attendere' e 'vegliare'.

Attendere. Ricorda un arciere che sta per scoccare la sua freccia verso il bersaglio, ricorda Usain Bolt (o un qualsiasi altri velocista) ai blocchi di partenza di una finale olimpica. Una situazione apparentemente statica, ma in realtà piena di energia pronta a liberarsi. L'attesa dell'Avvento non è un'attesa passiva, annoiata, fatta pensando ad altro tra un'occhiata veloce all'orologio e una annoiata al vicino. È l'attesa attenta per cogliere il momento di liberare la freccia, di liberare tutta l'energia dei muscoli allenati.
È l'attesa di cogliere il passaggio di colui che sta arrivando, ma che è già qui. Di colui che ci ha assicurato 'io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo' (Mt 28, 20)

Vegliare. Penso ad un genitore che passa la notte accanto al letto del figlio malato, penso ad un padre che attende trepidante fuori da una sala parto. Penso alle mie notti in raffineria, quando si iniziava ad alzare gli occhi dagli impianti per guardare il cielo verso est in attesa di vedere 'un sole che sorge dall'alto' (Lc 1, 78). Anche se notte, anche se piena di stanchezza, però non è una situazione sonnolenta.
È un essere attenti al presente, ma col cuore colmo di speranza proiettato al futuro. Ad un futuro di cui già ora si vedono i primi segni, di cui già ora si inizia a sentire il profumo.

Attendere, vegliare non sono altro che un modo di vivere la virtù teologale della speranza. In spagnolo "attendere" si dice "esperar". Solo un cuore pieno di speranza riesce ad attendere, riesce a vegliare. Solo un cuore pieno di speranza riesce a vedere i segni della fine dell'attesa, della fine della notte.
Senza attesa attenta, senza veglia vigile, quindi senza speranza, corriamo il rischio di fare come gli abitanti di Betlemme. Loro dicevano di aspettare il Messia, ma la loro era l'attesa stanca di chi aspetta solo che la fila davanti a lui si esaurisca. Per questo quando è passato tra di loro chiedendo 'permesso, posso entrare?' non gli fecero posto. Né nelle loro case, né nel loro cuore.

Quando guidiamo dobbiamo stare attenti a tutti i segnali stradali, tra i quali c'è quello di "Attenzione!!! - Lavori in corso". Nella nostra vita di fede l'Avvento è simili ad uno di questi segnali. È un segnale che ci dice: "Attenzione!!! - Arrivo in corso"


(Is 63,16-17.19; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37)


19 novembre 2020

Dio ci vuole tutti promossi - 22/11/2020 - XXXIV domenica tempo ordinario - Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo

Penso che questo passo del Vangelo rappresenti il sogno di ogni studente: avere, molto tempo prima, tutte, ma proprio tutte, le domande che ti verranno fatte all'esame finale!
In questa scena descritta da Gesù ci appare un Dio molto differente da quello che i nostri timori, quando non le nostre paure, ci facevano immaginare. È chiaro che Dio, all'esame di matura della nostra vita, ci vorrebbe tutti promossi.

A ben guardare, Gesù non pronuncia nessun giudizio di condanna: Lui prende atto, convalida le nostre scelte. Dio è amante totale della nostra libertà, perché solo nella libertà si può amare veramente. Donandocela ha scelto di dipendere dalla nostra libertà. Ma il suo sogno non è mai cambiato: che nessuno si perda di tutti quelli che ha creato. Però qualcuno desidera andare per conto suo, fare di testa sua. In questo caso Dio accetterà di vedersi rifiutato l'amore pagato col sangue. E noi non potremmo mai immaginare quanta sofferenza gli costi questo!
In fondo il giudizio sarà proprio questo: rivelarci la nostra verità. E alla fine Lui approverà il nostro progetto di eternità. Sarà la benedizione della libertà. Perché amare è aspettarsi tutto, anche il contrario di tutto. E se il nostro progetto è contrario al suo, Lui, con sofferenza infinita, lo firmerà lo stesso. Lui rispetta la nostra libertà. Si è fatto anche ammazzare, per non limitarla. E questo, non per indifferenza, ma per Amore. Per un amore così immenso, che noi non riusciamo neanche ad immaginare!

Dio ci vuole tutti salvi, ma alla fine separa le pecore dalle capre. Ma non è Lui che decide chi è l'una o l'altra. Se essere pecora o capra, buon grano o zizzania, vergine saggia o stolta, lo decidiamo noi, solo noi. Noi con la nostra vita, con le nostre opere. Con l'amore che abbiamo vissuto o non vissuto.
Una cosa mi colpisce: nel racconto della nostra vita che il Re fa alla fine della nostra esistenza, non c'è una sola volta la parola 'Dio'. Perché? Forse perché non dobbiamo venerare Dio? Assolutamente no, solo che è una cosa riservata solo ad alcuni, a quelli che credono e praticano una religione. Di andare a messa tutte (o quasi) le domeniche, di dire le preghiere e fare il segno di croce, di amare Dio, la Madonna e i Santi recitando con devozione qualche litania, di evitare la bestemmia e di avere un solo Dio in testa, sono capaci tutti. Ma Dio non vuole limitare la sua gioia, il suo non è un banchetto a numero chiuso. Lui mette le sue richieste al minimo, proprio per far entrare più gente possibile. Alla fine chiede una cosa sola: aver amato. 'Alla sera della vita, ciò che conta è aver amato', diceva san Giovanni della Croce.

E in questa pagina Gesù ci spiega anche come fare. Lui coniuga il verbo amare nel tempo feriale, nel tempo della nostra vita di tutti i giorni, non in quello festivo, delle solennità e delle feste comandate. Andare a Messa, pregare sono cose importanti, ma se non si incarnano in atti concerti di amore non ci portano alla salvezza, ma alla condanna.
Gesù non fa lezioni né interrogazioni di teologia, ma usa i verbi della vita quotidiana: mangiare, bere, ospitare, vestire, visitare, provare pietà. Sono verbi che, se li mescoliamo insieme, danno come un solo risultato: il Paradiso.
L'eternità la possiamo trovare in un boccone di pane condiviso, in un sorso d'acqua offerto, in un sorriso, in un abbraccio, in una porta aperta, in un cuore accogliente. Chiudere le porte, anche quelle del nostro cuore, agli altri vuol dire chiuderci le porte del Paradiso e spalancarci quelle dell'inferno.



(Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46)


14 novembre 2020

Pensa agli altri


Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.


(Mahmoud Darwish 1941-2008)


12 novembre 2020

Guadagnare la gioia divina - 15/11/2020 - XXXIII domenica tempo ordinario

Il ritratto del Padre che ci fa Gesù in questa parabola è quello di un uomo molto generoso, che conosce molto bene i suoi servi e si fida di loro al punto di affidargli le sue ricchezze. Per capire il valore di quanto consegnato dobbiamo tener presente che un talento era l'equivalente di circa 20 anni di uno stipendio medio del tempo!
Dobbiamo poi ricordare che servo non è schiavo. A quel tempo essere servo di un signore era una carica di un certo prestigio, quasi un titolo onorifico, in quanto era riservato a coloro che erano più vicini al padrone, coloro che erano maggiormente degni di fiducia e anche di confidenza.

E questo padrone dimostra di conoscere i suoi servi in quanto non fa parti uguali dei suoi averi, ma li affida in base alle capacità di ognuno. E poi parte. Cioè si ritrae, si fida talmente che lascia fare. E due dei servi, pieni di entusiasmo, si danno da fare, mentre uno, pieno di paura, non fa niente, si nasconde.
Penso che quel padrone abbia sofferto moltissimo per quella frase "ho avuto paura". Lui ha cercato fino dall'inizio un rapporto di fiducia e confidenza, un rapporto di amicizia e calore. E invece il servo non ha capito niente. Quella paura è quasi uno schiaffo. È un ripetersi del peccato di Adamo! (Gen 3,10)
Dio, perché questo padrone della parabola descrive proprio il Padre, avrebbe preferito un investimento sbagliato, piuttosto che questo non aver fatto niente. Un investimento sbagliato vuol dire che comunque ho avuto fiducia sul fatto che il padrone mi avrebbe capito. Vuol dire che non ho dubitato né di Lui né di me.
Dio si sente più offeso dalla paura di Lui che dai nostri errori, specie se fatti in buona fede.
Il padrone non ha avuto paura di rischiare la fiducia nel servo, il servo ha avuto paura di affidarsi alla fiducia del padrone.
Il Dio della paura è dannoso, è frutto della malizia di Satana, che sogna di far morire l'uomo. Al contrario, Dio Padre, a chi ha fiducia in Lui, assegna cifre enormi, da capogiro: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone». Il guadagno della gioia. Ma non una gioia qualunque, bensì una gioia divina, infinita.

Un'ultima considerazione. Fin dai primi secoli si sono identificati i 'talenti' affidati come delle capacità. E lo si è fatto sino al punto che ancora oggi 'talento' è sinonimo di 'particolare capacità, abilità innata'. Ma il Vangelo non dice questo. Il Vangelo dice che il padrone dà i talenti «secondo le capacità di ciascuno». Le capacità ci sono già prima di ricevere i talenti.
E allora cosa sono, per noi qui e oggi, questi talenti, questi doni enormi che il Signore ci dà?
Ognuno di noi nasce con delle capacità, delle abilità particolari. Penso che i talenti che il Signore ci dà sono le situazioni e le persone che Lui mette ogni giorno nella nostra vita. Le mette perché possiamo usare i nostri 'talenti' per imparare ad amare sempre di più e meglio, per essere testimoni e ambasciatori del suo amore, e così fare in modo di portare avanti e far crescere il suo Regno. È questa la Sua e nostra più grande ricchezza.
Non approfittare di questa ricchezza che ci viene affidata, paralizza il regno di Dio, ci rende più soli e più tristi. Da costruttori di un regno di gioia ci fa scavatori di tombe.


(Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30)


08 novembre 2020

 Trieste di mattina presto e con un po' di foschia ha un fascino tutto particolare:


(foto fatta il 2/11/2020)


05 novembre 2020

L'olio dell'amore - 8/11/2020 - XXXII domenica tempo ordinario

Ho lottato con questa parabola per decenni. Non la capivo, mi sembrava in aperto contrasto con quanto diceva Gesù di solito. Lui che diceva che "nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv. 15, 13) adesso loda chi non ha dato un po' di olio! I casi sono due: o Gesù si contaddice o io non capisco cosa vuole dire. In tutta sincerità penso che la risposta corretta sia la seconda!

E allora ho iniziato a cercare di capire, a leggere, appena mi capitava, commenti e spiegazioni. Ma nessuna mi convinceva. Nonostante tutto, le cinque vergini, più che sagge, mi sembravano sempre delle egoiste un po' inacidite. E non mi interessava sapere se fosse normale che lo sposo facesse ritardo o che ci fosse un matrimonio ma la sposa fosse assente o almeno neanche nominata.
Questo fino a che non trovai una spiegazione di un monaco russo (Teofane il Recluso, per chi volesse sapere chi fosse).

Sono dieci vergini, cioè dieci persone che hanno vissuto secondo la legge. Hanno seguito tutte le regole: hanno santificato le feste, hanno fatto regolarmente la comunione, non hanno rubato, non sono state invidiose o meschine, non hanno mai né sparlato né pensato male di nessuno. Insomma, una vita da sante.
Allora cos'è che le rende differenti, cos'è quell'olio "in piccoli vasi" che fa la differenza tra loro? e perché non è possibile condividerlo con chi non ce l'ha?

Quell'olio è l'amore. Le sagge hanno condotto la loro vita in maniera santa per amore. Per amore del Signore e per amore del prossimo. Le stolte invece l'hanno fatto per altro, forse per abitudine, forse per dovere, forse per consuetudine, per tradizione. Cioè per tanti motivi, che non è detto siano riprovevoli, ma che non sono l'unico motivo valido, l'unico necessario: l'amore.
L'amore vero, e la fede si colloca a questo livello di relazione tra Dio e l'essere umano, produce una conoscenza della persona amata che l'intelletto, da solo, non potrà mai assicurare. Non è un caso che la Bibbia parli del rapporto intimo coniugale, utilizzando l'espressione 'conoscere uomo' e 'conoscere donna'. È l'amore, cioè la fede vissuta in modo non superficiale, distratto, formale, che rende sapienti e sagge quelle cinque ragazze.

E quindi chiaro perché non potevano condividere l'olio: posso amarti, posso mostrarti il mio amore per Dio e per gli esseri umani, posso anche cercare di insegnarti ad amare, ma non posso prendere il mio amore e mettertelo nel cuore. Posso coprire la tua vita di amore, sommergerla, ma non posso far entrare l'amore dentro te. Sei tu che devi lasciarlo entrare.

La differenza tra le ragazze è che le stolte professavano una religione, le sagge vivevano una fede.


(Sap 6,12-16; Sal 62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13)