Parabola dei talenti (icona) |
La pagina di Vangelo della scorsa domenica sottolineava la dimensione di 'vigilanza' nella vita del credente. Vigilanza che si concretizza nell'attesa e che proietta il cristiano nel futuro, senza per questo fargli perdere i contatti col tempo presente. Si tratta di avere i piedi ben piantati nel presente, ma con lo sguardo al futuro. Insomma, si tratta di un'attesa attiva, che obbliga l'uomo a prendere decisioni, fare delle scelte.
La parabola dei talenti sviluppa lo stesso discorso chiarendo il contenuto dell'attesa e specificando il dovere del credente che consiste, essenzialmente, nel 'darsi da fare'. Stavolta si tratta di una parabola facile, ma che necessita di alcune precisazioni.
Primo punto: cosa sono questi talenti. Gli studiosi ci informano che il talento era una specie di grosso lingotto d'argento, del peso di circa trenta chilogrammi. Quindi, quello che ne ha ricevuto cinque, si è visto affibbiare un carico di oltre cento cinquanta chili! Inoltre un talento era l'equivalente di circa 20 anni di uno stipendio medio del tempo. Quindi ciò che il padrone dà, è qualcosa di enorme, sia come valore che come peso.
Bisogna fare una prima osservazione fondamentale: il talento non viene guadagnato, conquistato, meritato. È ricevuto. Tutti e tre i servi son accomunati da questa realtà di un dono enorme. Un dono diverso quantitativamente. Ma pur sempre dono. Per tutti.
Nella vita cristiana, dunque, il punto di partenza non è rappresentato dal nulla. Non si parte da zero. Nessun cristiano si è fatto da sé. L'esistenza viene costruita con materiale che ci è stato messo a disposizione, donato gratuitamente. C'è tutta una serie di uomini e donne che ci hanno preceduto e che ci hanno trasmesso il sapore di Dio, il profumo del bene.
Tutto è grazia, tutto è dono. E l'impegno, da parte nostra, è soltanto la risposta a un dono che ci siamo ritrovati tra le mani. Il Signore, dunque, ci consegna qualcosa perché ci diamo da fare. E questo qualcosa diventa 'nostro'.
Ma attenzione, bisogna fare una precisazione.
I primi due servi hanno considerato giustamente il dono ricevuto come loro. Il padrone gliel'aveva donato. Per questo l'hanno usato, trafficato, sfruttato, si sono dati da fare, si sono fidati del giudizio del padrone. Hanno visto giusto.
L'altro, invece, non ha capito niente, non si è reso conto che il lingotto era suo almeno durante l'assenza del padrone. Non è riuscito a credere all'amore, alla generosità e alla fiducia del padrone. Il dono, quindi, si è tradotto in motivo di paura. E la paura ha ucciso la spontaneità, la creatività del titolare dei trenta chili. La paura ha bloccato nell'immobilismo l'uomo dell'unico talento.
Ma occorre dire anche un'altra cosa, perché è vero che la parabola dice che occorre darsi da fare, ma bisogna sapere per che cosa e per chi. Perché alla fine i servi devono rispondere al padrone, che «volle regolare i conti con loro ». È al Signore che dobbiamo sottoporre i risultati dei nostri traffici.
Il talento è nostro, ma alla fine deve tornare a Lui. Ecco il paradosso: non basta aver fatto fruttare i doni ricevuti. Occorre verificare in che modo, a vantaggio di chi. Se al centro di tutto stanno i nostri interessi egoistici è sicuro che i conti col Signore non tornano.
Se il talento fondamentale, quello della vita, lo impieghiamo unicamente per fare collezione di banconote, per far prosperare i nostri traffici senza badare troppo per il sottile, il Padrone ha diritto di considerare sprecato quel talento che ci ha consegnato non certo perché lo investissimo in egoismo, in sopraffazione, in 'vanità' (Qo 1, 2).
Le ricchezze di Dio fruttificano solo se sono condivise. Dio è contento solo se i suoi doni noi li ricicliamo. Lui ci suggerisce: "Se sono doni ... donali!"
Letture:
Proverbi 31,10-13.19-20.30-31;
Salmo 127;
prima Tessalonicesi 5,1-6;
Matteo 25,14-30
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