04 dicembre 2025

Due profeti (apparentemente) molto diversi - 7/12/2025 - II Domenica Avvento

 

 
Due profeti molto diversi nelle letture di oggi: nella prima lettura Isaia parla di un creato completamente riconciliato, di lupo che si accompagna all'agnello; nel Vangelo Giovanni Battista invece parla di scure alla radice degli alberi, di fuoco divorante.
Isaia ci parla di un dono immeritato, più bello anche del sogno più ardito.
Giovanni ci parla di un mondo da costruire.
Sono tutte e due voci che risuonano dentro di noi, perché tutti noi viviamo di opere nostre e di doni di Dio, di fatica e di poesia, di dure realtà da affrontare e di sogni da realizzare.
 
Però, nonostante le diversità, sono tutti e due profeti di speranza. Giovanni sa benissimo che non è la paura che ci libera dal male, che fa convivere il lupo e l'agnello. Sa che l'unica forza che riesca a cambiare le persone è la forza dell'amore, dell'amore divino che viene in noi, che ci cresce dentro facendoci crescere anche fuori.
 
È questo l'annuncio centrale del Vangelo di oggi: «il regno dei cieli è vicino!», cioè Dio è vicino. È vicino a tutti, è un abbraccio che accoglie in pace e in armonia il lupo e l'agnello, il bambino e la vipera, l'uomo e la donna, l'arabo e l'ebreo, il mussulmano e il cristiano, il bianco e il nero. È questo il sogno di Dio. E a questo sogno siamo chiamati. Siamo chiamati al futuro.
 
Ma c'è anche un altro elemento che è decisivo: «Convertitevi». Convertirsi è lasciare entrare un pezzetto di Cristo in me, lasciarmi scaldare dal fuoco del suo amore. Fuoco che mi scalda e mi ammorbidisce, che mi plasma sempre più a «immagine e somiglianza» (cfr. Gen 1, 26) di Dio.
Convertirsi non significa perdere tempo in rimorsi o in sensi di colpa, con gli occhi e il pensiero fissi sul passato, ma andare avanti cambiando strada, cambiando pensieri, cambiando azioni.
"Convertiti!" non è un ordine. È un'opportunità. Cambio strada perché nella nuova strada il cielo è più azzurro, ci sono più fratelli che gioiscono con me e per me, che mi soccorrono nelle difficoltà, che mi allungano una mano e mi aiutano a rialzarmi quando inciampo e cado.
 
La poetessa Alda Merini ha scritto:
      La fede è una mano
      che ti prende le viscere,
      la fede è una mano
      che ti fa partorire
 
La conversione mi fa partorire buoni frutti, gesti d'amore e vicinanza.
Quando accogli Dio che ti si avvicina, la tua vita si trasforma e diventa generatrice di frutti di pace.
 
 

 
Letture:
Isaia 11,1-10
Salmo 71
Romani 15,4-9
Matteo 3,1-12
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 3,1-12)

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».
E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Vedendo molti farisei e sadducèi venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all'ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: "Abbiamo Abramo per padre!". Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell'acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
 
 

27 novembre 2025

Un ladro che ci dona la sua ricchezza - 30/11/2025 - I Domenica Avvento


 
 
L'Avvento è un tempo per risvegliarci. È Il tempo dell'attenzione, cioè il tempo per imparare a rendere profondo ogni momento.
 
«Due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato». Il Vangelo non sta parlando della morte, ma di due modi diversi di vivere nel campo della vita: uno vive affacciandosi sull'infinito, uno è chiuso solo dentro sé stesso; uno è chino solo sul suo piatto, uno è generoso con gli altri di pane e di amore; uno vive donandosi, uno prendendo.
Tra questi due uno è pronto all'incontro con il Signore, quello che vive attento.
L'altro non si accorge di nulla, proprio come le persone ai tempi di Noè.
 
«Se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro...» Mi ha sempre lasciato molto perplesso questa immagine del Signore che viene di soppiatto come un ladro nella notte. Non ce lo vedo Dio nei panni di un ladro, Lui viene sempre per donare, per amare.
Allora forse non è la morte che viene intesa in questa piccola parabola, ma l'incontro.
Perché il Signore è un ladro molto strano, non ruba niente, dona tutto, viene con le mani piene. Ma l'incontro con Lui ti obbliga a svuotare te stesso dalle cento, mille cose inutili, altrimenti ciò che porta non trova spazio. Mette a soqquadro la tua casa, ti cambia la vita, la fa ricca di volti, di luce, di orizzonti spalancati.
 
Io sono qualcosa di prezioso che attira il Signore come la ricchezza attira il ladro. Agli occhi di Dio, l'impasto della mia vita, in cui si mescolano intimamente fango e pagliuzze d'oro, questo niente così fragile, è così glorioso da farGli desiderare di passare l'eternità abbracciandolo.
 
Vieni pure come un ladro, Signore, prendi quello che è prezioso per te: questo mio povero cuore rinsecchito, inaridito. Prendilo, per poi ridonarmelo rivestito di luce, straripante d'amore.
 
 

 
Letture:
Isaia 2,1-5
Salmo 121
Romani 13,11-14
Matteo 24,37-44
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 24,37-44)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».
 
 

20 novembre 2025

Cristo Re della Misericordia - 23/11/2025 - XXXIV Domenica tempo ordinario - Solennità di Cristo Re dell'Universo

 
Collina delle Croci
Šiauliai (Lituania)
Foto Miriam Ferrarin
 
Da un punto di vista umano, Gesù è nel momento del fallimento totale: condannato a morte, torturato, deriso. Eppure in questo contesto ci sono due persone che riescono a vedere la realtà regale e divina di Gesù. E colpisce molto che non siano né dei seguaci di Gesù né degli apostoli (che d'altra parte erano tutti scappati), ma siano un centurione romano (cfr. Lc 23, 47) e un delinquente confesso (che rimane l'unico santo canonizzato direttamente da Gesù).
 
Quest'ultimo dà una grande definizione di Dio: «è condannato alla stessa nostra pena». Dio è dentro la nostra sofferenza. Dio viene crocifisso in tutti i crocifissi della storia. Dio sceglie di entrare nella morte perché là entra ogni suo figlio.
Dio ci mostra che il primo dovere di chi ama è di essere insieme all'amato.
 
«egli invece non ha fatto nulla di male» In queste parole è racchiuso il segreto dell'autentica regalità: niente di male in quell'uomo, un'innocenza mai vista prima, nessuna ombra di odio o di violenza o di vendetta. Dio non fa il male, a nessuno, mai. Dio fa esclusivamente il bene. "Dio non può che amare" (fr. Roger).
Ecco il nostro Re: uno che ha la forza regale e divina di dimenticare sé stesso dentro la paura e la speranza dell'altro.
 
«ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». E Gesù fa di più, lo porta con sé. Come il pastore con la pecorella smarrita, se lo carica in spalla e lo porta a casa: «sarai con me». Mentre tutto il nostro mondo ragiona per esclusioni, per separazioni, per respingimenti alle frontiere, il Regno di Dio avanza per inclusioni, per accoglienze, per abbracci.
«Ricordati» chiede il condannato. Non sarà solo ricordo, sarà soprattutto abbraccio che avvolge per sempre, che porta l'amato al cuore e nel cuore per l'eternità.
A tutti i crocifissi dalla vita, i rifiutati dalla storia, gli esclusi dai benpensanti, Gesù ripete ogni momento «oggi con me sarai nel paradiso».
 
 

 
Letture:
2Samuele 5,1-3
Salmo 121
Colossesi 1,12-20
Luca 23,35-43
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23,35-43)

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
 
 

13 novembre 2025

Dio è un esperto d'Amore - 16/11/2025 - XXXIII Domenica tempo ordinario

 
"Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto"
Foto di Paolo Boaretto su Unsplash (particolare)


 
Il Vangelo di oggi sembra molto cupo, molto pessimista, ma lo scopo di Gesù non è anticiparci il futuro, dirci cosa e come succederà. Il Vangelo vuole svelarci il senso di quello che succederà. Nel muro di violenza e di paura vuole aprire una breccia di speranza.
Quel "ma voi..." implicitamente ripetuto più volte è un invito alla speranza, a resistere a tutto quello che sembra vincere nel mondo. È un'esortazione a non rassegnarsi, a non arrendersi. Il Vangelo sprona ad un tenace, umile e quotidiano lavoro dal basso, chiama a prendersi cura della terra e delle sue ferite, degli esseri umani e della loro lacrime, a "scegliere sempre l'umano contro il disumano" (p. David Maria Turoldo)
 
«Quando dunque accadranno queste cose?» Il quando è adesso. Perché è 'adesso' che il mondo è fragile, è 'adesso' che la convivenza tra gli uomini è difficile, è 'adesso' che l'amore sembra stia soccombendo. Il cristiano è chiamato non a nascondersi, ma a stare in mezzo al mondo e a prendersene cura. Stare vicino alle croci con perseveranza, non solo se capita, ma come un progetto di vita. Il cristiano è un costruttore. Deve essere un costruttore di giustizia, di pace, di amore, di fraternità. Perché questi sono i materiali per l'edificazione del Regno. Perché queste sono le realtà che sfuggono alla "fine dei tempi" e anticipano "i cieli nuovi e la terra nuova".
 
«Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» Ancora una volta l'infinita cura di Dio per l'infinitamente piccolo perché nulla è insignificante di ciò che appartiene all'amato. Gesù insegna a vivere lo slancio di un abbraccio che va dall'infinitamente piccolo alla grande storia, da uno solo dei miei capelli a tutto il futuro dell'universo. E a fare questo vivendo nella speranza.
Nel caos della storia lo sguardo di Dio è concentrato su di me, non come giudice che incombe, ma come custode attento ad ogni mia 'briciola'. Niente è troppo piccolo: e se non sarà esentato dalla distruzione nel giorno dell'odio, certamente sarà salvato poi nel giorno del Signore.
Come attendere quel giorno? Con una spiritualità del quotidiano, sporcandosi le mani per costruire 'umanità' e 'unità' nella trama dei giorni, nella fragilità delle cose terrene. Luca dice di essere saldi nella «perseveranza», un termine che racconta tutta la forza necessaria lungo la sofferenza attraverso cui si deve passare, ma che insieme respira la speranza in Colui che mi conta i capelli sul capo.
 
«Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». La vita si salva non nel disimpegno, ma nel tenace, umile, quotidiano lavoro che si prende cura della terra e delle sue ferite. Senza cedere né allo scoraggiamento né alle seduzioni dei falsi profeti.
E se attendo ancora il Signore non è in base ai segni deludenti che vedo nel groviglio sanguinoso dei giorni, ma per la serenità della fede in Qualcuno che mi conta i capelli in capo e si ripropone ogni istante come un Dio esperto d'amore.
 
 

 
Letture:
Malachia 3,19-20
Salmo 97
2Tessalonicesi 3,7-12
Luca 21,5-19
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 21,5-19)

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: "Sono io", e: "Il tempo è vicino". Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».
 
 

06 novembre 2025

La casa ultima del Padre sei proprio tu - 9/11/2025 - Dedicazione della Basilica Lateranense

 
Basilica di San Giovanni in Laterano

 
Gesù amava molto il tempio di Gerusalemme, lo ammirava, si è indignato coi mercanti, ha pianto pensando alla sua distruzione imminente (Lc 19,41-44).
Eppure lo ha anche radicalmente contestato: «Né in Samaria, né in Gerusalemme adorerete il Padre, ma in spirito e verità» (Gv 4,21) ha detto alla samaritana. Nel Vangelo di oggi proclama che «è la casa del Padre mio», ma aggiunge: «Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere». E l'evangelista specifica: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo».
Il Figlio si è incarnato per riavvicinare l'uomo a Dio, per farci trovare il luogo dove la presenza di Dio è più forte: non una stupenda costruzione di pietre, ma il vivo corpo di un essere umano. La piena rivelazione della divinità è l'umanità di Gesù. Il divino raggiunge la sua pienezza solo nell'umano, in un corpo d'uomo, in un corpo di donna. È nell'umanità di Gesù che scopriamo il volto accogliente, amante, misericordioso del Padre.
 
Gesù ci supplica di sostituire la teologia del tempio di pietra, con la teologia del tempio di carne, dei figli di Dio come santuario di Dio. Anch'io sono il luogo dove l'Onnipotente che non ha dove posare il capo, cerca casa.
San Paolo ci dice che «siete tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi» (seconda lettura). Dio, l'Infinito, ha scelto te per fare il suo nido. Gli sei piaciuto così tanto che ha fatto di te la sua casa, il luogo dove riposare, trovare sicurezza, godere del calore della famiglia e degli amici.
E i segni della vita e dell'età, le ferite delle malattie, per quanto grandi e profonde, non possono cancellare questa realtà; non riescono a sminuire la tua dignità, la tua grandezza, la tua bellezza. La casa ultima del Padre sei tu.
 
 

 
Letture:
Ezechiele 47, 1-2.8-9.12
Salmo 45
1Corinti 3,9-11.16-17
Giovanni 2, 13-22
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2, 13-22)

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
 
 

30 ottobre 2025

Siamo chiamati alla gioia - 2/11/2025 - Commemorazione di tutti i fedeli defunti (Messa I)

Danza Macabra

Hrastovlje (SLO)


 
(Pensieri sulla Commemorazione dei defunti)
 
Oggi la liturgia non ci ricorda la morte, ma ci apre alla speranza della risurrezione. Ci ricorda che le lacrime verranno asciugate dalla mano di Dio (Ap 7,17 e 21,4). Non è memoria della separazione, ma profezia di futuro, di nuova comunione.
 
Marta dice a Gesù «Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21). È quello che spesso pensiamo anche noi: se Dio esiste, perché tanta sofferenza, perché tanti morti innocenti? "Se Tu sei qui, i miei cari non moriranno..." Ma Dio è qui! Sempre. Ma non come esenzione dalla morte. Gesù non ha mai promesso che non saremmo morti. Per lui il bene più grande non è un infinito sopravvivere. Per Gesù l'essenziale non è non morire, ma vivere, e vivere una vita risorta.
L'eternità entra in noi con i piccoli e gradi gesti d'amore quotidiani. Il Signore ci insegna a temere più una vita vuota, senza amore e quindi inutile, che non la morte.
 
La vita eterna è la cosa più grandiosa che Gesù ha preparato per noi. «Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Né angeli né demoni, né vita né morte, nulla ci potrà mai separare dall'amore di Dio» (Rom 8,35-37). Questa certezza mi basta. Se Dio è amore e vita, vendicherà la mia morte. E la sua vendetta è la mia risurrezione, cioè un amore mai più separato né da Lui, né dai miei fratelli e sorelle, né da tutto ciò che ho amato e da chi mi ha amato.
Dio è il Salvatore e 'salvare' significa conservare, quindi nulla andrà perduto: non un affetto, non un bicchiere d'acqua fresca, non il più piccolo sorriso né la più piccola carezza.
In una preghiera eucaristica (Preghiera Eucaristica III) c'è questa bellissima invocazione per i defunti: "Ammettili a godere la luce del tuo volto". I verbi della fede (adorare, lodare...) lasciano spazio ad un verbo umile ed umanissimo: 'godere'. La ragione cede alla gioia, la fede al godimento. Dio, nella sua più intima essenza, non risponde al nostro bisogno di spiegazioni, ma al nostro bisogno di felicità. Siamo chiamati alla gioia.
L'esperienza umana ci dice che tutto va dalla vita verso la morte. La fede cristiana dichiara invece che si va dalla morte alla vita.
"Quando arriveremo sul limitare della luce che conosciamo e saremo sul punto di fare un passo nella tenebra dell'ignoto, possiamo avere almeno una certezza: o Dio ci darà qualcosa di solido su cui poggiare i piedi, o ci insegnerà a volare" (Carolyn Brown).
 
 

 
Letture Messa I:
Giobbe 19,1.23-27
Salmo 26
Romani 5,5-11
Giovanni 6,37-40
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,37-40)

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno».
 
 

23 ottobre 2025

Sentire la necessità di Dio - 26/10/2025 - XXX Domenica tempo ordinario

 
Il fariseo e il pubblicano
Julius Schnorr von Carolsfeld

 
Il brano del Vangelo di oggi viene immediatamente dopo quello di domenica scorsa, e se prima Gesù parlava della necessità di una preghiera fiduciosa e insistente, adesso ci dice qual è l'atteggiamento da tenere nella preghiera. E lo fa con una storia 'esemplare' che si svolge nella cornice sacra del tempio, cioè nella casa di Dio, e usa la tecnica del contrasto tra i due personaggi.
 
Da una parte, in prima fila, abbiamo il fariseo, la persona pia per antonomasia, il fedele con la 'F' maiuscola. Difatti prega nella posizione giusta secondo le norme giudaiche: in piedi, a testa alta, le braccia sollevate al cielo. Anche il suo inizio è perfetto, difatti attacca con la preghiera più bella, quella di ringraziamento e di lode.
Ma subito dopo tutto il teatrino che ha messo in piedi crolla miseramente. Anche se i suoi occhi sono rivolti al cielo, il suo sguardo è concentrato solo su sé stesso.
La sua è una preghiera atea, perché il fariseo è talmente pieno di sé che nel suo animo non c'è il minimo spazio per Dio. Come fa notare Rinaldo Fabris "Dio è la copertura di un io ricco che strumentalizza il rapporto religioso per la propria esaltazione. L'uomo che si nasconde dietro questa preghiera non aspetta nulla da Dio, non ha nulla da chiedere, egli fa solo mostra di sé, dei suoi diritti, del suo credito davanti a Dio".
Il fariseo si è messo davanti ad uno specchio e ha chiamato 'dio' l'immagine che ha visto. Difatti in tutto il suo discorso ha usato sempre e soltanto la prima persona singolare. Per lui non c'è altra persona che non sia egli stesso.
 
E dall'altra parte, in fondo al tempio, c'è il pubblicano. Per i devoti è il peccatore per definizione, fa un mestiere infamante, è sinonimo di ladro, truffatore, collaborazionista con l'occupante romano.
Lui se ne sta in disparte. Non alza gli occhi al cielo, non alza le mani verso l'alto. Invece le usa per battersi il petto.
Ma il suo discorso è tutto alla seconda persona singolare. Anche se ha gli occhi bassi, il suo sguardo è rivolto al 'tu' di Dio. Lui si aspetta tutto dal Signore, riconosce di essere peccatore, di non avere neanche scusanti. Ma sa anche che per non esserlo più ha necessità dalla misericordia di Dio. Non ha niente da offrire, e quindi si aspetta tutto da Dio. Non critica gli altri per sentirsi, almeno un po', meno peccatore. Lui conta unicamente sulla grazia del Signore.
 
La differenza tra i due è che il fariseo si serve di Dio per essere ammirato. Il pubblicano ha necessità di Dio per ripartire, per ricominciare.
Il pubblicano è tornato a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo (Dio non si merita, neanche con l'umiltà), ma perché si apre ad un Dio più grande del suo peccato. Si apre alla misericordia («anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore» cfr. 1Gv 3,20), a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.
 
 

 
Letture:
Siracide 35,15-17.20-22
Salmo 33
2Timoteo 4,6-8.16-18
Luca 18,9-14
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo". Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me peccatore".
Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
 
 

16 ottobre 2025

Non dobbiamo avere paura della nostra debolezza - 19/10/2025 - XXIX Domenica tempo ordinario

 
La parabola dela vedova e del giudice ingiusto
(particolare)
Affresco del Palazzo delle Faccette
(Mosca 1882)

 
Una parabola un po' sconcertante.
 
C'è una vedova, immagine della debolezza disarmata che, a pensarci bene, deve lottare contro due avversari: il contendente e il magistrato. Si direbbe proprio l'emblema di tutti coloro che si trovano schiacciati dal potere e dalla prepotenza dell'egoismo.
 
Poi c'è il giudice. Un persona senza un briciolo di umanità, senza un minimo di coscienza né di senso della giustizia. Esattamente l'opposto del Padre giusto e misericordioso, pieno d'amore e tenerezza, di cui ci parla sempre Gesù.
 
La lezione della parabola è questa: la debolezza ha prevalso sulla forza. Non dobbiamo scoraggiarci per la nostra impotenza, lasciarci impressionare dalle difficoltà 'insormontabili'. Mi viene in mente san Paolo: «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Non dobbiamo avere paura della nostra debolezza.
Perché la nostra debolezza non è sola nella lotta contro la prepotenza, l'ingiustizia, ma è una debolezza (la nostra) alleata un'altra debolezza (quella dell'amore di Dio).
Dio, che sembrava assente dalla parabola, è presente a fianco della vedova: è Lui che la sostiene nelle sue suppliche, che la sorregge nelle fatiche, che le alimenta la speranza. Dio ama la nostra insistenza, gradisce le nostre richieste ribadite. Desidera essere importunato. Se lo facciamo ne è contento, non indispettito come il giudice.
Purché tutto gli arrivi attraverso il canale della fede.
 
«Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»
La parabola si chiude con questa domanda inquietante.
Ritorna il tema di due domeniche fa: la fede. Avere la fede che Gesù spera di trovare vuol dire avere con Lui una relazione, "farsi portare", lasciarsi guidare perché si è sicuri del suo amore.
Ma i tempi di Dio non sono i nostri.
Anche quando Dio ha fretta di esaudirci, può capitare che la nostra fede non sia più una relazione da cuore a cuore (anche con momenti di tensione, con litigi, ma sempre con la sicurezza di essere amati), ma che sia già spenta, ridotta a parole e gesti da ripetere per abitudine.
Se abbiamo interrotto il canale-fede, tante risposte non arrivano a destinazione perché ci passano accanto ma non le vediamo.
 
 

 
Letture:
Esodo 17,8-13
Salmo 120
2Timoteo 3,14-4,2
Luca 18,1-8
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,1-8)

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario".
Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi"».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
 
 

09 ottobre 2025

Tutto dev'essere rendimento di grazie - 12/10/2025 - XXVIII Domenica tempo ordinario

Guarigione dei dieci lebbrosi
miniatura dal Codex Aureus (1035-1040 circa)
Norimberga (Germania)

 
 
Dieci lebbrosi, e quindi esclusi dalla comunità, che si fidano della parola di Gesù «a distanza», e si incamminano per andarsi a presentare dai sacerdoti, incaricati ufficialmente di controllare l'avvenuta guarigione. E lungo la strada si accorgono della sparizione della malattia.
Ma uno solo, un Samaritano (per gli ebrei un rinnegato, un eretico), sente il bisogno di tornare indietro "per lodare Dio e ringraziare Gesù". Uno solo mostra riconoscenza, cioè 'riconosce' che ciò che gli è capitato è dono. Gli altri, probabilmente perché appartenenti al popolo eletto, ritengono normale la loro guarigione, quasi una cosa dovuta.
 
Gesù apprezza l'uomo che mostra gratitudine, che non dà nulla per scontato. Che sa aprirsi allo stupore, alla sorpresa, e quindi al ringraziamento.
Può essere facile ringraziare Dio quando otteniamo una grazia eccezionale, di fronte a un evento straordinario, ma la riconoscenza non scatta quasi mai di fronte alle cose che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno, alla presenza dei miracoli offerti dall'esistenza quotidiana. Li consideriamo diritti acquisiti, cose scontate; non sappiamo più coglierli come eventi straordinari pur nella loro banalità ordinaria.
Lo scrittore G.K. Chesterton osservava, con amara ironia, che "ogni anno ringraziamo commossi la Befana per i doni che ci mette nella calza appesa al camino, ma dimentichiamo di ringraziare Colui che, ogni giorno, ci dà un paio di gambe da infilare nelle calze".
Ci è mai successo, al mattino, di dire grazie al Signore per il nuovo giorno? Il sole che sorge viene considerato qualcosa che va da sé. Non lo sappiamo cogliere nel suo aspetto di 'evento straordinario' e, soprattutto, di dono. Dobbiamo convincerci che 'tutto è grazia'. Niente ci è dovuto, nulla è meritato. E se tutto è grazia, tutto dev'essere rendimento di grazie.
Se ogni cosa viene da Dio gratuitamente, tutto deve ritornare a Lui attraverso la lode e la meraviglia e la gratitudine.
Cristiano non è colui che chiede o riceve delle grazie, è colui che rende grazie. Difatti l'Eucarestia, che rappresenta l'atto più alto del culto cristiano, significa, letteralmente, 'azione di grazie'.
 
Ma Dio non si aspetta da noi dei ringraziamenti alla maniera paternalistica dei cosiddetti benefattori. Dio gradisce le persone che 'fanno funzionare' i suoi doni, che non li lasciano ricoprire dalla polvere dell'abitudine e della noia.
Ognuno di noi ha un compito 'eucaristico': dobbiamo fare memoria delle sue meraviglie per celebrarle nel canto, nella gioia, nella festa.
E questo compito non è limitato all'ambito della preghiera liturgica, ma deve estendersi alla totalità della nostra vita quotidiana. Ogni nostra azione dovrebbe celebrare i benefici di Dio: anche un sorriso può diventare un gesto liturgico.
 
Dunque non dobbiamo essere distratti di fronte al miracolo della vita, sbadati di fronte alle sorprese degli avvenimenti quotidiani.
Dobbiamo cercare le tracce del passaggio di Dio attraverso il fluire dei fatti più comuni e ordinari; non dare per scontato niente di ciò che ci viene offerto; scoprire le 'improvvisazioni di Dio' anche nei doni più piccoli e abituali.
E mantenerci sempre in atteggiamento di gratitudine, nelle sue due facce di accettazione e di gioia.
Allora anche la nostra vita sarà un grandioso "memoriale" delle opere del Signore.
 
 

 
Letture:
2 Re 5,14-17
Salmo 97
2Timoteo 2,8-13
Luca 17,11-19
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!».
 
 

02 ottobre 2025

Legarsi totalmente ad un Altro - 5/10/2025 - XXVII Domenica tempo ordinario

 
Il dono della vita. Il dono dell'amore.
La creazione di Adamo (particolare)
Michelangelo Buonarroti
(affresco soffitto Cappella Sistina - Roma)

 
«Accresci in noi la fede!»
Ma cos'è la fede.
Non è credere che Dio esiste: gli ebrei lo credono fermamente.
Non è neanche una sfilza di verità da credere, o un complesso di norme da rispettare: i farisei seguivano fedelmente non solo i 10 comandamenti ma anche le oltre 600 regole ebraiche, e Gesù decisamente non è tenero con loro!
Avere fede vuol dire avere fiducia, fare affidamento su di un Altro, legarsi totalmente ad un Altro. È stabilire un legame, una relazione con Dio; non per stare al sicuro, essere protetti, ma per "farsi portare", lasciarsi guidare. È una realtà dinamica, un affidarsi a Qualcuno in vista di un cammino. Si crede per "camminare con".
Non è un qualcosa dato una volta per sempre e sempre uguale. È una situazione da vivere giorno per giorno, a volte con fatica, a volte con gioia. È un cammino sempre diverso, da inventare.
 
Non ci rende dei privilegiati, non ci mette al riparo delle tempeste che si abbattono sui comuni mortali. La fede ci permette di camminare al buio, aggrediti dai soliti elementi ostili, in mezzo alle difficoltà di tutti, alle prese con i problemi comuni dei nostri fratelli, ma con l'unica sicurezza di una Presenza, di una mano che ci afferra, non per sottrarci alle intemperie, ma dopo che abbiamo superato la bufera (come è accaduto a Pietro che rischiava di affondare - Mt 14,31).
La fede non ci dispensa dal duro mestiere di uomini. Non ci spiana la strada. Semplicemente, le dà un senso.
 
La fede che vuole Gesù (e che chiedono gli apostoli) non è quella che ti fa muovere in uno spazio sicuro e ben definito, che ti dice ad ogni passo dove mettere i piedi.
La fede chiesta dagli apostoli ti spinge a camminare secondo l'imprevedibile geografia di Dio, seguire itinerari sconcertanti, esplorare territori sconosciuti, col solo bagaglio di una Parola che ti sloggia continuamente dalle posizioni acquisite («Vattene dalla tua terra, [...] verso la terra che io ti indicherò» - Gen 12,1), che ti obbliga a viaggiare al buio impedendoti di tirar fuori dalle tasche la bussola di una saggezza troppo umana. È una fede che si sforza di tener dietro a un Dio sempre più in là, che sempre ti precede («Egli vi precede in Galilea»» - Mc 16,7).
Non pretende di conoscere la strada prima di partire, ma si preoccupa di non perdere i contatti col Compagno di viaggio.
Non proclama di avere Dio dalla propria parte, ma si preoccupa di mettersi quotidianamente dalla parte di Dio.
 
Insomma, è una fede difficile, che a tratti brilla e a tratti si eclissa, che spesso tormenta e a volte consola. È una fede operante. Una fede che, trasformando radicalmente l'uomo, dà nuova forma al mondo. Una fede "levatrice di Dio". Insomma, la fede dei santi.
 
 

 
Letture:
Abacuc 1,2-3;2,2-4
Salmo 94
2Timoteo 1,6-8.13-14
Luca 17,5-10
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,5-10)

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? Non gli dirà piuttosto: "Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu"? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare"».