(Thomas Merton, Il segno di Giona, pag. 181)
Ogni uccello ha il suo modo di volare.
Ogni persona ha il suo modo di incarnare il Cristo.
27 settembre 2007
Il valore delle vocazioni
(Thomas Merton, Il segno di Giona, pag. 181)
26 settembre 2007
Il senso della Chiesa
(Thomas Merton, Il segno di Giona, pag. 219)
Questa catena ininterrotta non è altro che la Chiesa, e di fronte alle tentazioni, alle prove e alle desolazioni sappiamo che possiamo contare sulle sue preghiere e sul suo sostegno, ma anche sulla sua comprensione e sulla sua misericordia. Tutte le persone che la compongono non sono state una specie di superuomini senza problemi né debolezze, anche loro hanno, come noi e prima di noi, avuto le stesse miserie, gli stessi limiti, gli stessi problemi, e hanno fatto anche loro degli errori.
24 settembre 2007
Sul diaconato
(Il segno di Giona, pag. 191)
21 settembre 2007
La scienza può essere un idolo
La scienza diventa un idolo allorché non riconosce i propri limiti. Quando si libera, con evidente fastidio, di quelle che essa chiama anacronistiche “pastoie” della saggezza, dell'etica, della prudenza e della coscienza. Quando non è a servizio dell'uomo, ma va contro l'uomo e la sua dignità. Quando si pone come capacità assoluta di intelligere (letteralmente, leggere dentro) e interpretare la realtà delle cose e delle persone. Quando proclama con sussiego le proprie certezze, tenendo lontano da esse il dubbio salutare.
È idolo la scienza che non è accompagnata dalla modestia e cede alla tentazione della spettacolarità. Che rivendica per sé statuti di libertà assoluta, al di fuori di ogni regola e controllo, per cui tutto le sembra lecito, e non ammette che ciò che si può fare non diventa automaticamente ciò che si deve fare. Confonde il diritto legittimo a conoscere, ricercare, con l'applicazione - qualche volta inopportuna e perfino dannosa - delle conoscenze e delle ricerche. Basti pensare alla bomba atomica, alle armi batteriologiche, ai disastri ambientali provocati dalle sostanze chimiche. E si pensi anche ai pericoli rappresentati dagli organismi geneticamente modificati, ai cosiddetti “cibi transgenici”, alle “mucche pazze” (o allevatori stupidi e criminali?).
Diventa idolo la scienza che formula l'equazione tra “vero” e “scientificamente dimostrabile”, e quindi, in ultima analisi, tra “verità” e “quantificabilità”. Si propone come depositaria assoluta della verità. Invade campi (compreso quello religioso) che non sono di sua competenza.
Accanto all'idolo rappresentato dalla scienza va collocato il tecnicismo esasperato. Per cui, in nome della comodità, si lascia intendere che tutti i problemi della vita sono risolti, e invece si creano sempre nuove schiavitù e dipendenze.
La scienza si fa idolo «dove non riconosce il suo fondante statuto di approssimazione come avvicinamento descrittivo-quantitativo al fenomeno, e ove non riconosca la possibilità che un’altra teoria (o più altre) possa soppiantare quella che al momento è ritenuta la migliore, più completa e più semplice» (Gianluca Poldi, "Idola scientiae, idolum temporis", nel numero 134 di «Servitium», marzo-aprile 2001).
La scienza è idolo quando non ammette che i suoi, spesso, sono tentativi, non teoremi definitivi, e soprattutto non sa confessare i propri errori (e i propri guasti!).
Per non diventare idolo, la scienza deve dimostrare di essere a servizio dell'uomo. E, soprattutto, non deve pregiudicare l'avvenire, porre una ipoteca sul tempo. Quel tempo che potrebbe produrre un evento imprevedibile, non programmabile, fuori programma, fuori teoria, fuori paradigma, fuori schema. Un evento, una nuova scoperta che smentiranno clamorosamente le certezze attuali e sfasceranno miseramente certe montagne di supponenza (lasciando intatto, però, il gruzzolo accumulato attraverso lo spaccio di false sicurezze).
L’idolo della scienza, allorché si guarda allo specchio con evidente compiacimento e smodata auto-esaltazione, dovrebbe sospettare che, appena dietro l'angolo... c'è il ridicolo.
Tratto da: A. Pronzato – “Ritorno ai dieci comandamenti” vol 1, pag 104-106
20 settembre 2007
È possibile amare i nemici?
Il nemico è quindi un elemento distruttivo, e come tale si deve combattere radicalmente. È possibile distruggere i nemici totalmente? Tutti gli uomini sanno dalla propria esperienza che è un inganno vedere il nemico soltanto nel soldato di una potenza straniera. Tutti abbiamo avversari anche nella vita quotidiana, spesso nella propria famiglia. Che cosa fare con loro? Verso la fine dell’antichità, Plutarco scrisse un opuscolo, “De utilitate inimicorum”, sull’utilità dei nemici. Qui cerca di consolare il lettore che avere dei nemici non è poi così male. Contro i nemici dobbiamo combattere, e questo fa crescere la nostra forza, ci insegna a stare attenti, sveglia la nostra capacità e dà più valore a quanto abbiamo acquisito lottando, insegnandoci a stimarlo di più.
Senza i nemici le nostre virtù non avrebbero possibilità di crescere. Plutarco cerca quindi di trovare nei nemici un elemento positivo per lo sviluppo delle persona. Ma non dice mai se, a causa di questo, dobbiamo amare i nemici.
E come guarda i nemici la Sacra Scrittura? Anche l’Antico Testamento è pieno di nemici, esterni ed interni. Non solo tali solo i filistei e i gebusei. L’odio penetra anche nelle famiglie. Ne sono esempi Caino e Abele, Esaù e Giacobbe. La storia di Davide è piena di avversari. Quasi in ogni salmo si parla dei nemici che ci odiano e vogliono farci male. Davide è un soldato coraggioso e sa difendersi. Ma anche a lui vengono momenti di scoraggiamento e di dubbio. I suoi nemici sono troppo. Signore, chi potrà resistere?
Ma nella Bibbia c’è anche un nuovo motivo. Non si lodano gli eroi vittoriosi perché erano forti, ma perché Dio era dalla loro parte. Nel nome di Dio si potevano distruggere i nemici che volevano soggiogare il suo popolo. Tale vittoria era tuttavia solo occasionale e per un breve tempo. Esiste però contemporaneamente una grande promessa: quando verrà il Messia promesso, il re della pace, Dio farà di tutti i suoi nemici come lo sgabello dei suoi piedi. Nessuno oserà più alzare la testa contro di lui e i suoi fedeli. (cfr. Is 32, 1-5).
Voltiamo ora la pagina e soffermiamoci sul Nuovo Testamento. Gesù assicura gli altri che lui è il re promesso della pace. Se pensiamo logicamente, diremmo che lui si alzerà e distruggerà i suoi nemici con la potenza di Dio. Lui invece dichiara: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano” (Lc 6, 27). Qualche opuscolo rabbinico dichiara: “Chi ama il proprio nemico, ama la propria perdizione”. Nella vita di Gesù questa esperienza si è tragicamente verificata. Tutti i suoi nemici si unirono contro di lui e lo uccisero.
La conclusione logica di questa esperienza per coloro che la pensavano alla maniera antica era una sola: Gesù non era e non poteva essere il Messia promesso, il re d’Israele. Anche i discepoli, che dopo il tragico avvenimento si misero sul cammino di Emmaus, sospiravano tristemente: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24, 21). Come allora dobbiamo mettere d’accordo il comandamento di Gesù di amare i nemici con l’universale esperienza umana e la tradizione dell’Antico Testamento? Non è sufficiente dichiarare soltanto genericamente che quello era l’Antico Testamento e che ora vale il Nuovo. Il Nuovo è davvero nuovo, ma sempre nella tradizione dell’Antico. Sottolineiamo allora dall’Antico Testamento l’elemento che si mette sempre in risalto quando si parla dei nemici: senza dubbio la fede che Dio stesso li renderà innocui. Chi è con Dio non potrà mai essere vinto da nessun nemico.
È di questo motivo che Gesù s’appropriò e che ripeteva spesso: “Perché avete paura, uomini di poca fede?” (Mt 8,26). Senza la volontà di Dio neanche un capello può cadere dalla nostra testa (cfr. Lc 21, 18).
Gesù lo applicava principalmente alla sua vita e alla sua missione. Finché non è venuta l’ora giusta, egli non mostra la minima paura di quelli che minacciano la sua vita. E anche quando è venuta l’ora nella quale Pilato, rappresentante dell’impero, dichiara ufficialmente che ha il diritto di uccidere o liberare Gesù, sente la risposta autorevole del Messia: “Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto” (Gv 19, 11). Si è verificato ciò che era stato predetto: tutti i nemici sono nelle mani di Dio. Non è possibile neanche un solo movimento da parte loro senza la volontà del Padre celeste. Le promesse messianiche si sono verificate, ma in maniera differente da come si immaginavano gli ebrei. Essi credevano che avere qualcuno in proprio potere significasse distruggerlo. Cristo insegna diversamente. Se Dio ha nelle sue mani qualcuno, lo userà per la salvezza, per la sua opera, per realizzare i piano della sua provvidenza. Allora ne segue una conclusione logica: perché dovremmo odiare un uomo per il fatto che realizza i piani di Dio? Chi può intenderlo intenda! Certo è che gli autori spirituali che esortavano all’amore dei nemici insistevano in primo luogo nel cogliere i progetti di Dio per non aver paura. Può amare solo colui che non teme. Finché avremo paura degli uomini, non potremo amarli. E temeremo gli uomini così a lungo finché non crederemo nell’infallibilità del governo di Dio nel mondo, nel regno di Dio e di Cristo.
19 settembre 2007
Salvare il seme
- “Signore, cos’è questo vento di pazzia? Non è forse che il cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida autodistruzione?”
- “Don Camillo, perché tanto pessimismo? Allora il mio sacrificio sarebbe stato inutile? La mia missione tra gli uomini sarebbe fallita perché la malvagità degli uomini è più forte della bontà di Dio?”
- “No Signore. Io intendevo soltanto dire che oggi la gente crede soltanto in ciò che vede e tocca. Ma esistono cose essenziali che non si vedono e non si toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pudore, speranza. E fede. Cose senza la quali non si può vivere. Questa è l’autodistruzione di cui parlavo. L’uomo, mi pare, sta distruggendo il suo patrimonio spirituale. L’unica vera ricchezza che in migliaia di secoli aveva accumulato […] Signore, se è questo che accadrà, cosa possiamo fare noi?”
Il Cristo sorrise:
- “Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa fertile dal limo del fiume, il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pace, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede …”
Giovannino Guareschi, Don Camillo e i giovani d’oggi.
18 settembre 2007
Santità
(Thomas Merton, Il segno di Giona, pag. 116)
Non è sbagliato voler essere santi, quello che è sbagliato è decidere noi stessi quale deve essere la nostra strada per la santità. In fondo questa non è altro che la vecchia tentazione dell’Eden: voler decidere noi qual è la nostra salvezza, dov’è la nostra felicità.
E questo deriva dal fatto che non ci fidiamo veramente di Dio.
Tante volte pensiamo di saperne di più noi.
E vogliamo insegnargli il suo mestiere.
17 settembre 2007
"Per" o "con"?
Jean Vanier, il fondatore della Comunità dell’Arca per l’assistenza agli handicappati mentali, dice che bisogna passare dal fare le cose “per” Gesù a fare le cose “con” Gesù.
In effetti a ben guardare, finché facciamo le cose (anche le migliori) “per” Gesù, al centro del nostro agire ci siamo sempre noi, c’è sempre il nostro “io”. E comunque il nostro agire è sempre soggetto alla nostra volontà, al nostro sentire. E allora quando arriva la stanchezza, la frustrazione (che prima o poi arrivano sempre) ecco che il nostro volere scema, il nostro agire si affievolisce in qualità, ma soprattutto in quantità. E allora nella migliore delle ipotesi si passa a fare qualcos’altro, quando non si abbandona invece tutto e si inizia a pensare solo a sé stessi e ai proprio interessi.
Quando invece facciamo le cose “con”Gesù il centro del nostro agire non siamo più noi, ma inizia ad essere il nostro rapporto con Dio, cioè a essere fuori da noi per andare sempre più nelle mani e nel cuore del Signore. E allora quando arriva la stanchezza e la frustrazione non siamo più soli, ma abbiamo delle braccia amorose che ci accolgono e ci alleviano il peso, ci donano la forza e la voglia di perseverare.
Ma come fare per riuscire a essere “con” e non “per”? Sempre Jean Vanier dice che solo la preghiera ci può aiutare. Anche nelle giornate più intense bisogna sempre trovare un tempo di preghiera, un tempo per stare con Dio e solo con Lui.
Anche Madre Teresa di Calcutta, che non era di certo una persona che non agiva, dedicava ogni giorno almeno un’ora all’adorazione. Le Sorelle della Carità, l’ordine da lei fondato, prima di “prendere servizio” devono passare del tempo in adorazione, e inoltre durante i vari spostamenti devono recitare il rosario.
È interessante notare come, leggendo le vite dei vari santi, anche i più “attivi” non potessero fare a meno di avere ogni giorno dei momenti, e neanche tanto brevi, di preghiera.
La preghiera non è un passatempo per chi non ha niente da fare, ma è il “carburante” indispensabile per chi ha tanto da fare.
Quando non hai tempo neanche per respirare allora devi fare solo una cosa: PREGARE. Si tratta di non confondere l’urgente col necessario.
14 settembre 2007
Preghiera di un diacono
In un mondo che vede come unica via di realizzazione il prevalere sugli altri, tu mi hai insegnato che non c’è gioia più grande che il servire.
Tu mi hai chiamato ad essere servo.
Mi hai chiamato a servirTi servendo gli altri.
Io non ha altro da offrirti che il mio grazie,
grazie per il passato che mi hai donato
grazie per il presente che mi doni,
ma soprattutto grazie per il domani che mi donerai.
13 settembre 2007
Cristiani e pagani
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fan tutti, tutti, cristiani e pagani
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.
sazia il corpo e l’anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona.
Dietrich Bonhoeffer (giugno 1944)
12 settembre 2007
Architettura e liturgia
“Non si può spiegare la perfezione dell’architettura cistercense del dodicesimo secolo sostenendo che i Cistercensi cercavano una nuova tecnica. […] Costruivano delle belle chiese perché cercavano Dio. E cercavano Dio in un modo così puro e integrale, che tutto quel che facevano e toccavano dava gloria a Dio.
Noi non possiamo riprodurre quello che fecero, perché affrontiamo il problema in un modo che automaticamente ci impedisce di trovarne la soluzione. Noi ci rivolgiamo una domanda che gli antichi Cistercensi non si posero mai. Come costruire un bel monastero secondo lo stile di un’età passata, secondo le regole di una tradizione morta? Con questo noi rendiamo il problema non solo infinitamente complicato, ma di fatto insolubile. Perché uno stile morto è morto. Ed è morto perché i motivi e le circostanze che un giorno gli diedero vita hanno cessato di esistere.
Hanno dato luogo ad uno stato di cose che richiede altro stile. Se ci preoccupassimo di amare Dio piuttosto che di riuscire a costruire una chiesa gotica, con pochi fondi, innalzeremmo qualcosa di semplice che darebbe gloria a Dio e sarebbe conforme alla tradizione dei nostri Padri. […]
In ogni caso, i Cistercensi del dodicesimo secolo si preoccupavano di essere architetti. San Bernardo mando Achard di Clairvaux a studiare le chiese dei villaggi della Borgogna, e a vedere come fossero costruite. Ed è pur vero che nell’aria di quell’età c’era una specie di misticismo puro che faceva belle tutte le cose. Uno dei maggiori problemi di un architetto oggigiorno è che da centocinquant’anni si costruiscono le chiese come se non potessero appartenere al nostro tempo. Io penso che questa opinione si basi su un’implicita confessione di ateismo. Come se Dio non appartenesse a tutte le età, e come se la religione fosse soltanto una formalità piacevole e necessaria, ereditata dal passato per dare al nostro mondo un’aria di rispettabilità”
Una domanda che mi faccio in tutta sincerità è se questo discorso non si possa applicare anche alla celebrazione liturgica. Non siamo troppo preoccupati a volte della correttezza formale, secondo antichi canoni, della Messa, finendo per dimenticare che compito di ogni liturgia (ma anche di tutta la vita di ogni cristiano) è dar gloria a Dio?
11 settembre 2007
Preghierina
Tempo fa, facendo "pulizia" nel computer ho trovato questa preghierina. Non so di chi sia e non ricordo assolutamente da dove l'abbia scaricata, ma mi piace e così ve la propongo:
Mio Signore,
oggi mi sto comportando bene.
Non ho fatto pettegolezzi,
non ho perso la calma,
non sono stata avida, golosa, musona,
egoista o indulgente verso me stessa.
Non ho frignato, non mi sono lamentata,
Non ho detto parolacce o mangiato cioccolata.
Non ho caricato nulla sulla carta di credito.
Ma mi alzerò dal letto tra un minuto e penso che a quel punto
avrò senz'altro bisogno del tuo aiuto.
10 settembre 2007
Il corpo
Il più grande mistero della fede cristiana è che Dio è venuto a noi nel corpo, ha sofferto con noi nel corpo, è risorto nel corpo e ci ha dato da mangiare il suo corpo. Nessuna religione prende il corpo altrettanto sul serio della religione cristiana. Il corpo non è visto come il nemico o la prigione dello spirito, ma viene celebrato come tempio dello Spirito. Attraverso la vita, la morte e la resurrezione di Gesù il corpo umano è diventato parte della vita di Dio. Mangiando il corpo di Cristo, i nostri fragili corpi diventano intimamente legati al Cristo risorto e preparati così a essere innalzati con lui nella vita divina. Gesù dice: “Il sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51).
È in unione col corpo di Cristo che giungo a conoscere il pieno significato del mio corpo. Il mio corpo è molto di più che uno strumento mortale di piacere e di dolore. È una casa dove Dio vuole manifestare la pienezza della gloria divina. Questa verità è la base più profonda della vita morale. L’abuso del corpo - sia esso psicologico (per esempio incutendo paura), fisico (per esempio la tortura), economico (per esempio lo sfruttamento) o sessuale (per esempio la ricerca del piacere edonistico) - è una distorsione del vero destino umano: vivere nel corpo eternamente con Dio. L’amorosa cura che diamo al nostro corpo e al corpo degli altri è quindi un autentico atto spirituale, in quanto porta più vicino alla sua gloriosa esistenza.
(Henri J.M. Nouwen, In cammino verso l’alba di un giorno nuovo, pp. 297-298)