La storia di Mosè viene raccontata nei primi libri della Bibbia (Esodo, Deuteronomio, Numeri). Poi praticamente il suo nome scompare, viene scritto solo una volta nel Siracide, che però per gli ebrei non è un libro canonico, scritto in epoca prossima al cristianesimo. In effetti solo col cristianesimo si torna a nominarlo, basti pensare che nel N.T. è citato ben 80 volte. Questo fatto però non toglie che la sua figura sia fondamentale nell’ebraismo. Non viene nominato direttamente perché lui si identifica col suo popolo, con la Legge, il Pentateuco, che la tradizione vuole scritta direttamente da lui.
È un uomo che è passato da un’esperienza ad un’altra nella sua vita. Ha vissuto avvenimenti grandi, dolorosi e veramente sconvolgenti. È passato, e ha fatto passare il suo popolo, da un’esistenza ad un’altra. È l’uomo che è legato con tutta la sua vita all’iniziativa del passaggio di Dio.
Tutta la sua vita è stata all’insegna del viaggio. Da appena nato ha affrontato il viaggio sul Nilo, poi il viaggio verso il deserto per sfuggire al faraone, poi il viaggio nel deserto come pastore di suo suocero. Ha poi affrontato il viaggio di ritorno in Egitto per concludere col grandioso e penoso viaggio con tutto il suo popolo dall’Egitto alla Terra Promessa.
Ma nella sua vita ha avuto una serie di viaggi ben più importanti: quelli interiori. Nato ebreo, cresciuto nell’elite culturale e politica egiziana (che in quell’epoca era il massimo) fino a giungerne ai vertici più alti, abbandona tutto per il suo popolo nel vano tentativo di farsene l’eroe e il capo puramente politico. Scacciato da questi si rifugia nel deserto dove sceglie la solitudine e il nascondimento. Qui avviene l’incontro con Dio (il Roveto Ardente). E infine il ritorno dal suo popolo come intermediario tra questo e Dio.
Molto bello, e da meditare, il riassunto della sua vita fatto da Stefano in At 7,20-43, in cui, rifacendosi ad una tradizione precedente, divide la vita di Mosè in tre tappe di quarant’anni (40 in Egitto, 40 in Madian e 40 a servizio di Israele).
Il faraone e Mosè.
Ho scelto questo brano perché penso che del roveto ardente o del passaggio del Mar Rosso ne abbiate già sentito parlare molto. Inoltre non mi soffermo ad analizzare le varie piaghe, in quanto materia molto vasta e controversa. L’incontro tra i due viene descritto nei cap. dal 5 all’11 dell’Esodo.
Dal testo il faraone ci appare come un uomo intelligente, abile, perspicace, in fondo una persona attraente: ascolta, discute, entra in dialogo con Mosè e Aronne. Inoltre non solo sa trattare, ma cerca di capire, di venire incontro, di capire la situazione degli altri, sa anche riconoscere i propri torti.
Però è anche un uomo condizionato dalla sua posizione, dai suoi privilegi, dal suo essere faraone, e questo in fondo è il suo dramma. Lui sarebbe anche disposto a lasciar partire gli ebrei, ma non può perché andrebbe contro troppi interessi. Alla fine ritira il suo ‘sostegno’ altrimenti crollerebbe l’intero sistema egiziano. In fondo è prigioniero del dovere, della sua carica.
Nella figura del faraone si riassumono tutte quelle forme che ci condizionano e ci risucchiano, senza la quali agiremo in altro modo. Sono condizionamenti che non avvertiamo. Viviamo tranquilli , ma poi capitano certe occasioni in cui questi condizionamenti ci fanno dire e fare cose che non avremmo pensato. Si tratta di vere chiusure, il più delle volte inconsce per noi, ma spesso chiaramente visibili da parte degli altri.
A questi poi si aggiungono i condizionamenti di gruppo che ci fanno giudicare in base a pregiudizi comuni, in base a opinioni comunemente accettate. Arriva il momento in cui ci troviamo a dire: “Oltre non si può andare, siamo arrivati al limite”. Ma qual’è questo limite invalicabile? Quello del privilegio, del benessere, oppure quello che seguace di Cristo crocifisso?
Non dimentichiamo che però questi condizionamenti non li vediamo. Sono solo le occasioni che ce li dimostrano, facendo apparire quelle zone d’ombra che non siamo capaci (o non vogliamo) prendere in considerazione.
Mosè invece è lo slancio della libertà, della volontà di capire le cose, di decidere. È il suo desiderio, di fronte al roveto ardente, di vedere, di capire. Rappresenta il desiderio di andare a fondo nelle cose, di rimetterle in discussione. Il nostro anelito alla libertà può sembrare una piccola cosa, ma è un anelito pericoloso, perché mette in moto tante cose. Ed è un dono che nella Scrittura viene chiamato “pneuma”, che significa spirito, cioè la capacità di mettersi di fronte alle cose e domandarsi: “Perché agisco così, perché reagisco così?”
A questo dono si aggiunge quello del Pneuma, lo Spirito di Dio che incessantemente fa di tutto per liberarci
e per ispirare il nostro desiderio di autenticità, il nostro desiderio di liberarci da tutti i condizionamenti. È lo Spirito che ci pone di fronte alle cose con animo non rigido ma libero.
Mosè, toccato da questo Spirito, non agisce più come la prima volta con la violenza (quando uccise l’egiziano), ma con coraggio va più volte dal faraone, anche se questo è sempre più adirato. Mosè crede nella forza della parola, anche se avverte che il faraone è sempre più ostinato. E ci crede perché sa che non è la sua di parola, ma quella di Dio. È Dio che opera mediante la sua parola, e per questo continua a dirgli: “Va da faraone e digli ...”. Dio agisce con la parola e la persuasione, anche quando le circostanze sembrano totalmente contrarie.
Ma oltre alle parole, fin dall’inizio abbiamo da parte di Mosè anche dei segni. All’inizio sono segni ingenui, semplici che vengono proposti appunto come segni, ma che il faraone, proprio perché non vuole rinunciare al suo essere faraone, cerca di riprodurre al fine soprattutto di tranquillizzarsi. Ma Dio attraverso Mosè parla con segni sempre più duri e molesti, sempre più veri e propri castighi.
Ma qual’è il castigo fondamentale, quello a cui tutti gli altri si riducono? È l’incapacità di amare, l’incapacità di realizzare effettivamente l’amore di Dio, soprattutto quello verso il prossimo. Perché l’amore verso Dio può essere facile; difficile è quello verso gli altri, che consiste nel rispondere alle vere esigenze, alle vere situazioni di disagio dell’altro, anche quando l’altro non merita il mio aiuto, anzi lo demerita. E dobbiamo aggiungere che c’è anche un castigo finale. Difatti alla fine il faraone si chiude, rimane faraone perché vuole così, vuole conservare i suoi privilegi, senza rinunciare a niente, senza mettere niente in discussione, e così viene travolto dal mare dei Giunchi. Di fronte a Dio può venire il momento in cui restiamo induriti nella nostra incapacità, nella nostra volontà di non amare. Dopo tanti rifiuti restiamo irretiti in questa incapacità che diventa definitiva. È un castigo che parte prima di tutto da noi stessi che ci siamo chiusi alle parole e ai segni che il Signore permetteva nella sua misericordia. Quindi l’indurimento del faraone rappresenta tutti i nostri indurimenti.
Ma il nostro indurimento può verificarsi in due maniere.
- Per ostinazione, che è la forma più tipica, che non è solo quello ad esempio dell’ateo che non vuol credere, o del vizioso che non vuole tirarsi fuori, ma anche quello di chi si crede detentore della verità, che identifica con la propria storia. In questo modo siamo portati ad identificare la nostra storia, anche quella personale, con quello che può essere vero.
- Ma c’è anche l’indurimento per debolezza, che sperimentiamo quando ci accorgiamo che ci sono dei limiti alla nostra capacità di amare, quando sperimentiamo la nostra impotenza pratica a liberarci da noi stessi e ad amare davvero. Allora anche noi abbiamo paura di perdere, e non vogliamo perdere (come il faraone) e vogliamo quindi venire a patti, scendere a compromessi. Il Signore ci fa conoscere i limiti della nostra esistenza ‘faraonica’ e permette che sbattiamo la testa, proprio perché così invochiamo la sua salvezza e riconosciamo l’incredibile sovrabbondanza della sua misericordia.
Pace e benedizione