Continuiamo a ripercorrere le parole di Gesù sulla croce e ascoltiamolo quando dice: “Oggi sarai con me nel paradiso“.
Sappiamo benissimo a chi sono rivolte queste parole, a quello che tutti conosciamo come il ladrone pentito, il buon ladrone.
Due sono gli insegnamenti che possiamo cogliere da queste parole di Gesù.
Il primo è che mettersi alla sua sequela significa sì il paradiso, la resurrezione per la nostra felicità, ma per risorgere bisogna prima morire! Morire al nostro egoismo, ai nostri progetti di salvezza senza “prendere la nostra croce“. E morire al nostro egoismo non è un morire per modo di dire, è qualcosa di arduo, che ci da sofferenza, che ci costa molta fatica. Però in questa fatica, in questa sofferenza non siamo lasciati soli, c’è al nostro fianco Lui, che soffre con noi e per noi. C’è Lui che ci aiuta e ci sorregge col suo Spirito, c’è Lui che ci rivolge parole di consolazione e di speranza.
La lotta contro il nostro egoismo è vera lotta, ma è una lotta in cui siamo sicuri della vittoria se confidiamo non sulle nostre forze, ma sulla Sua potenza.
E il secondo insegnamento è che proprio al culmine della nostra sofferenza, del nostro dolore, nei momenti più bui e disperati della nostra vita, Lui viene per donarci il Paradiso. Nel massimo del dolore c’è un raggio di speranza e di felicità. La speranza e la gioia ci vengono donate non “nonostante” la sofferenza, ma “nella” sofferenza.
Basta che volgiamo il nostro sguardo a Colui che soffre al nostro fianco. Basta che anche noi, come il buon ladrone, riusciamo a vedere Dio non nella gloria e nel trionfo, ma nel sofferente e nel deriso.
Ma la cosa principale che ci vuole insegnare Gesù è che il paradiso è “OGGI“. Noi siamo troppo spesso attaccati ad un passato che è ormai solo ricordo, o ad un futuro che non è ancora. Gesù invece ci ricorda che la salvezza è OGGI, la conversione, la santità, il perdono sono OGGI.
È OGGI che devo aprire gli occhi e le orecchie, è OGGI che devo riconoscere il mio re e Signore. Anche se mi ritrovo, anzi, ci ritroviamo, Lui ed io, in una situazione per niente piacevole.
Ogni uccello ha il suo modo di volare.
Ogni persona ha il suo modo di incarnare il Cristo.
31 marzo 2015
30 marzo 2015
Lunedì Santo
Quando ci viene a mancare una persona cara, una delle cose che teniamo in fondo al cuore sono le ultime parole che questa ci ha rivolto. Proprio perché sono le ultime, acquistano un senso diverso, nel ricordo acquistano per noi un’importanza particolare. I Vangeli ci riportano le ultime parole che Gesù disse sulla croce. Proviamo a ripercorrerle proprio come le ultime parole che Gesù morente rivolge a tutti noi.
Una delle prime frasi che Gesù disse è “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno“. Le cronache del tempo raccontano che un condannato alla croce, il più delle volte urlava dal dolore, e le volte in cui riusciva a parlare, le sue parole erano delle maledizioni, o verso il giorno in cui erano nati o verso gli aguzzini.
Niente di tutto ciò in Gesù. Nel momento del massimo dolore fisico le sue parole sono parole d’amore, di perdono. Anche nel momento tragico Lui ci mostra qual è la volontà del Padre: perdonare!
Certo le sue parole si indirizzano nell’immediato a coloro che lo avevano condannato, a coloro che eseguivano la condanna. Ma non solo per loro Gesù chiede al Padre il perdono.
Gesù si rivolge anche a tutti noi. Perché anche noi il più delle volte non sappiamo quello che facciamo.
Se quando pecchiamo sapessimo cosa facciamo! Penso che se anche ne avessimo una pallida idea ci guarderemmo bene dal peccare.
Perché quando pecchiamo, in realtà non sappiamo quello che facciamo. Non sappiamo quanto male facciamo agli altri, ma anche quanto ne facciamo a noi stessi. Il peccato è proprio un far male agli altri e anche a sé stessi. Solo che il più delle volte noi non ce ne accorgiamo, pensiamo invece di fare il nostro bene. Non ci rendiamo conto che peccando scegliamo una cosa che del bene ha solo l’apparenza. Il male è come un frutto con una buccia lucidata, splendida, ma che dentro è tutto marcio, andato a male.
Il bene invece è come quei frutti dall’apparenza non proprio delle migliori, apparentemente non è perfetto, ma ha una volta addentato scopriamo che ha un sapore squisito. È un po’ come quelle ciliege o quelle fragole che ci ricordiamo dalla nostra infanzia, non erano belle, tutte irregolari, piccole e magari anche un po’ rovinate dalla grandine, ma un profumo così non ce lo dimenticheremo mai, per non parlare poi del sapore.
E allora quanto sono attuali le parole di Gesù. Si: “Padre, perdonaci, perché non sappiamo quello che facciamo“. E perdonandoci, donaci di riuscire ad essere come te, cioè di riuscire a perdonare.
Una delle prime frasi che Gesù disse è “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno“. Le cronache del tempo raccontano che un condannato alla croce, il più delle volte urlava dal dolore, e le volte in cui riusciva a parlare, le sue parole erano delle maledizioni, o verso il giorno in cui erano nati o verso gli aguzzini.
Niente di tutto ciò in Gesù. Nel momento del massimo dolore fisico le sue parole sono parole d’amore, di perdono. Anche nel momento tragico Lui ci mostra qual è la volontà del Padre: perdonare!
Certo le sue parole si indirizzano nell’immediato a coloro che lo avevano condannato, a coloro che eseguivano la condanna. Ma non solo per loro Gesù chiede al Padre il perdono.
Gesù si rivolge anche a tutti noi. Perché anche noi il più delle volte non sappiamo quello che facciamo.
Se quando pecchiamo sapessimo cosa facciamo! Penso che se anche ne avessimo una pallida idea ci guarderemmo bene dal peccare.
Perché quando pecchiamo, in realtà non sappiamo quello che facciamo. Non sappiamo quanto male facciamo agli altri, ma anche quanto ne facciamo a noi stessi. Il peccato è proprio un far male agli altri e anche a sé stessi. Solo che il più delle volte noi non ce ne accorgiamo, pensiamo invece di fare il nostro bene. Non ci rendiamo conto che peccando scegliamo una cosa che del bene ha solo l’apparenza. Il male è come un frutto con una buccia lucidata, splendida, ma che dentro è tutto marcio, andato a male.
Il bene invece è come quei frutti dall’apparenza non proprio delle migliori, apparentemente non è perfetto, ma ha una volta addentato scopriamo che ha un sapore squisito. È un po’ come quelle ciliege o quelle fragole che ci ricordiamo dalla nostra infanzia, non erano belle, tutte irregolari, piccole e magari anche un po’ rovinate dalla grandine, ma un profumo così non ce lo dimenticheremo mai, per non parlare poi del sapore.
E allora quanto sono attuali le parole di Gesù. Si: “Padre, perdonaci, perché non sappiamo quello che facciamo“. E perdonandoci, donaci di riuscire ad essere come te, cioè di riuscire a perdonare.
29 marzo 2015
DOMENICA DELLE PALME
Andare a scuola di fede da un uomo. Non si capisce bene quale sia il suo mestiere. Per Luca è un “malfattore”, per Matteo e Marco un “ladro” o “predone”. Per la tradizione “brigante e assassino”. Comunque sia è senz'altro un poco di buono, uno da evitare ad ogni costo.
Qui c’è la prima curiosità. Stando ai Vangeli, durante la sua esistenza, Gesù non ha mai avuto l’occasione di incontrare dei briganti. Invece adesso, nel giro di poche ore, ha a che fare con tre di loro. Prima Barabba, il bandito che ha preso il suo posto nella libertà, e poi, sulla croce, è in compagnia di altri due.
Ma in fondo cosa può insegnarci quest’individuo, condannato giustamente per sua stessa ammissione, a morte? Il ladrone ha saputo scoprire Dio sotto le apparenze di uno giustiziato in mezzo a due ladroni. Riconosce Cristo come Re non nel momento del trionfo, dei miracoli, delle folle osannanti, ma nel momento della disfatta, quando le sue truppe (poco) fedeli sono sparite, quando è nudo, con una corona di spine, quando è esposto a tutti i colpi, compresi quelli del sarcasmo, quando è inchiodato su un trono infamante. Lo riconosce quando è “sfigurato”, non quando è “trasfigurato”.
Può essere facile seguire il Gesù dei miracoli, il Gesù acclamato dalle folle. Molto più arduo seguire il Gesù che non si difende, che si lascia processare e deridere, che si lascia inchiodare su di una croce. È difficile accettare la sua strada di “abbassamento”.
Il ladrone ci ricorda che il paradosso cristiano fondamentale è questo: puntare sulla vittoria, anzi, essere sicuri della vittoria schierandosi dalla parte di questo Re che, secondo le valutazioni umane, è irrimediabilmente perdente. Dobbiamo imparare ad essere dei perdenti, ma non dei perduti.
Qualcuno lo chiama “il contrabbandiere del Paradiso”, dice che ha “rubato” il Paradiso. Insomma, che il Paradiso gli è stato “donato”. Ma chi può “meritarsi” il Paradiso? La salvezza è dono, non merito. È grazia, nient’altro che grazia, e non merito dell’uomo. Neanche i Padri del deserto, gli uomini delle penitenze più dure, hanno pagato il prezzo del Paradiso.
Qualcuno, anzi tanti, dice che è comodo: tutta una vita di bagordi, e poi cinque minuti … e si è in Paradiso. Sembrano quasi molto invidiosi. Sembra che gli siano rimaste sullo stomaco le virtù che sono costretti a praticare. Ma questo, in fondo, vuol dire ritenere che il peccato, la lontananza dal Padre, sia fonte di felicità. Dobbiamo renderci conto che l’ubbidienza alla legge di Dio è motivo di gioia, che il fare la volontà del Padre è festa (anche se rimane una cosa costosa). Se no, la nostra fedeltà è una fedeltà da schiavi, in vista del salario finale, non da figli. La virtù è gioia, è libertà, non prestazione onerosa.
Ma in fondo anche Gesù gli deve essere grato. Lui che era venuto a cercare ciò che era perduto, che era il medico venuto per i malati, ha avuto la possibilità di guarire il moribondo quando glielo avevano impedito inchiodandogli le mani. Ha potuto presentarsi al Padre e dire: “Missione compiuta”. Ha presentato al Padre il primo suddito reclutato in un mondo di delinquenti comuni.
E qui abbiamo la seconda curiosità. È l’unico santo canonizzato direttamente da Gesù, eppure per lui non c’è posto nel calendario liturgico. Non si sa neanche il nome. Per i genitori della Madonna si sono accettati i vangeli apocrifi, per lui no. Che sia perché, in fondo, ognuno ci deve mettere il proprio, di nome, su quella croce di fianco a quella di Gesù?
Qui c’è la prima curiosità. Stando ai Vangeli, durante la sua esistenza, Gesù non ha mai avuto l’occasione di incontrare dei briganti. Invece adesso, nel giro di poche ore, ha a che fare con tre di loro. Prima Barabba, il bandito che ha preso il suo posto nella libertà, e poi, sulla croce, è in compagnia di altri due.
Ma in fondo cosa può insegnarci quest’individuo, condannato giustamente per sua stessa ammissione, a morte? Il ladrone ha saputo scoprire Dio sotto le apparenze di uno giustiziato in mezzo a due ladroni. Riconosce Cristo come Re non nel momento del trionfo, dei miracoli, delle folle osannanti, ma nel momento della disfatta, quando le sue truppe (poco) fedeli sono sparite, quando è nudo, con una corona di spine, quando è esposto a tutti i colpi, compresi quelli del sarcasmo, quando è inchiodato su un trono infamante. Lo riconosce quando è “sfigurato”, non quando è “trasfigurato”.
Può essere facile seguire il Gesù dei miracoli, il Gesù acclamato dalle folle. Molto più arduo seguire il Gesù che non si difende, che si lascia processare e deridere, che si lascia inchiodare su di una croce. È difficile accettare la sua strada di “abbassamento”.
Il ladrone ci ricorda che il paradosso cristiano fondamentale è questo: puntare sulla vittoria, anzi, essere sicuri della vittoria schierandosi dalla parte di questo Re che, secondo le valutazioni umane, è irrimediabilmente perdente. Dobbiamo imparare ad essere dei perdenti, ma non dei perduti.
Qualcuno lo chiama “il contrabbandiere del Paradiso”, dice che ha “rubato” il Paradiso. Insomma, che il Paradiso gli è stato “donato”. Ma chi può “meritarsi” il Paradiso? La salvezza è dono, non merito. È grazia, nient’altro che grazia, e non merito dell’uomo. Neanche i Padri del deserto, gli uomini delle penitenze più dure, hanno pagato il prezzo del Paradiso.
Qualcuno, anzi tanti, dice che è comodo: tutta una vita di bagordi, e poi cinque minuti … e si è in Paradiso. Sembrano quasi molto invidiosi. Sembra che gli siano rimaste sullo stomaco le virtù che sono costretti a praticare. Ma questo, in fondo, vuol dire ritenere che il peccato, la lontananza dal Padre, sia fonte di felicità. Dobbiamo renderci conto che l’ubbidienza alla legge di Dio è motivo di gioia, che il fare la volontà del Padre è festa (anche se rimane una cosa costosa). Se no, la nostra fedeltà è una fedeltà da schiavi, in vista del salario finale, non da figli. La virtù è gioia, è libertà, non prestazione onerosa.
Ma in fondo anche Gesù gli deve essere grato. Lui che era venuto a cercare ciò che era perduto, che era il medico venuto per i malati, ha avuto la possibilità di guarire il moribondo quando glielo avevano impedito inchiodandogli le mani. Ha potuto presentarsi al Padre e dire: “Missione compiuta”. Ha presentato al Padre il primo suddito reclutato in un mondo di delinquenti comuni.
E qui abbiamo la seconda curiosità. È l’unico santo canonizzato direttamente da Gesù, eppure per lui non c’è posto nel calendario liturgico. Non si sa neanche il nome. Per i genitori della Madonna si sono accettati i vangeli apocrifi, per lui no. Che sia perché, in fondo, ognuno ci deve mettere il proprio, di nome, su quella croce di fianco a quella di Gesù?
21 marzo 2015
V DOMENICA DI QUARESIMA
Il vangelo di oggi inizia con una domanda impegnativa: “Vogliamo vedere Gesù“.
Dico che è impegnativa perché è questa l’esigenza, la richiesta più urgente, anche se spesso inconfessata, del mondo d’oggi nei confronti dei cristiani.
Sta a noi soddisfare questa pretesa legittima. Noi, i cercatori di Dio, dobbiamo essere in grado di coinvolgere anche gli altri in questa avventura entusiasmante.
La vita cristiana, o è manifestazione di Dio, oppure è accademia spirituale, catena di montaggio di opere più o meno buone, orribile chiacchiera come la definisce S. Kierkegaard. Se il Signore non ci ha deluso, proviamo a nostra volta a non deludere le attese dei fratelli.
Dobbiamo però evitare di rispondere a questa attesa nella maniera sbagliata. Maniera sbagliata è soprattutto la pretesa di insegnare Dio. “Vogliamo vedere Gesù”, ci dice il mondo, non abbiamo voglia di sentire dei discorsi intelligenti e pretenziosi sul suo conto. Dovete “mostrarcelo” non “dimostrarcelo”.
Non si insegna Dio. Bisogna raccontare Dio. Bisogna manifestare Dio, con entusiasmo, passione, competenza, stupore, e perfino ingenuità.
Succede spesso che ci lamentiamo dell’indifferenza, del disinteresse, del “sonno” degli uomini del nostro tempo nei confronti di Dio. Dovremmo però porci una domanda: e noi che cosa facciamo per risvegliarli, per scuoterli da questa inerzia? qual’è il nostro potenziale di disturbo? quale immagine di Dio siamo in grado di esibire?
Antoine de Saint-Exupéry osservava amaramente: “C’è troppa gente che lasciamo dormire”
Ora, qual’è il dono essenziale della vita cristiana nei confronti del mondo moderno? Io penso che sia il “dono della nostalgia”. Nostalgia di qualcos'altro, di un Altro.
Oltre alla macchina, al televisore, al computer, al telefonino e a una discreta collezione di idoli vari, l’uomo possiede, nelle profondità del suo essere, qualcosa di molto prezioso: il marchio di fabbrica, potremmo anche dire la cicatrice, di Dio (”E dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza). In ogni uomo esiste questo marchio, magari sepolto sotto cumuli di polvere e di sonno.
In questo caso “impedire di dormire” non significa tanto alzare la voce, quanto lasciar intravedere, essere trasparenti. Il nostro compito consiste nel fare da specchio, risvegliare quest’immagine, riportarla alla luce.
Prima di finire vorrei proporre un piccolo esercizio di fantasia. Proviamo ad immaginare che qualcuno, magari proprio questa sera, ci fermi e butti li la stessa richiesta fatta a Filippo: “Vogliamo vedere Gesù”. Riusciamo ad immaginare come ce la caveremmo?
Ma vorrei regalarvi un’altra immagine. Quando morì in un incidente d’auto, l’abbé Amédé Ayfre, il creatore della teologia dell’immagine, aveva 42 anni. La sua epigrafe più bella è stata detta, sia pure involontariamente, da un’attrice che confessò a un giornalista che la intervistava: “Che cosa volete che vi dica … quello era un uomo che quando lo incontravi, ti faceva venire voglia di Dio”
Pensiamoci un po’. Ci è mai successo di sentirci responsabili di aver fatto venire a qualcuno la voglia di Dio?
Dico che è impegnativa perché è questa l’esigenza, la richiesta più urgente, anche se spesso inconfessata, del mondo d’oggi nei confronti dei cristiani.
Sta a noi soddisfare questa pretesa legittima. Noi, i cercatori di Dio, dobbiamo essere in grado di coinvolgere anche gli altri in questa avventura entusiasmante.
La vita cristiana, o è manifestazione di Dio, oppure è accademia spirituale, catena di montaggio di opere più o meno buone, orribile chiacchiera come la definisce S. Kierkegaard. Se il Signore non ci ha deluso, proviamo a nostra volta a non deludere le attese dei fratelli.
Dobbiamo però evitare di rispondere a questa attesa nella maniera sbagliata. Maniera sbagliata è soprattutto la pretesa di insegnare Dio. “Vogliamo vedere Gesù”, ci dice il mondo, non abbiamo voglia di sentire dei discorsi intelligenti e pretenziosi sul suo conto. Dovete “mostrarcelo” non “dimostrarcelo”.
Non si insegna Dio. Bisogna raccontare Dio. Bisogna manifestare Dio, con entusiasmo, passione, competenza, stupore, e perfino ingenuità.
Succede spesso che ci lamentiamo dell’indifferenza, del disinteresse, del “sonno” degli uomini del nostro tempo nei confronti di Dio. Dovremmo però porci una domanda: e noi che cosa facciamo per risvegliarli, per scuoterli da questa inerzia? qual’è il nostro potenziale di disturbo? quale immagine di Dio siamo in grado di esibire?
Antoine de Saint-Exupéry osservava amaramente: “C’è troppa gente che lasciamo dormire”
Ora, qual’è il dono essenziale della vita cristiana nei confronti del mondo moderno? Io penso che sia il “dono della nostalgia”. Nostalgia di qualcos'altro, di un Altro.
Oltre alla macchina, al televisore, al computer, al telefonino e a una discreta collezione di idoli vari, l’uomo possiede, nelle profondità del suo essere, qualcosa di molto prezioso: il marchio di fabbrica, potremmo anche dire la cicatrice, di Dio (”E dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza). In ogni uomo esiste questo marchio, magari sepolto sotto cumuli di polvere e di sonno.
In questo caso “impedire di dormire” non significa tanto alzare la voce, quanto lasciar intravedere, essere trasparenti. Il nostro compito consiste nel fare da specchio, risvegliare quest’immagine, riportarla alla luce.
Prima di finire vorrei proporre un piccolo esercizio di fantasia. Proviamo ad immaginare che qualcuno, magari proprio questa sera, ci fermi e butti li la stessa richiesta fatta a Filippo: “Vogliamo vedere Gesù”. Riusciamo ad immaginare come ce la caveremmo?
Ma vorrei regalarvi un’altra immagine. Quando morì in un incidente d’auto, l’abbé Amédé Ayfre, il creatore della teologia dell’immagine, aveva 42 anni. La sua epigrafe più bella è stata detta, sia pure involontariamente, da un’attrice che confessò a un giornalista che la intervistava: “Che cosa volete che vi dica … quello era un uomo che quando lo incontravi, ti faceva venire voglia di Dio”
Pensiamoci un po’. Ci è mai successo di sentirci responsabili di aver fatto venire a qualcuno la voglia di Dio?
13 marzo 2015
IV DOMENICA DI QUARESIMA
"Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo ..... la luce è venuta nel mondo" (Gv 3,14-21)
Un prato ai margini di un bosco. Prima mattina. È tutto bagnato di rugiada. Sorge il sole e man mano che la luce arriva sul prato l'erba si asciuga. Solo dove la luce del sole non arriva perché oscurata dell'ombra del bosco, l'erba rimane bagnata.
Cristo è questa luce che viene ad illuminare la nostra anima, illumina i nostri peccati, ma non per rinfacciarceli, ma per farceli conoscer e farli evaporare al calore del suo amore. Perché Lui non è venuto per condannare, ma per salvare.
Solo dove non lo lasciamo illuminare non può intervenire, non può scaldare col suo amore. E la rugiada rimane. E giorno dopo giorno fa marcire l'erba.
"Spalanchiamo le porte a Cristo" (Giovanni Paolo II), lasciamo che vada dappertutto nella nostra anima, lasciamoci amare!
Un prato ai margini di un bosco. Prima mattina. È tutto bagnato di rugiada. Sorge il sole e man mano che la luce arriva sul prato l'erba si asciuga. Solo dove la luce del sole non arriva perché oscurata dell'ombra del bosco, l'erba rimane bagnata.
Cristo è questa luce che viene ad illuminare la nostra anima, illumina i nostri peccati, ma non per rinfacciarceli, ma per farceli conoscer e farli evaporare al calore del suo amore. Perché Lui non è venuto per condannare, ma per salvare.
Solo dove non lo lasciamo illuminare non può intervenire, non può scaldare col suo amore. E la rugiada rimane. E giorno dopo giorno fa marcire l'erba.
"Spalanchiamo le porte a Cristo" (Giovanni Paolo II), lasciamo che vada dappertutto nella nostra anima, lasciamoci amare!
09 marzo 2015
Alla caccia del fariseo che è in noi
In ognuno di noi c'è, più o meno nascosto, un fariseo. Ecco un piccolo, e purtroppo incompleto, identikit.
Tutti noi siamo farisei quando:
- annulliamo la Parola di Dio con le nostre tradizioni;
- ci limitiamo alla legalità;
- riduciamo la religione ad una questione di pratiche;
- pretendiamo di arrivare a Dio saltando il prossimo;
- la nostra opera di proselitismo fabbrica dei 'settari';
- ci preoccupiamo di 'sembrare' più che di 'essere';
- abbiamo l'ambizione di dominare, o quanto meno di emergere;
- ci riteniamo migliori degli altri;
- mettiamo la legge (la lettera della legge) al vertice delle nostre preoccupazioni, e non l'uomo.
I farisei non sono una categoria di persone, sono una categoria dello spirito. È un atteggiamento interiore comune, in maniera più o meno marcata, a tutti noi
Tutti noi siamo farisei quando:
- annulliamo la Parola di Dio con le nostre tradizioni;
- ci limitiamo alla legalità;
- riduciamo la religione ad una questione di pratiche;
- pretendiamo di arrivare a Dio saltando il prossimo;
- la nostra opera di proselitismo fabbrica dei 'settari';
- ci preoccupiamo di 'sembrare' più che di 'essere';
- abbiamo l'ambizione di dominare, o quanto meno di emergere;
- ci riteniamo migliori degli altri;
- mettiamo la legge (la lettera della legge) al vertice delle nostre preoccupazioni, e non l'uomo.
I farisei non sono una categoria di persone, sono una categoria dello spirito. È un atteggiamento interiore comune, in maniera più o meno marcata, a tutti noi
07 marzo 2015
III DOMENICA DI QUARESIMA
"Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi" (Gv 2,13-25)
Questo brano viene in mente spesso a chi non crede, magari quando visita Lourdes o qualche altro centro religioso molto frequentato. E non hanno del tutto torto.
Ma a me ultimamente viene in mente assieme a s.Paolo quando dice che noi siamo tempio di Dio (1Cor 3, 16-17).
Io sono tempio di Dio, e io ho lasciato entrare i mercanti, ho lasciato che questo tempio di Dio che sono io sia diventato 'una spelonca di briganti'.
Ogni volta che sono andato in chiesa per mercanteggiare col Signore per acquistare un pezzetto di Paradiso sono stato un mercante.
Ogni volta che ho pregato e implorato solo quando mi trovavo con l'acqua alla gola sono stato un mercante.
Ogni volta che ho preteso che Dio mi esaudisse quando e come volevo io, che Lui fosse a mia disposizione sono stato un mercante.
Questo tempio di Dio che sono io sarà veramente purificato quando le sue frustate avranno cacciato fuori questa mia mentalità mercantile, questo mio cercare di acquistare il Paradiso, questa mia concezione utilitaristica della religione.
Questo tempio di Dio che sono io sarà veramente purificato quando il Signore da persona religiosa mi avrà trasformato in persona di fede.
Quando da uno che ha una religione mi avrà fatto uno che vive una fede.
Questo brano viene in mente spesso a chi non crede, magari quando visita Lourdes o qualche altro centro religioso molto frequentato. E non hanno del tutto torto.
Ma a me ultimamente viene in mente assieme a s.Paolo quando dice che noi siamo tempio di Dio (1Cor 3, 16-17).
Io sono tempio di Dio, e io ho lasciato entrare i mercanti, ho lasciato che questo tempio di Dio che sono io sia diventato 'una spelonca di briganti'.
Ogni volta che sono andato in chiesa per mercanteggiare col Signore per acquistare un pezzetto di Paradiso sono stato un mercante.
Ogni volta che ho pregato e implorato solo quando mi trovavo con l'acqua alla gola sono stato un mercante.
Ogni volta che ho preteso che Dio mi esaudisse quando e come volevo io, che Lui fosse a mia disposizione sono stato un mercante.
Questo tempio di Dio che sono io sarà veramente purificato quando le sue frustate avranno cacciato fuori questa mia mentalità mercantile, questo mio cercare di acquistare il Paradiso, questa mia concezione utilitaristica della religione.
Questo tempio di Dio che sono io sarà veramente purificato quando il Signore da persona religiosa mi avrà trasformato in persona di fede.
Quando da uno che ha una religione mi avrà fatto uno che vive una fede.
01 marzo 2015
II DOMENICA DI QUARESIMA
"Non sapeva infatti che cosa dire" (Mc 9,2-10)
Quanto più bella era la vecchia traduzione: "non sapeva cosa diceva". Quanto più aderente al Pietro dei Vangeli, così passionale, generoso, istintivo.
Ma andava meglio anche per me. Quante volte, nella preghiera, nella vita, non so cosa dico? Quante preghiere non sono state esaudite (o almeno a me è sembrato così) perché non sapevo cosa dicevo?
Me se Gesù, nonostante tutte le stupidaggini fatte da Pietro, lo ha lasciato a capo della sua Chiesa, vuol dire che Lui mi ama lo stesso, mi ama così come sono. E se qualche volta a causa della mia minchioneria si è messo le mani nei capelli e ha fatto fare gli straordinari allo Spirito Santo, spero qualche volta di avergli strappato qualche sorriso.
Quanto più bella era la vecchia traduzione: "non sapeva cosa diceva". Quanto più aderente al Pietro dei Vangeli, così passionale, generoso, istintivo.
Ma andava meglio anche per me. Quante volte, nella preghiera, nella vita, non so cosa dico? Quante preghiere non sono state esaudite (o almeno a me è sembrato così) perché non sapevo cosa dicevo?
Me se Gesù, nonostante tutte le stupidaggini fatte da Pietro, lo ha lasciato a capo della sua Chiesa, vuol dire che Lui mi ama lo stesso, mi ama così come sono. E se qualche volta a causa della mia minchioneria si è messo le mani nei capelli e ha fatto fare gli straordinari allo Spirito Santo, spero qualche volta di avergli strappato qualche sorriso.
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