10 ottobre 2024

Gesù non propone la povertà, ma la comunione - 13/10/2024 - XXVIII Domenica Tempo Ordinario


 
 
C'è una grandissima differenza tra la domanda di questo tale e quella dei discepoli: «che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» dice lui, e «chi può essere salvato?» dicono loro.
Per questo tale, il paradiso è un diritto che si acquisisce se si fa qualcosa. Col Signore lui instaura un rapporto commerciale, un dare-avere per cui alla fine Dio è 'obbligato' a dargli il paradiso. È il tentativo di diventare 'padroni' di Dio, di far si che Lui si pieghi alla nostra volontà.
Invece i discepoli hanno capito che non siamo noi che 'ci salviamo', ma siamo tutti, ma proprio tutti, dei salvati. Non è la nostra più o meno grande bontà o onestà che ci salva, ma solo l'immenso amore di Dio è causa della nostra salvezza.
E la salvezza non è la ricompensa che Dio elargisce alla fine della nostra vita, ma il dono che fa gratuitamente ogni giorno a tutti quanti.
 
«va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, [...] e vieni! Seguimi!»
Troppe volte interpretiamo 'quello che hai' con i soldi, la ricchezza materiale. Ma Gesù è, come sempre, un passo più avanti. Lui ci dice: 'metti le persone prima delle cose'. Gesù non propone la povertà, ma la comunione. Se i beni hanno un senso, è quello di essere sacramenti d'incontro.
Dio ti assicura che la ricompensa non devi aspettarla un domani, ma l'hai già oggi. Dio non firma dei pagherò, lui paga in contanti e pronta cassa. La sua passione è moltiplicare per cento quel nulla che ti rimane e riempirti la vita di affetti e di fratelli.
 
Ma c'è un'altra cosa a cui ci chiede di rinunciare, ed è forse la più difficile: la nostra idea di Dio. Un Dio piazzato lassù nel cielo e intento a misurare col bilancino le nostre azioni è molto più rassicurante di un Dio che cammina per la strada in mezzo a noi, che vede i nostri cuori, conosce le nostre intenzioni. Col primo è facile sentirsi a posto: basta che io faccia un tot di buone azioni e Lui 'deve' ricompensarmi. Col secondo, con la sua unica richiesta 'ama!', non si è mai sicuri di aver fatto abbastanza. Si dipende in tutto e per tutto dal suo amore, si tratta solo di avere fiducia in Lui.
 
Se riusciamo a passare dal professare una religione al vivere una fede, allora scopriremo che seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione; è lasciare ciò che è zavorra e che ci impedisce di spiccare il volo; è scoprire che Dio è gioia, libertà e pienezza. E anche noi potremo dire:
"con gli occhi nel sole
a ogni alba io so
che rinunciare per te,
è uguale a fiorire
"
     (Marina Marcolini).
 
 

 
Letture:
Sapienza 7,7-11
Salmo 89
Ebrei 4,12-13
Marco 10,17-30
 
 

03 ottobre 2024

Il sogno di Dio - 6/10/2024 - XXVII Domenica Tempo Ordinario

 
Il sogno di Dio

 
Quella dei farisei, «è lecito o no a un marito ripudiare la moglie?», è una domanda trabocchetto. Loro conoscono bene la Legge, sanno però che esiste un conflitto tra norma e vita, sanno, anche se non se ne curano, che c'è molto dolore per le donne ripudiate. Mettono alla prova Gesù cercando di infilarlo nella strettoia tra la regola e la vita, tra il sabato e l'uomo. Si schiererà con la legge o con la persona?
 
Ma Gesù non si lascia intrappolare, risponde cercando di portarci più in alto. Ci porta subito oltre il lecito e l'illecito, oltre le strettoie di una vita immaginata come esecuzione di ordini, obbedienza a norme. Ci porta a respirare un sogno, l'aria degli inizi, prima della durezza del cuore. Ci porta al respiro di Dio, che non può essere ridotto a norma. Riparte da parole folgoranti: «non è bene che l'uomo sia solo» (Gen 2,18, prima lettura di oggi).
 
Il male originale, prima di qualsiasi peccato, è la solitudine, difatti al momento della tentazione Eva era sola. Perché non c'è nessuno che basti a se stesso, nessuno può essere felice da solo. Neanche il paradiso basta. Per questo Dio esclama «voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». 'Aiuto' è parola bellissima, ne sono pieni i salmi, sovrabbonda nelle profezie, viene gridata nel pericolo, invocata nel pianto, indica una salvezza possibile e vicina.
Eva per Adamo ed Adamo per Eva sono benedizione possibile e vicina, un 'aiuto simile', cioè una salvezza che cammina fianco a fianco, insieme con uguale dignità e uguale responsabilità. In principio, nel sogno di Dio, prima della durezza del cuore, era così. Dopo questa premessa, Gesù entra nella distanza tra il sogno di Dio e il cuore dell'uomo: "per il vostro cuore duro Mosè scrisse la legge del ripudio".
Gesù ci porta con sé a respirare l'aria dell'inizio, ad assumere il punto di vista di Dio non quello giuridico. In principio c'è il sogno che l'amore è per sempre. E nonostante la facilità a tradire, nonostante le crisi e la fatica che tante coppie incontrano nel donarsi felicità, nonostante tutto, il matrimonio rimane sacramento di salvezza possibile e vicina, salvaguardia del sogno di Dio. Ogni uomo e ogni donna che camminano insieme dovrebbero regalarsi, reciprocamente, la parola e l'esultanza con cui Dio benedice Eva: tu sei per me salvezza al mio fianco. Ogni coniuge è strumento e via di salvezza per l'altro, il matrimonio è un santificarsi a vicenda.
L'amore ti porterà a vivere due vite, cioè ad assumere la vita dell'altro come parte dolce e forte della tua storia. L'amore non è solo perdersi per l'altro, alla fine è anche pienezza, dilatarsi fino a 'diventare due', a vivere come tuoi la vita, i sogni, i deserti, la creatività, la felicità del tuo uomo, della tua donna.
«Ciò che Dio ha unito, l'uomo non separi». Gesù ci assicura che Dio ha la passione di unire, per sempre. Dio-che-unisce, questo è il suo nome. Il nome del nemico invece è sempre colui-che-separa, il Divisore, il padre della solitudine.
 
«Gli presentavano dei bambini... ma i discepoli li rimproverarono. Gesù... s'indignò». È l'unica volta, nei Vangeli, che viene attribuito a Gesù questo verbo duro. L'indignazione è un sentimento grave e potente, proprio dei profeti davanti all'ingiustizia o all'idolatria.
I bambini non sono più buoni degli adulti, sono anche egocentrici, impulsivi e istintivi. Però sanno aprire facilmente il cuore ad ogni incontro, non hanno maschere, sono spalancati verso il mondo e la vita.
I bambini sono maestri nell'arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, si fidano della vita, credono nell'amore.
 

 
L'amore non è già fatto, si fa

Non è un vestito già confezionato,
ma stoffa da tagliare, preparare e cucire.
Non è un appartamento chiavi in mano,
ma una casa da concepire, costruire, conservare e, spesso, riparare.
Non è una vetta conquistata,
ma scalate appassionanti e cadute dolorose.
Non è un solido ancoraggio nel porto della felicità,
ma è un levar l'ancora, è un viaggio in pieno mare.
Non è un sì trionfale che si segna fra i sorrisi e gli applausi,
ma è una moltitudine di "sì" che punteggiano la vita,
tra una moltitudine di "no" che si cancellano strada facendo.
Non è l'apparizione improvvisa di una nuova vita,
perfetta fin dalla nascita,
ma sgorgare di sorgente e lungo tragitto di fiume
dai molteplici meandri, qualche volte in secca,
altre volte traboccante,
ma sempre in cammino verso il mare infinito.

Michel Quoist
 
 

 
Letture:
Genesi 2,18-24
Salmo 127
Ebrei 2,9-11
Marco 10,2-16
 
 

26 settembre 2024

Tutti siamo 'uno' in Gesù Cristo - 29/9/2024 - XXVI Domenica Tempo Ordinario

 
Non mano tagliata, ma mano protesa per offrire un bicchiere d'acqua
Foto di engin akyurt su Unsplash

 
«Abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Quell'uomo (che per loro era solo 'uno' cioè un numero, non una persona), anche se capace di miracoli, di lotta vittoriosa contro il male, viene bloccato.
E notiamo che è Giovanni che parla, il discepolo prediletto. Uno dei due "Figli del tuono" (Mc 3, 17) qui si dimostra figlio di un cuore piccolo, rattrappito. Ai dodici, perché Giovanni qui è solo il portavoce, non importa che un uomo sia liberato dalla morsa del demonio. Prima viene la difesa del gruppo, del movimento, del partito. L'istituzione viene prima della persona. L'indemoniato può aspettare. È così che impoveriamo il mondo.
 
"Non è lecito guarire di sabato!" intimeranno gli scribi e i farisei a Gesù. E troppo spesso anche noi ascoltiamo il fariseo che è dentro di noi e che urla "la legge viene prima della salvezza". Non importa se un malato ritrova il sorriso, il sole, la speranza. Per i tanti farisei che ci sono ancora oggi, e che a volte sono anche dentro di noi, conta solo la regola astratta, e la vita, o si adegua o deve farsi da parte, scomparire, annegare nel Mediterraneo. È così che impoveriamo Dio.
 
La risposta di Gesù è di quelle che, se si incarnano nella nostra vita, possono segnare una svolta della storia: gli uomini sono tutti 'dei nostri', come noi siamo di tutti. Prima di tutto l'uomo. Tutti siamo 'uniti' in Gesù Cristo. E si può essere di Cristo anche senza appartenere alla sua istituzione, perché la Chiesa è sì strumento del Regno, ma non coincide con il Regno di Dio, che ha ben altri confini.
«Fossero tutti profeti» esclama Mosè nella prima lettura. Fuori dall'accampamento, eppure profeti. E profezia è lasciarsi colpire dal grido dei mietitori defraudati (Gc 5,4 seconda lettura di oggi).
Il compito dei discepoli non è di classificare l'altro, decidere se è dentro o fuori, ma di ascoltarlo. Profeta è chi ascolta il soffio dello Spirito, che non sai da dove viene, che non conosce la polvere degli scaffali, delle frasi già fatte, delle musiche già sentite. Ascoltare la sinfonia del sorriso di un bambino, dello scorrere delle lacrime di un anziano: anche questa è profezia.
Ma l'annuncio di Gesù è ancora più coraggioso: passa dal semplice non sentirti estraneo al gettarti dentro. Dentro il grido dei mietitori, dentro lo Spirito dei profeti. Ti porta a vivere molte vite, molte storie di altri come fossero la tua. 'Ti darò cento fratelli' ha detto Gesù, cento cuori su cui riposare, cento labbra da dissetare, cento volti da accarezzare, cento mani che ti accarezzeranno.
 
Il Vangelo termina con parole dure: "Se la tua mano..., se il tuo piede..., se il tuo occhio ti scandalizzano, tagliali, gettali via". Gesù ripete un aggettivo: il tuo occhio, la tua mano, il tuo piede.
Non dare sempre la colpa del male agli altri, alla società, all'infanzia, alle circostanze. Il male si è annidato anche dentro di te: è anche nel tuo occhio, nella tua mano, nel tuo cuore. Cerca il tuo mistero d'ombra, esponilo alla luce di Dio e lascia che Lui lo converta.
La soluzione non è una mano tagliata, ma una mano convertita. Non protesa per afferrare, ma per offrire un bicchiere d'acqua; non chiusa a pugno per colpire e allontanare, ma aperta per abbracciare.
 
 

 
Letture:
Numeri 11,25-29
Salmo 18
Giacomo 5,1-6
Marco 9,38-43.45.47-48
 
 

19 settembre 2024

Cercare il primo posto nell'accoglienza dell'altro - 22/9/2024 - XXV Domenica Tempo Ordinario

immagine presa da evangeli.net



«Sedutosi, chiamò i Dodici». Sedersi è l'atteggiamento tipico del maestro, e il chiamare a sé vuole sottolineare che quello che sta per dire è un insegnamento fondamentale.
Gesù, a partire dalla discussione sulle precedenze, intende indicare un altro ordine delle cose.
«Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti».
Nessun altro testo parallelo del vangelo riferisce in questa forma l'antitesi presentata da Marco: primo-ultimo. E l'esempio più significativo ce l'hanno sotto gli occhi: Gesù è il primo che si è fatto ultimo e servo.

E ancora: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me».
Qui viene sottolineata l'elevata dignità del bambino. Teniamo presente che la condizione dei bambini, nella società ebrea del tempo di Gesù, era ben diversa dalla nostra. Secondo la mentalità ebraica, i figli erano sì accolti come una benedizione di Dio per la famiglia (soprattutto i maschi), però non è che i bambini godessero di particolari diritti e privilegi. Venivano considerati più per il loro numero e la loro utilità che per la loro importanza singola. Ragionando con la nostra mentalità diremmo che avevano tanti doveri e nessun diritto. Quindi, nelle parole di Gesù, il bambino indica le realtà più insignificanti agli occhi degli uomini, tutto ciò che non ha importanza, che non conta, che non è degno di attenzione, tutti coloro che si trovano in una situazione di inferiorità. Gesù si identifica con chi è 'irrilevante', non ha prestigio, è debole, indifeso, bisognoso di assistenza.
L'attenzione del discepolo, che prima era concentrata sulle precedenze e sulla grandezza, viene spostata sull'esigenza di accogliere qualcuno che è 'grande' perché oggetto di attenzione da parte di Dio, anche se viene disprezzato dagli uomini.

Come al solito, Gesù non risolve le nostre discussioni, non si immischia nelle nostre ridicole questioni, Lui sposta il problema su un altro piano. Parte dalle precedenze, ma capovolge i termini della questione. Quasi a dire: fate bene a occuparvi di precedenze. Soltanto che le precedenze non riguardano la vostra persona, ma gli altri. Cercate, quindi, di stabilire chi ha diritto di precedenza nella vostra ospitalità.
È giusto parlare di primi posti. Ma dovete chiarirvi chi deve occupare il primo posto nella vostra attenzione. È più che legittima la domanda su chi è grande, ma state attenti ad onorare e ad amare i grandi secondo Dio: ossia coloro che sono piccoli e nei quali Lui si identifica.
Cercate pure il primo posto, ma deve essere il primo posto per accogliere chi viene rifiutato dagli altri, per ricevere coloro di cui nessuno si interessa. "Accogliendo costoro, accogliete me. E, accogliendo me, accogliete il Padre che mi ha mandato".

Gesù non abolisce le gerarchie, anzi le prolunga oltre le nostre vedute. Ci insegna però a valutarle... dal fondo. Non ci chiede di abolirle, ci chiede di 'rovesciarle'.
Ancora una volta ci rivela che è il nostro punto di vista ad essere sbagliato. Ci preoccupiamo di noi stessi, della nostra grandezza. E ci ostiniamo a misurarla col solito metro.
Lui ci invita a buttare via quel metro. Ci ricorda che dal momento che Dio è sceso sulla terra, la nostra pretesa di 'innalzarci' è veramente ridicola.

Il problema non è quello di essere grandi, ma di 'fare spazio'. La nostra importanza dipende dalle persone 'senza importanza' che accogliamo.
Sei grande non se occupi un posto di riguardo, ma se nella tua vita c'è posto per chi è privo di grandezza.
Sei rispettabile nella misura in cui dimostri rispetto e amore verso quelli che non sono ancora riusciti ad ottenerne.
Possiamo anche dire: le precedenze non si stabiliscono a tavolino. Vengono guadagnate da chi non se ne occupa, perché impegnato a tenere aperta la porta di casa per quelli che, altrimenti, rischiano di rimanere fuori.

Una piccola curiosità. Secondo una tradizione, il bambino di cui si parla in questa pagina sarebbe diventato in seguito il vescovo e martire sant'Ignazio di Antiochia, che si firmava sempre col nome di Teoforo. L'identificazione è avvenuta giocando su questo nome greco: da 'portatore di Dio' (il significato di Teoforo) è diventato 'portato da Dio'.




Letture:
Sapienza 2,12.17-20
Salmo 53
Giacomo 3,16-4,3
Marco 9,30-37


12 settembre 2024

Gesù cerca il rapporto personale - 15/9/2024 - XXIV Domenica Tempo Ordinario

Gesù e gli Apostoli
Duccio di Buoninsegna
Maestà del Duomo di Siena (Museo dell'Opera del Duomo)



Sono uno di quelli che studiato per la Comunione e la Cresima sul catechismo di san Pio X, quello con le domande e le risposte da studiare a memoria e guai a sbagliare una parola o una virgola! C'era una sola risposta giusta e tutte le altre erano sbagliate, ma soprattutto c'erano solo quelle domande, non si poteva farne di diverse.

Anche Gesù pone delle domande. Ma non cerca il compitino ben fatto, la risposta imparata a memoria. Anche la prima domanda, che pare quasi da sondaggio di opinione, da ricerca su Google, in realtà serve proprio a far uscire i discepoli dalle risposte preconfezionate.
Gesù chiede ai suoi discepoli di uscire dalla mentalità del 'compitino ben fatto'. Proprio per questo immediatamente dopo chiede: «Voi, chi dite che io sia?». Dalla domanda teorica, con riposta studiata a tavolino consultando i testi e i documenti (infatti nella risposta vengono citati tutti personaggi del passato più o meno remoto), Gesù passa al rapporto personale discepolo-Maestro. A Gesù non interessa il passato, interessa solamente il momento presente. Ma soprattutto a Gesù interessa il rapporto personale: "Chi sono io, Gesù di Nazareth, per te?"
Gesù non cerca parole formalmente corrette ma parole fortemente sentite, non cerca definizioni ma coinvolgimenti. Gesù cerca relazioni, cerca un 'tu ed io'. Un 'faccia a faccia', o meglio un 'cuore a cuore'. Le sue non sono domande da insegnante o da giudice. Le sue sono domande da innamorato!
Gesù vuole sapere se anche Pietro, se anche gli apostoli sono innamorati di Lui. E vuole sapere se anche noi, qui ed ora, siamo innamorati di Lui. Ma non lo fa per giudicarci, ma perché possiamo prendere coscienza del nostro e del suo amore.
Con le sue domande Gesù vuol farci capire che il Cristianesimo non è né una dottrina né una morale. Il Cristianesimo è un rapporto, una relazione amorosa con Gesù.

Pietro dice a Gesù: «Tu sei il Cristo», che vuol dire: "Tu sei veramente il Messia che aspettavamo", una professione di fede bella e buona e, decisamente, ardita. Riconoscendo nel falegname, nella persona «mite e umile di cuore» (Mt 11,29) con cui ha un rapporto di amicizia da pari a pari, l'inviato di Dio, Pietro fa un salto di qualità determinante nella sua storia, un riconoscimento che gli cambierà la vita.

Ma sapere chi è Gesù significa accettare una svolta nella propria vita, accettare di incamminarsi insieme a Lui lungo una strada su cui si allunga l'ombra di una croce.
E allora ci rendiamo conto che con quella domanda Gesù non vuole sapere come la pensiamo, ma vuole farci prendere coscienza se siamo disposti ad accompagnarlo fino in fondo.
È per questo che c'è l'ordine del silenzio. Le parole ricominceranno a partire dal Calvario e dalla luce della mattina di Pasqua. È solo a quella luce, avvolti dall'amore divino, che possiamo attraversare l'ombra delle nostre croci quotidiane.




Letture:
Isaia 50,5-9
Salmo 114
Giacomo 2,14-18
Marco 8,27-35


05 settembre 2024

Effatà, apriti! - 8/9/2024 - XXIII Domenica Tempo Ordinario




Per cinque domeniche, fino a due domeniche fa, abbiamo sospeso la lettura del vangelo di Marco per leggere il sesto capitolo di quello di Giovanni. C'è nel quarto vangelo una caratteristica che ci può aiutare a capire il brano di oggi: l'evangelista Giovanni non parla mai di miracoli, parla di 'segni'. Il miracolo della guarigione del sordomuto è il segno di quello che Dio vorrebbe donare a questa umanità infantile e immatura, incapace di ascoltare e dialogare. Non castighi, 'fulmini e saette', ma con amore prenderci da parte, cuore a cuore, per 'guarirci', per aprirci le orecchie, sbloccarci la lingua, ma soprattutto trasformare il nostro cuore di pietra in un cuore di carne (cfr. Ez 11,19).

Tutto parte dalla capacità di ascolto: 'sordo' ha la stessa radice di 'assurdo'. Chi non sa ascoltare è entrato nell'assurdo, ed esce dall'assurdo chi impara ad ascoltare.
Penso alle mie sordità, al mio 'ascoltare' pensando ad altro, penso all'insignificanza delle mie parole. E la causa è che non so ascoltare chi è appena fuori del mio spazio vitale, dall'ambito della famiglia o delle amicizie; oppure ascolto distrattamente, sperando solo che l'altro finisca in fretta, perché ho cose più intelligenti da dire, osservazioni più profonde, idee più importanti. È così la parola si fa dura, ma soprattutto vuota. "Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell'ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore" (Dietrich Bonhoeffer). Troppo spesso anche nella preghiera sono come il fariseo nel tempio: 'Io, Signore, io e i miei digiuni, io e le decime, io..., io...'.
Chi non sa ascoltare finisce per perdere la parola, perché le sue parole non riescono più a toccare il cuore dell'altro, gli passano sopra senza neanche scompigliargli i capelli. Si può guarire dalla sordità e dall'afasia solo lasciando che il Signore sostituisca il nostro cuore di pietra, chiuso in sé stesso, con un cuore di carne aperto all'ascolto.
È ciò che fa Gesù: porta in disparte il sordomuto, lo tocca con le sue dita, con il segno intimo e vitale della saliva. Prima gli orecchi: sa parlare solo chi sa ascoltare. Primo servizio da rendere a Dio e all'uomo è l'ascolto (shemà Israel - Ascolta Israele: è la parte più importante del servizio liturgico di preghiera nell'ebraismo e recitarlo due volte al giorno è un precetto). Senza ascolto non c'è parola vera.
Ma Gesù continua a fare lo stesso anche con noi: ci tocca in ogni gioia e in ogni prova, ci tocca in ogni fratello che ci viene incontro, nei poveri senza voce, negli anziani soli che nessuno ascolta più. Ci tocca e ci restituisce il dono di ascoltare e di 'parlare correttamente', che non è eloquenza, ma capacità di comunicare, capacità di trovare parole che toccano il nervo della vita, parole che hanno il gusto dell'amicizia e il calore di una carezza.

Gesù ci ripete: «Effatà, che vuol dire 'Apriti!'»
Apriti come si apre la porta all'amico, la finestra al sole, le braccia all'amore. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, che possono diventare fessure attraverso le quali passa il vento della vita, il soffio dello Spirito. Il primo passo per guarire è abbandonare le chiusure, le rigidità, i blocchi. È aprirsi, uscire dalla solitudine, dove ti sembra di essere al sicuro, ma invece è pericolosa, mortale. Se rimani chiuso in te, non potrai mai scoprire "un Dio che gioisce e ride con l'uomo davanti ai caldi giochi del sole o del mare" (Pier Paolo Pasolini)

«E comandò loro di non dirlo a nessuno». Per Gesù è più importante la gioia del sordomuto, che la sua gratitudine. La felicità dell'uomo conta più della sua fedeltà.
Da notare che del beneficiato non viene registrata neppure una parola. Si tratta di una cosa stupenda, una delle 'azioni di grazia' più straordinarie: quell'uomo adesso ha la possibilità di parlare, e lo dimostra tacendo. Gli è stata restituita la parola e comincia col silenzio. Per parlare bisogna avere qualcosa da dire, ma per fare silenzio occorre avere un mistero da adorare.
Quanti miracolati del Vangelo sembrano scomparire nel nulla, persi nell'ebrezza della loro felicità. Invece, in silenzio stanno fecondando il mondo con una nuova capacità di vere relazioni.




Letture:
Isaia 35,4-7
Salmo 145
Giacomo 2,1-5
Marco 7,31-37


29 agosto 2024

Il cuore felice della vita - 1/9/2024 - XXII Domenica Tempo Ordinario

... col cuore in mano
(foto di Tim Marshall su Unsplash)



Gesù viveva per le strade, incontrava le persone là dov'erano e con loro attraversava i momenti della festa e della gioia, ma soprattutto quelli della malattia e della sofferenza: quando arrivava gli portavano i malati, i ciechi lo chiamavano, donne sofferenti cercavano di toccargli almeno l'orlo del mantello, molti speravano che almeno la sua ombra passasse, come una carezza, sulla loro umanità sofferente. E quanti lo toccavano venivano salvati (Mc 6,56).
Gesù veniva da tutto questo, portando negli occhi e nel cuore il dolore dei corpi e delle anime, insieme all'esultanza dei guariti, alla gioia dei perdonati. Ora farisei e scribi lo provocano su delle piccolezze: tradizioni, mani lavate, lavaggio di stoviglie, formalismi vuoti! Si capisce come la replica di Gesù sia decisa e insieme piena di sofferenza: "Ipocriti! Voi avete il cuore lontano! Lontano da Dio e dall'uomo".

È questa la sofferenza di Dio: il cuore dei figli lontano, assente, altrove. È il lamento di Dio. Nella prima lettura, aveva lanciato la sua sfida per bocca di Mosè: «Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi?» Ad un Dio vicino, sta di fronte un cuore lontano. Ecco il dramma della storia sacra. Mentre il Padre si fa vicino, i figli si allontanano da casa.
Il cuore lontano porta alla falsa religione: emozionarsi per le folle oceaniche ai raduni religiosi, ma non saper pregare; amare la liturgia con la sua musica, i fiori, l'incenso, i marmi antichi, ma non "soccorrere il dolore di orfani e vedove" (vedi la seconda lettura di oggi); volere segni esterni e citazioni verbali del cristianesimo, ma neanche pensarsi di viverlo.

Più di novecento volte nella Bibbia compare il termine 'cuore'. Ma non come semplice simbolo dei sentimenti o dell'affettività, bensì come il centro della persona, il luogo dove nascono le azioni e i sogni, dove si sceglie la vita o la morte, dove si distingue tra vero e falso, dove Dio seduce ancora e fa ardere il suo fuoco come a Emmaus: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via?» (Lc 24, 32).

Ma il ritorno al cuore non basta. Ci guardiamo dentro e vi troviamo di tutto, cose stupende ma anche cose delle quali ci vergogniamo: dal cuore vengono le intenzioni cattive, prostituzioni, omicidi, adulteri, malvagità... un elenco impressionante di dodici cose cattive, che rendono impura la vita. C'è bisogno di purificare la sorgente, di evangelizzare le nostre zone di durezza e di egoismo, lasciarci raggiungere dallo sguardo di Gesù: il suo sguardo di perdono sulla donna adultera, su Maria Maddalena, su Pietro pentito. Sentire su di noi il suo sguardo che trasforma, che ci fa abbandonare il peccato passato e ci apre a un futuro nuovo, migliore. Non sono le pratiche esteriori che purificano: lavare le mani o le stoviglie è facilissimo, molto più difficile è lavare le intenzioni!

"Tutta la vita è un pellegrinaggio verso il luogo del cuore" (Olivier Clément).
Per fare questo pellegrinaggio occorre andare a scuola dalla donna del cuore, cioè Maria, la madre di Gesù, che, come sottolinea Luca, custodisce, conserva e medita nel cuore le parole, gli eventi e i silenzi di Dio. È necessario molto cuore per ascoltare i silenzi di Dio.
Occorre lo sguardo di Gesù. Allora cadono le sovrastrutture, le esteriorità, le disquisizioni vuote, tutto ciò che è cascame culturale, "tradizione di uomini". Che aria di libertà con Gesù! Apri il Vangelo e il soffio dello Spirito è ombra di una perenne freschezza, è vento creatore che ti rigenera, che ti apre a sempre nuovi cammini. Perché con Cristo torni al cuore felice della vita.




Letture:
Deuteronomio 4,1-2.6-8
Salmo 14
Giacomo 1,17-18.21-22.27
Marco 7,1-8.14-15.21-23


22 agosto 2024

Da chi andremo? - 25/8/2024 - XXI Domenica Tempo Ordinario




«Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?»
Non sempre il Vangelo è un balsamo sulle nostre ferite della vita, una carezza che ci dona gioia, un abbraccio che ci ridona forza. A volte è parola dura, pugno nello stomaco, sgambetto che fa crollare le nostre certezze.
È quello che capita ai discepoli in questo brano. Loro, come noi, hanno capito benissimo il discorso di Gesù. L'hanno compreso talmente bene che ... non vorrebbero sentirlo. È un discorso difficile, insopportabile, inaccettabile, perché troppo lontano dalla loro/nostra mentalità, dalla loro/nostra idea di Dio e di Messia. Quindi la crisi serpeggia anche nella cerchia dei discepoli, e tra quei discepoli ci siamo tante volte anche noi.

Gesù offre la chiave per superare lo scandalo. Una chiave che è fatta di tre elementi:
1 - Ricorda la sua origine divina. Lui è il Maestro che è disceso dal cielo, ed è colui che risalirà da dove è venuto.
2 - «È lo Spirito che dà vita, la carne non giova a nulla». È soltanto nello Spirito e non attraverso gli strumenti dell'intelligenza umana che si possono capire le parole di Gesù. E lo Spirito viene dato, offerto, non conquistato o comprato.
3 - La vera causa dell'incomprensione è la mancanza di fede. «Ci sono tra voi alcuni che non credono».
Ci si può illudere di credere, possiamo 'credere di credere'. È una cosa che può capitare a tutti, nessuno escluso.
Gesù ci rivela, impietosamente, la nostra povertà di fede.
Il paradosso sta proprio qui: prima di tutto si tratta di credere, solo allora si capisce meglio. Invece noi abbiamo la pretesa di veder chiaro per poter credere.
È vero l'opposto: prima si crede, ci si abbandona totalmente a Lui, ci si fida, ci si decide, ci si compromette per Lui, e poi si comincia a veder chiaro. Con Dio è sempre così: già nel deserto, prima gli ebrei hanno detto «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» e 'dopo' Dio ha donato, sul Sinai, la Legge e il Decalogo (cfr Es 19).

«Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui»
Di fronte all'abbandono di molti, Gesù non fa nulla per trattenerli. Non riduce le sue pretese. Non minimizza le sue richieste. Non li rassicura, non gli dice 'Non avete capito bene ... Non volevo dire questo ...'. Sembra quasi che faccia di tutto per scoraggiarli.
Con le sue parole, Gesù ci costringe a prendere posizione, a fare una scelta precisa. Con lui non si possono adottare posizioni intermedie o di compromesso. Non esistono le mezze misure. O stare con Lui o separarsi da Lui: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12, 30; Lc 11, 23)

«Volete andarvene anche voi?» In tempo di crisi, Gesù non procede alla svendita del prodotto. Niente saldi di fine stagione, niente 'notti bianche' (anzi, con Lui ci sarà la notte nera del Getsemani).
Gioca al rialzo, preferisce rimanere solo piuttosto che mercanteggiare sulle cose essenziali.

Ed è a questo punto che Pietro fa la sua confessione di fede a nome dei Dodici: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna». Non dice "dove andremo?", ma "da chi andremo?". Perché il grosso problema non è andarsene, il grosso problema è da 'chi' andare.
La fedeltà non è una questione di andare o restare, la vera fedeltà è una persona, con la quale ci si lega per camminare insieme, per andare nella stessa direzione. È sapere che non posso vivere e svilupparmi se non con quel rapporto che mi impegna con quella persona.
E quella persona è Cristo.
Credere non significa sottoscrivere una lista di verità. Credere significa aderire a una Persona, fare di questa Persona il centro, il senso della propria vita. Cristo non è un elemento accessorio della nostra esistenza. È il «pane vivo», il nutrimento indispensabile.
La fedeltà a Lui non va subita, ma vissuta gioiosamente, perché legarsi a Lui in un rapporto di fede e di amore non significa rimanere incatenati, ma significa essere sovranamente liberi, sempre in cammino, stupendamente aperti a tutte le sorprese e novità.
La libertà che Cristo mi offre fa si che io interiorizzi le mie scelte e le ripulisca dalle incrostazioni delle convenienze, delle paure, delle abitudini.
La libertà che Cristo mi offre fa si che nel mezzo della nera notte del Getsemani io sappia sempre che sorgerà il sole splendente dell'infinito giorno della Risurrezione.




Letture:
Giosuè 24,1-2.15-17.18
Salmo 33
Efesini 5,21-32
Giovanni 6,60-69


15 agosto 2024

Dio si dona a me - 18/8/2024 - XX Domenica Tempo Ordinario

pane e vino, carne e sangue



In questo breve Vangelo di solo otto versetti, Gesù per otto volte ci parla di un Dio che si dona: "Prendete la mia carne e mangiate". Per otto volte, Gesù insiste sul perché mangiare la sua carne: per vivere, ma vivere davvero. Una cosa è vivere, altro è solo sopravvivere. È incalzante Gesù nella sua certezza di possedere il segreto che cambia la direzione, il senso, il sapore della vita.

"Chi mangia la mia carne ha la vita eterna". Con il verbo al presente: "ha", non "avrà". La vita eterna è una vita libera e autentica, che si rialza dalle cadute, che non si arrende alle difficoltà, ma soprattutto che fa cose che meritano di non morire. Una vita come quella di Gesù, capace di amare come nessuno.
Sangue e carne sono parole che indicano la piena umanità di Gesù, la sua carne e il suo sangue, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, la sua storia e le sue lacrime, le sue passioni e i suoi abbracci, i piedi intrisi di nardo, la casa che si riempie di profumo e di amicizia. E qui c'è una sorpresa, una cosa inimmaginabile: Gesù non dice 'prendete su di voi la mia sapienza, mangiate la mia santità, il sublime che è in me'. Dice: 'prendete la mia umanità, il mio modo di abitare la terra e di vivere le relazioni come lievito delle vostre relazioni. Nutritevi del mio modo di essere umano, come un bimbo che è ancora nel grembo della madre si nutre del suo sangue'.

Gesù sta parlando del sacramento della sua esistenza: mangiate e bevete ogni goccia e ogni fibra di me. Vuole che nelle nostre vene scorra il flusso della sua vita, che nel nostro cuore metta radici il suo coraggio perché ci incamminiamo a vivere l'esistenza umana come l'ha vissuta lui. Per questo si è fatto uomo, perché l'uomo si faccia come Dio (Ireneo di Lione). Allora mangiare e bere Cristo significa prenderlo come misura. Non 'andare a fare la Comunione' ma 'farci noi sacramento di comunione'. Il movimento fondamentale non è il nostro andare fino a lui, ma è Lui che viene fino a noi. Lui felice di vedermi arrivare, che mi dice: 'sono contento che tu sia qui'. Io posso solo accoglierlo stupito.
Prima che io abbia fame, Lui ha detto 'Prendi e mangia', mi ha cercato, mi ha atteso e infine si dona a me.

Qui emerge il genio del cristianesimo: non un Dio che chiede offerte, doni, sacrifici, ma un Dio che si offre, sacrifica, dona, si perde dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo. Mangiare e bere Cristo significa diventare luce da luce, Dio da Dio, della stessa sua sostanza.

Gesù ha scelto il pane come simbolo dell'intera sua vita perché per arrivare ad essere pane c'è un lungo percorso da compiere, un lavoro tenace in cui si tolgono cortecce e gusci perché appaia il buono nascosto di ogni cuore: spiga dentro la paglia, chicco dentro la spiga, farina dentro il chicco.
Il percorso del pane è quello di coloro che amano senza badare alle fatiche. Semini il grano nella terra, marcisce, dice il Vangelo, e nascono le foglioline. A gennaio le foglioline tremano mentre si alzano sopra la neve. Ma per diventare pane devono salire. A giugno la spiga gonfia si piega verso la terra, viene la mietitura. Poi la battitura, la macina, il fuoco, tutti passaggi duri per il chicco. A cosa serve tutto questo? Serve a purificarci il cuore. Dio sa che dentro di noi c'è del buono, vuole soffiare via la pula perché appaia il chicco, togliere la crusca perché appaia la farina. Vuole portare alla luce il buono di ciascuno di noi.
Cristo si fa pane perché ognuno di noi, prima di morire, possa diventare pane per qualcuno, un pezzo di pane che sappia di buono per le persone che ama.
Cristo si fa vino perché ognuno di noi possa diventare goccia di sangue, che è il simbolo di tutto quanto abbiamo di buono, di caldo e di vivo, e che offriamo a chi amiamo, e ancor di più a chi ha bisogno di essere amato.
Dio è pane in cammino verso la mia fame, è vino in cammino vero la mia sete.

Sapermi cercato nonostante tutte le mie distrazioni,
nonostante questa mia vita superficiale,
nonostante le risposte che non riesco a dare,
sapere che io sono il desiderio di Dio, è tutta la mia forza, tutta la mia pace.




Letture:
Proverbi 9,1-6
Salmo 33
Efesini 5,15-20
Giovanni 6,51-58


08 agosto 2024

Profumo di pane, profumo di Dio - 11/8/2024 - XIX Domenica Tempo Ordinario




Domenica scorsa abbiamo visto come i 'ricercatori' di Gesù, dinanzi alla promessa di un pane «che dura per la vita eterna», non trovano di meglio che riferirsi a Mosè e alla manna. Gesù accetta il paragone, come punto di partenza. Ma ne rivela anche l'insufficienza. La manna è soltanto immagine e profezia del "pane del cielo", quello vero. L'aggettivo "vero", nel linguaggio di Giovanni, serve a indicare la verità definitiva, ultima, il dono completo di cui i doni e le realtà dell'Antica Alleanza erano soltanto pallidi annunci.
Già il Deuteronomio (Dt 8, 2-3) e il libro della Sapienza (Sap 16,20.26) spiegano in prospettiva futura l'episodio della manna nell'Esodo. Il miracolo dell'Esodo serve a introdurre al vero, grande miracolo che si realizza ora. Il vero pane del cielo non l'ha dato Mosè, lo dona Dio ora: «Io sono il pane disceso dal cielo».
Teniamo presente che la manna sta a indicare il cibo primordiale, ossia tutto ciò di cui l'uomo ha bisogno. Di fatto Dio, nel deserto, ha offerto al suo popolo non soltanto il cibo materiale, ma anche la sua Parola, la Legge, l'Alleanza.
Ora è arrivato il dono definitivo, completo: «lo sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia».
Gesù è il dono ultimo, definitivo, del Padre.
È il dono del "pane".
Gesù è tutto ciò di cui l'uomo ha bisogno. Nel dono che è Gesù si colmano le esigenze più profonde dell'uomo.
Cristo è la Parola definitiva di Dio. Tutto ciò che Dio aveva da dire all'uomo, l'ha detto in Cristo. All'infuori di Lui e dopo di Lui non c'è da aspettarsi nessun'altra rivelazione. Gesù, la Parola fatta carne, è in grado di saziare la fame di infinito che sta nel nostro cuore.

A questo punto, c'è da fare un'osservazione.
Il grande e lungo discorso del pane di vita abitualmente viene letto esclusivamente in chiave eucaristica. In realtà, l'Eucarestia non costituisce il tema principale, almeno della prima parte del discorso.
Soltanto a partire dal v. 51 (l'ultimo del brano di oggi) l'Eucarestia diventa il nucleo essenziale delle parole di Gesù. Prima il "pane della vita" è la persona stessa di Gesù. Lui, infatti, è la Parola che si è fatta carne.
Semplificando possiamo dire che prima Gesù si presenta come pane della vita attraverso la sua Parola, poi, nella seconda sezione, Gesù è il pane della vita attraverso la sua carne.
Quindi abbiamo dapprima la mensa della Parola, poi la mensa eucaristica propriamente detta, ma il tutto ad un'unica tavola: quella del pane.

I Giudei tuttavia, non si arrendono: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?»
Ecco ancora una volta l'incapacità radicale a riconoscere che il pane della vita, quello vero, che rappresenta il nutrimento eterno e che scende dal cielo, ci viene offerto 'nascosto' nell'apparente banalità del quotidiano.
È l'Incarnazione che ci fa scandalo.
L'uomo prova una difficoltà quasi insormontabile nel riconoscere un Dio che si manifesta nelle cose ordinarie, nelle realtà comuni, che si 'fa segno' attraverso il quotidiano.
Facciamo molta fatica a ricordarci che con l'Incarnazione del Cristo, il quotidiano diventa sacramento della presenza di Dio e sacramento della nostra presenza a Dio.
Gli avvenimenti di cui Dio si serve per rivelarsi sono i piccoli fatti della vita ordinaria. Le solite cose, le solite occupazioni, il solito orario ci portano il Dio che vuole incontrarci là dove siamo, in quello che facciamo, nel contesto della nostra esistenza di tutti i giorni.
Non dobbiamo andare a cercare Dio altrove. Lui si fa trovare nelle occasioni più comuni, in uno stile dimesso, secondo il cerimoniale dei nostri gesti ordinari, nel sapore di un boccone di pane condiviso.
Perché è da dentro di noi che Dio viene a salvarci, e non è una notizia da poco per l'uomo che "ha trovato un Dio che si cala nell'abisso del nulla dell'uomo. E che da lì lo fa risalire" (Charles Péguy).
La forza è tutta di Dio: si chiama Grazia. E, come dice il suo nome, è gratuita: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato». Non si diventa cristiani per una somma di dottrine imparate a memoria, per una somma smisurata di sforzi di volontà. Si diventa cristiani per attrazione.
Dio sceglie l'attrazione, non la forza, le catene, l'imposizione.
L'attrazione ha un'unica necessità: che la libertà dell'uomo vada incontro alla Grazia di Dio. È necessario che la libertà dell'uomo accetti di lasciarsi incontrare dall'amore di Dio. Un Dio buono come il pane, sottomesso alla libertà delle sue creature.
È (di)sceso dal cielo, Lui che non era per nulla obbligato a farlo, per regalare all'uomo la sua eterna giovinezza.
E cerca di attrarci col profumo del pane fresco, appena sfornato, col Suo profumo.




Il profumo del pane e il viandante

Farina, acqua, lievito e sale;
sale il profumo del pane nell'aria;
aria che respiro dal forno infuocato;
infuocato è il mio pensiero;
pensiero rivolto a te viandante;
viandante della vita che passa;
passa da me amico triste;
triste è il giorno e felice sarà;
sarà ora della tua figura;
figura da vivere senza paura.


Sergio Camellini



Letture:
1 Re 19,4-8
Salmo 33
Efesini 4,30-5,2
Giovanni 6,41-51