La parabola del buon grano e della zizzania non è una parabola facile. Non è
facile perché ci riesce difficile accettare che il bene e il male, il giusto
e lo sbagliato, siano così intimamente intrecciati al punto che spesso è difficile distinguerli, difficile separarli.
Questa parabola mette in luce il nostro desiderio di giudicare, di
fare a fette, di sradicare, di condannare, di escludere. Di preservare il bene
allontanando, magari a calci, il male.
Gesù invece ci ricorda che Dio, il grano e la zizzania li ha pensati proprio così: devono crescere insieme! Ma per noi tante volte questo è difficile da
accettare, e allora accusiamo Dio di essere troppo indulgente, di
essere un debole.
Ma Dio non è debole perché indulgente. Dio invece è forte proprio perché
indulgente. "Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta
indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere", con queste parole l'autore del libro della Sapienza ha aperto la strada
al messaggio evangelico di Gesù, un messaggio che rende il Regno dei Cieli
il luogo della speranza e non della disperazione, dell'accoglienza e non
dell'esclusione, della normale convivenza tra bene e male e non della
settaria divisione tra buoni e cattivi.
E se vogliamo capire qualcosa di più di questo Regno dei Cieli, allora
iniziamo col capire che non è un Regno che ragiona con la logica dei Regni
di questo mondo, che si impongono con la potenza delle armi e del denaro,
con la violenza e la divisione. Il Regno dei Cieli si impone con la logica
del granello di senape, una cosa insignificante e inutile agli occhi degli
uomini, come un arbusto selvatico che spunta in un orto, eppure la sua forza
sta nel farsi trasportare in ogni angolo del mondo dal soffio dello Spirito,
capace di dare riparo, ristoro e protezione agli uomini.
Ma questa parabola è anche un racconto di sguardi: lo sguardo dei servi,
che si fissano sulle erbacce, sulla zizzania, e lo sguardo di Dio, che
invece si fissa sul buon grano. In fondo è questo l'invito della parabola: acquistare lo sguardo di Dio. Solo così posso capire che molto spesso, quello che frettolosamente avevo
classificato come zizzania, in realtà era un germe di tenerezza, di
dolcezza, di partecipazione, bastava dargli il tempo che gli era necessario,
bastava dare un po' di fiducia, bastava scavare un po' di più in
profondità.
Ma se questo è importante nel rapporto con gli altri, lo è anche nel
rapporto con noi stessi: siamo chiamati a scoprire e a conoscere ciò che di
bello, di buono, di vitale, di promettente Dio ha seminato in noi.
Di fronte a quella parte di noi pronta a strappare, a sradicare, a
separare, siamo invitati ad assumere l'atteggiamento di Dio che è fatto di
pazienza, di mitezza, di fiducia. Non è a strappi che cresciamo e facciamo
crescere, ma, come dice la prima lettura, giudicando con mitezza,
governando con indulgenza, amando, infondendo dolce speranza, concedendo
la possibilità di pentirsi. Cioè, come dice il testo originale ebraico,
"rendendo gli occhi dei figli pieni di speranza". Gesù questo ce lo ha insegnato con la sua vita: il Regno splende in
quel seme di luce seminato in Zaccheo, nel ladrone pentito, nella donna
adultera, nel pubblicano Matteo, nel figlio che allontanatosi da casa ha
dilapidato tutte le sue sostanze.
È proprio uno sguardo diverso quello di Dio: è uno sguardo che ama la vita,
che protegge ogni germoglio, che è indulgente con tutte le creature. È uno
sguardo che vede sempre delle possibilità, che vede il futuro, non il
passato.
Possa essere questo il nostro sguardo: uno sguardo che sappia cogliere le
possibilità di bene che abitano in ogni essere umano.
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