01 febbraio 2022

Parola sovraccarica

Martin Buber

 

Qualche tempo fa fui ospite di un nobile pensatore anziano.
Lo avevo conosciuto in occasione di un congresso in cui egli teneva una conferenza sulla scuola popolare ed io parlavo sulle università popolari; ci avvicinò il fatto che entrambi concepivamo la parola «popolo» in un senso ampio, complesso.

Allora ero rimasto felicemente sorpreso quando l'uomo dai capelli ricciuti e grigi, all'inizio del suo discorso, ci aveva esortato a dimenticare tutto ciò che credevamo di aver appreso sulla sua filosofia dai suoi libri; negli ultimi anni – erano stati anni di guerra – la realtà gli si era tanto avvicinata da indurlo a rivedere e conseguentemente a ripensare ogni cosa.

Essere vecchio è una cosa meravigliosa, se non si dimentica che cosa significhi incominciare; quell'anziano signore l'aveva probabilmente imparato solo nella vecchiaia; egli non cercava di apparire giovane, dimostrava l'età che aveva, ma in modo giovanile, aperto.
Viveva in una città universitaria. Abitai presso di lui quando fui invitato da un gruppo di teologi di quella università a parlare sulla profezia. Nella sua casa regnava uno spirito buono: lo spirito che vuole andare nella vita, senza prescrivere alla vita dove deve farlo entrare.

Un mattino mi alzai presto per leggere le bozze della prefazione di un mio libro, ricevute la sera precedente; poiché si trattava di una specie di autoconfessione, desideravo rileggerla attentamente prima di darla alle stampe.
Scesi nello studio che mi era stato offerto come luogo di lavoro, se ne avessi avuto bisogno, e vi trovai già seduto alla scrivania l'anziano signore. Dopo il saluto mi domandò subito dello scritto che avevo in mano e, saputone il contenuto, mi chiese se ero disposto a leggerlo ad alta voce.
Accettai volentieri. Egli ascoltò gentilmente anche se con meraviglia e alla fine con evidente stupore.

Quando ebbi terminato egli intervenne, dapprima esitante e poi sempre più appassionatamente, trascinato dall'argomento che gli stava a cuore e disse: «Come fa a pronunciare tante volte la parola Dio? Come può aspettarsi che i lettori accolgano questo nome nel modo in cui lo vorrebbe saper inteso? Quel che intende lei con questa parola è al di sopra di ogni capacità umana di afferrare e di comprendere, proprio questo essere al di sopra lei vuole indicare; ma, pronunciando questa parola, la lascia in balia dell'uomo. Quale altra parola del linguaggio umano fu così maltrattata, macchiata e deturpata? Tutto il sangue innocente, che venne versato in suo nome, le ha tolto il suo splendore. Tutte le ingiustizie che fu costretta a coprire hanno offuscato la sua chiarezza. Qualche volta sentire nominare l'Altissimo col nome di Dio mi sembra un'imprecazione».

Gli occhi chiari come quelli di un bambino lampeggiavano. La voce stessa era infiammata. Poi, per un po', ci sedemmo di fronte in silenzio. La stanza era inondata dalla chiarezza del primo mattino. Mi sembrava che con la luce entrasse in me una forza. Non posso riferire esattamente ciò che risposi, posso soltanto accennare al discorso di allora.

Sì – risposi – è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun'altra è stata tanto insudiciata e lacerata. Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l'hanno schiacciata al suolo; ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli.
Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue.

Dove potrei trovare una parola che gli assomigliasse per indicare l'Altissimo? Se prendessi il concetto più puro e più splendido della tesoreria più riposta dei filosofi, vi potrei trovare soltanto una pallida idea ma non la presenza di colui che intendo, di colui che generazioni di uomini con le loro innumerevoli vite e morti hanno onorato e denigrato. Intendo parlare di quell'Essere a cui si rivolge l'umanità straziata ed esultante.

Certamente essi disegnano caricature e scrivono sotto Dio; si uccidono a vicenda e lo fanno in nome di Dio. Ma quando scompare ogni illusione e ogni inganno, quando gli stanno di fronte nella oscurità più profonda e non dicono più Egli, Egli, ma sospirano Tu, Tu, ed implorano Tu, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono Dio, non invocano forse il vero Dio, l'unico vivente, il Dio delle creature umane?
Non è forse lui che li ode? Che li esaudisce?

La parola Dio non è forse proprio per questo la parola dell'invocazione, la parola divenuta nome, consacrata per tutti i tempi in tutte le lingue umane?
Dobbiamo stimare coloro che la interdicono, perché essi si oppongono al torto e al sopruso che così spesso fanno appello a Dio per giustificarsi; ma non dobbiamo abbandonarla.

Si possono comprendere coloro che propongono di non parlare più per un certo periodo delle cose ultime per redimere le parole di cui si è abusato. Ma in tal modo non si possono redimere. Non possiamo lavare di tutte le macchie la parola Dio e nemmeno lasciarla integra; possiamo però sollevarla da terra e, macchiata e lacera com'è, innalzarla sopra un'ora di grande dolore.

La stanza si era fatta molto chiara. La luce non fluiva più, c'era.
L'anziano signore si alzò, mi pose la mano sulla spalla e disse: «Vogliamo darci del tu?».
Il colloquio era finito. Poiché dove due sono veramente uniti, lo sono nel nome di Dio.

(Martin Buber, L'eclissi di Dio, pp. 20-23, Oscar Mondadori 1990)

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