28 settembre 2023

Due figli che sono uno solo - 1/10/2023 - XXVI Domenica Tempo Ordinario




Come sempre, quando Gesù parla di due figli, non vuole indicare due persone diverse, ma due tendenze che sono presenti nel cuore di ognuno di noi.
Il fatto è che non abbiamo quella qualità, peraltro difficile da ottenere e soprattutto da mantenere, che i padri del deserto chiamavano 'cuore indiviso', cioè un cuore che sia centrato su di unico obiettivo e non si lasci distrarre da niente altro.
Noi invece siamo presi da tante cose. A tutti noi capita di dire no, ma poi di ripensarci e fare, o di dire di si e poi dimenticarci di fare. Capita di abbandonare Dio ma poi sentirne la nostalgia e tornare a casa, o di arrabbiarsi col padre perché fa festa per chi è tornato.
Anche a noi capita, come a san Paolo, di fare il male che non vogliamo, e di non riuscire a fare il bene che vorremmo (Rm 7,18-25). Tante volete anche per noi vale la frase che Goethe fa dire a Faust 'Ah, due anime abitano nel mio petto'.

Ma Dio non si arrabbia per questo, anzi, come un genitore davanti ad un figlio che fa fatica a capire, cerca il modo migliore di spiegare come fare. Gli indica una strada e lo rassicura che sarà sempre con lui per sorreggerlo e accompagnarlo. E la strada è quella della ricerca di avere un cuore semplice (Sap 1, 1), di pregare il Signore ce ne faccia dono (Sal 86, 11). La strada è quella del primo figlio che si pentì e andò a lavorare.

Letteralmente Matteo dice che questo figlio 'si convertì', cioè cambiò il suo sguardo. Pensando a quanto detto domenica scorsa, abbandonò 'l'occhio cattivo'. Cioè vide in modo nuovo la vigna, il padre, l'obbedienza.
La vigna non è più la vigna del padre, ma è la 'nostra' vigna, quella del padre, del figlio e di chiunque venga a lavorarci.
Il padre non è più un padrone a cui sottostare, ma il vignaiolo che chiede aiuto per preparare il vino per la festa di tutta la casa.
Ed ecco che il cuore, liberato da vincoli e imposizioni, si ricompone, si unifica. Perché non si può lavorare o amare bene per imposizione, ma solo per libera scelta.

Il nodo della questione sta proprio nel fare la volontà del padre. Ma occorre capire bene quale sia questa volontà. Dio non vuole dei figli che siano dei servi ossequienti, dei burattini che si muovono a comando. Lui vuole dei figli liberi e adulti, che si alleino con lui per la fecondità del creato, che cerchino di portare più vita e più bellezza nella realtà in cui vivono.
Dio non vuole obbedienza, ma fecondità. Non ci chiede sottomissione, ma che lo aiutiamo a portare nel mondo frutti abbondanti, grappoli gonfi di vino per la festa senza fine.

Il Vangelo di oggi si chiude con parole di speranza, con promesse di vita.
Dio ha sempre fiducia in ogni suo figlio o figlia. Nei pubblicani, nelle prostitute, e anche in noi, nonostante i nostri errori, i nostri ritardi nel dire sì. Dio crede in noi, sempre.
Forte di questa certezza, posso anch'io cominciare ogni giorno la mia conversione verso un Dio che non è dovere, ma amore e libertà.
Assieme a Lui e a tutti i fratelli, vendemmieremo grappoli abbondanti, dolci di rugiada e di sole, anticipo di festa e di gioia senza fine.


(Letture:
Ezechiele 18,25-28; Salmo 24; Filippesi 2,1-11; Matteo 21,28-32)


21 settembre 2023

Non scandalizzarsi della generosità di Dio - 24/09/2023 - XXV Domenica Tempo Ordinario

Vigna dopo la vendemmia
(foto J.C.)



Questo è un brano ricco di significati, proviamo a vederne alcuni.

- Essere chiamati a lavorare dal Signore è grazia, è dono. Al Signore, poi, non importa quanto e come abbiamo lavorato. Per Lui conta solo che noi abbiamo accettato di lavorare nella sua vigna.

- Il dono principale non è il denaro che viene pagato. Il Signore dona molto di più: restituisce la dignità! A persone che provavano la vergogna di apparire scansafatiche anche se non volevano esserlo proprio per niente, che vivevano l'umiliazione di essere padri senza stipendio, che erano spolpati della pur minima dignità, il Signore ha donato la dignità di poter tornare a casa a testa alta, l'orgoglio di poter dire ai figli che quel giorno c'era da mangiare per tutti.

- Dio è un padrone "insolito". La sua priorità non è dare lavoro a tutti, ma aprire a tutti la sua vigna. Più che lavoratori cerca partecipanti alla festa del raccolto. Per questo va per le strade ad ogni ora del giorno a chiamare tutti. L'unica condizione che pone è che dicano di sì.

- Proprio per questo non conta 'l'anzianità di servizio'. Non è questione di quanto si è lavorato, ma di intensità, disinteresse, modo di essere, disponibilità a rispondere alla voce del Signore quando si fa sentire. Gli piacciono gli 'operai' che si fidano di Lui, quelli che evitano, perché non gli passa neanche per la testa, di mercanteggiare.

Per questo può sembrare un padrone ingiusto. E umanamente parlando lo è. Perché la giustizia umana è dare a ciascuno quello che si merita. Ma la giustizia di Dio è dare a ciascuno il meglio. E questa apparente ingiustizia ci porta al punto centrale della parabola, a quella constatazione un po' amara del padrone: «sei invidioso perché io sono buono?»
'Invidioso' è la traduzione di un termine che letteralmente significa 'avere occhio cattivo'. In fondo la parabola ci dice che possiamo essere buoni lavoratori, ma essere malati di 'occhio cattivo'. Troppo spesso è più facile accettare la severità di Dio che la sua misericordia. La prova principale è proprio questa: sei capace di accettare la bontà del Signore, di non brontolare quando perdona, quando dimentica le offese, quando è paziente, quando è generoso con chi ha sbagliato? Sei capace di perdonare a Dio la sua 'ingiustizia'?
Siamo capaci di partecipare alla festa del Signore, o anche noi, come il fratello 'obbediente' del figliol prodigo, ci rifiutiamo di entrare?
Il nostro guaio è l'invidia, l'occhio cattivo, la nostra incapacità di gioire quando Dio fa festa per chi, secondo noi, non se lo merita. Dimentichiamo che il primo santo, l'unico canonizzato direttamente da Gesù, era il ladrone appeso alla croce accanto.
L'infinita misericordia di Dio ha un solo nemico: l'occhio cattivo.



Concedimi, Signore, di essere
lavoratore contento della vigna,
di aver servito il Vangelo,
operaio di non so quale ora
ma che non si aspetta ricompensa alcuna.

Lieto solo di aver lavorato alla tua vigna,
per grappoli profumati,
per un vino nuovo,
per una terra più bella.
Contento di essere primo al lavoro
e contento per il denaro degli ultimi.

Ti prego, Signore,
concedimi uno sguardo buono
e poi di imparare a godere della tua bontà.
Tu sei la mia vita,
la mia ricompensa,
il mio frammento d'oro.

Ti dispiace che io sia buono?
mi domandi.
No, Signore, non mi dispiace
perché sono l'ultimo della fila
e tutto è grazia.
Ermes Ronchi
(il grassetto è mio)



(Letture:
Isaia 55,6-9; Salmo 144; Filippesi 1,20-24.27; Matteo 20,1-16)


14 settembre 2023

Dio è colui che perdona - 17/09/2023 - XXIV Domenica Tempo Ordinario




Sono tante le qualità di Dio: può tutto, sa ogni cosa, è misericordioso, è giusto, è padre (e anche madre), è amore, e via dicendo.
Pensando alla raccomandazione di Gesù ad essere «perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt. 5, 48), noi cerchiamo, come possiamo, come riusciamo, con tutti i nostri limiti e difetti, di vivere queste qualità. Ma ce n'è una che ci risulta di estrema difficoltà: perdonare.
Dio è colui che perdona. Il perdono è proprio una delle caratteristiche di Dio. Umanamente parlando il perdono è una follia, una debolezza.

Gesù ci spiega, con questa parabola, le particolarità del perdono di Dio.
Innanzi tutto è del tutto gratuito, è realmente e fino in fondo 'per dono'. È un dono del tutto immeritato e immotivato. Dio non ci perdona perché ci siamo pentiti (anzi, è il suo perdono accolto che suscita il mio pentimento), perché gli chiediamo scusa, perché il nostro errore è piccolo, ecc.. Lui ci perdona per il semplice fatto che siamo esseri umani, sue creature, suoi figli, ed egli ci ama. È questa l'unica causa del suo perdono.
Difatti perdona per primo un debito enorme, impossibile da restituire (10.000 talenti erano pari a circa tutto il gettito della tassazione annuale del regno d'Israele).

L'altra caratteristica del perdono divino è che, come tutti i doni di Dio, per essere efficace, per durare e aumentare nel tempo, dobbiamo condividerlo. Scoprirci perdonati non ci deve far pensare che siamo dei privilegiati, migliori degli altri. Saperci perdonati ci deve insegnare a perdonare. Se non doniamo il perdono ricevuto, finiamo per perderlo.

Con questa parabola Gesù sembra suggerirci che per essere felici sempre bisogna perdonare. La vendetta, il 'fargliela pagare' ci dà al massimo una soddisfazione momentanea, solo il perdono ci dona una pace e una serenità senza fine.
Come scriveva un ragazzo napoletano alla fine di un tema: "Perdono non perché loro meritano il perdono, ma perché io merito la pace"
Il perdono fa bene prima di tutto a noi stessi.





Cercando spunti per questo commento, ho ritrovato un mio vecchio post. Non so dove ho preso questo testo (troppo bello per essere mio) e non avevo indicato la fonte, mi spiace. Ve lo ripropongo (sperando che qualcuno sappia chi l'ha scritto):

Con l'Incarnazione Dio ci dice:
"Accetta il mio perdono. È il mio regalo per te.
Ti perdono tutto.
Ti perdono tutte le volte che nei tuoi fratelli hai visto dei nemici, tutte le volte che li hai sfruttati, umiliati, schiacciati per il tuo interesse.
Ti perdono tutte le cose che anche tu fai fatica a perdonarti, tutte le cose che neanche tu ti perdoni.
Ti perdono tutte le volte che mi hai usato per il tuo egoismo, tutte le volte che hai usato il mio nome per uccidere, tutte le volte che ti sei fatto scudo di me per andare contro gli altri uomini.
Ti perdono tutte le volte che hai rovinato, deturpato, distrutto quel gioiello che è la Terra e che ti avevo affidato perché tu la rendessi ancora più bella.
Ti perdono tutto, ma proprio tutto.
Accogli il mio perdono, per piacere.
E dopo cerca anche tu di perdonare.
Perdona i tuoi fratelli, perdona gli altri esseri umani, sono deboli e impauriti come te.
Perdona te stesso. Perdonati di non riuscire ad essere dappertutto, perdonati di non riuscire a fare tutto, perdonati di non riuscire a prevedere tutto, perdonati di fare scelte che poi si rivelano sbagliate. Perdonati, te ne prego!
E alla fine perdona anche me. Perdonami per tutte le volte che ti sei sentito abbandonato da me, perdonami per tutte le volte ti sei sentito condannato da me, perdonami per tutte le volte che non ti sei sentito amato da me.
"


(Letture: Siracide 27,33-28,9; Salmo 102; Romani 14,7-9; Matteo 18,21-35)


07 settembre 2023

Guadagnare un fratello - 10/9/2023 - XXIII Domenica Tempo Ordinario

Altare della
chiesa della Riconciliazione (Taizé - Francia)
(foto J.C.)



Dopo il discorso programmatico sul monte, dopo il discorso in parabole, col brano di oggi Gesù inizia il 'discorso comunitario' che affronta i problemi della vita di una comunità cristiana.

«Se il tuo fratello...» Tutto deve partire da qui: siamo fratelli. All'interno di una comunità che cerca di essere cristiana c'è un'uguaglianza fondamentale, una pari dignità. Le differenze sono nei ruoli, nelle funzioni, no nel valore delle persone. E questi fratelli non sono perfetti, non sono privi di difetti e mancanze. La Chiesa è santa, ma formata da peccatori. È da questa realtà che nasce l'esigenza della 'correzione fraterna'.

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va'...». Ecco la cosa straordinaria! Andare! Non rimanere fermi nel rancore e nelle proprie ragioni.
Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamarlo all'ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare. 
Un qualcosa ha rotto il 'noi', allora non bisogna stare fermi, ma bisogna far in modo di 'guadagnare il fratello'. La riconciliazione è sempre un guadagno, mai una perdita. Si tratta di rinunciare a qualcosa per guadagnare molto di più. L'una o l'altra parte si devono muovere, e Gesù, sempre coraggioso e provocatorio, dice che è proprio la parte 'offesa' a doversi muovere per prima.

Punto di arrivo è: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Cioè la consapevolezza che una comunità di credenti si regge non sugli sforzi personali del singolo, ma sul nome di Gesù. È il mettere al centro della comunità non la propria persona, il proprio senso di giustizia, il proprio onore, ma sempre e solo Gesù che permette a una comunità di superare tutti i conflitti.

E in questo cammino di riconciliazione, tra il punto di partenza e quello di arrivo, c'è una strada da seguire, ed è quello che Paolo ci indica nella seconda lettura: «La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità».
Ma oltre alla carità, è necessaria anche l'umiltà. Umiltà che si traduce nell'abbandonare qualsiasi atteggiamento di superiorità. Chi ha sbagliato deve sentire che chi lo ammonisce sa di essere peccatore quanto e più di lui, sa di condividere la stessa fragilità e miseria. Non: "Guarda che cosa hai fatto!", ma: "Guarda che cosa siamo stati capaci di fare...".

E se una frattura tra due persone della comunità diventa insanabile? Dobbiamo fare come Gesù, che ha vissuto e ci ha detto di "amare i propri nemici". Gesù amava tutti, la sua famiglia, i suoi amici, ma amava anche i più lontani e li amava per primo anche senza ricevere il contraccambio. Ecco cosa significa "sia per te come il pagano e il pubblicano": anche se non riesci più a sentire l'altro come fratello, almeno amalo come farebbe Gesù, cioè sempre e comunque.


(Ez 33,1.7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20)