Sono molti gli spunti di questo brano del Vangelo, ma vorrei metterne in evidenza alcuni.
«vedendo le folle, ne sentì compassione»
Matteo nel Vangelo usa l'espressione "avere compassione" cinque volte, e in questo passo la mette a motivo della missione data agli apostoli. La missione della Chiesa nasce dalla compassione di Dio per gli esseri umani, essere cristiani significa essere ministri della tenerezza di Dio.
Ma la compassione non è un vago sentimento, è un servizio da compiere. La compassione è amore che interviene nelle miserie, di qualunque tipo, dell'umanità.
E il primo passo verso la compassione è indicato da quel "vedendo le folle". Occorre 'vedere', cioè ascoltare, capire, interpretare le esigenze profonde, guardare negli occhi le persone "stanche e sfinite".
«come pecore che non hanno pastore»
Ma gli ebrei i 'pastori' li avevano: i sacerdoti, gli scribi, i farisei. Ma per Gesù questi pastori hanno fallito il loro compito. Sono pastori rigidi, senza misericordia.
Trascurare la misericordia vuol dire ignorare la volontà di Dio, e quindi essere dei cattivi pastori. Agli occhi di Gesù, avere dei pastori che non hanno capito il primato della bontà, il primato della persona sulla legge, è come essere un gregge senza pastori.
Quindi gli apostoli, cioè la Chiesa, devono distinguersi per una testimonianza di dolcezza.
Dolcezza in parole e in atti. Non dovrà essere una semplice proclamazione della Parola. Si devono anche produrre segni che il Regno è vicino, che la compassione di Dio è all'opera. E anche se i segni indicati da Gesù sono dei miracoli, non dobbiamo dimenticare che anche i segni più modesti, più ordinari, i gesti all'insegna dell'umanità e della solidarietà possono 'parlare' del Regno e rendere credibili le nostre parole.
Ciò che conta non è il segno straordinario, ma il segno autentico.
«I nomi dei dodici apostoli sono ...»
È un po' la foto ricordo della Chiesa.
La prima cosa che colpisce è la grossa diversità dei chiamati. Vicino ad un impiegato del fisco legato ai romani (Matteo) abbiamo un 'partigiano' (Simone il Cananeo) aderente al movimento degli Zeloti, che cercavano la liberazione della Palestina anche attraverso la lotta armata. In pratica un collaborazionista accanto ad un guerrigliero. Almeno uno, Pietro, era sposato. Ci sono le 'teste calde' di Giacomo e Giovanni. Insomma, un gruppetto molto eterogeneo.
In questo elenco spicca la notazione su Giuda Iscariota: «colui che poi lo tradì». È un particolare presente in tutti e quattro i Vangeli. Questo ci dice innanzi tutto che la Chiesa non dovrebbe avere la mentalità de 'i panni sporchi si lavano in famiglia', che in realtà si tramuta nel non lavarli ma semplicemente nasconderli e dimenticarsene.
Gli Apostoli non si vergognano della compagnia, non si sentono un 'undici + Giuda'. Loro sono dodici, e Giuda è uno di loro.
Questa fotografia ci ricorda innanzi tutto che la chiamata di Gesù, da un punto di vista umano, è totalmente immotivata. I motivi della chiamata non vanno cercati nelle qualità o nelle virtù degli apostoli, ma unicamente nell'amore gratuito di Dio.
Ma la presenza di Giuda ci ricorda ciò che potremmo essere anche noi. La parte di Giuda non è una parte assegnata in anticipo, ma è una possibilità: la possibilità di non rispondere all'amore. La presenza di quel nome mi ricorda che io posso essere fedele o infedele.
Il male non può essere sistemato in confini che separano gli uomini. Non è una linea netta che separa chi sta da una parte e chi dall'altra. È una linea che attraversa il cuore degli esseri umani, di tutti, anche del mio. Non esiste nessuno che sia totalmente da una parte o dall'altra.
Perciò non dovremmo cedere alla tentazione di cercare il Giuda fuori di noi. Preso da questa voglia, finisco per non accorgermi del Giuda che cresce silenziosamente dentro di me.
In fondo il peccato più grande non sta tanto nel tradire Gesù, Pietro l'ha tradito ben tre volte, quanto nel non credere nella misericordia di Dio.
(Es 19,2-6; Sal 99; Rm 5,6-11; Mt 9,36-10,8)