30 ottobre 2025

Siamo chiamati alla gioia - 2/11/2025 - Commemorazione di tutti i fedeli defunti (Messa I)

Danza Macabra

Hrastovlje (SLO)


 
(Pensieri sulla Commemorazione dei defunti)
 
Oggi la liturgia non ci ricorda la morte, ma ci apre alla speranza della risurrezione. Ci ricorda che le lacrime verranno asciugate dalla mano di Dio (Ap 7,17 e 21,4). Non è memoria della separazione, ma profezia di futuro, di nuova comunione.
 
Marta dice a Gesù «Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21). È quello che spesso pensiamo anche noi: se Dio esiste, perché tanta sofferenza, perché tanti morti innocenti? "Se Tu sei qui, i miei cari non moriranno..." Ma Dio è qui! Sempre. Ma non come esenzione dalla morte. Gesù non ha mai promesso che non saremmo morti. Per lui il bene più grande non è un infinito sopravvivere. Per Gesù l'essenziale non è non morire, ma vivere, e vivere una vita risorta.
L'eternità entra in noi con i piccoli e gradi gesti d'amore quotidiani. Il Signore ci insegna a temere più una vita vuota, senza amore e quindi inutile, che non la morte.
 
La vita eterna è la cosa più grandiosa che Gesù ha preparato per noi. «Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Né angeli né demoni, né vita né morte, nulla ci potrà mai separare dall'amore di Dio» (Rom 8,35-37). Questa certezza mi basta. Se Dio è amore e vita, vendicherà la mia morte. E la sua vendetta è la mia risurrezione, cioè un amore mai più separato né da Lui, né dai miei fratelli e sorelle, né da tutto ciò che ho amato e da chi mi ha amato.
Dio è il Salvatore e 'salvare' significa conservare, quindi nulla andrà perduto: non un affetto, non un bicchiere d'acqua fresca, non il più piccolo sorriso né la più piccola carezza.
In una preghiera eucaristica (Preghiera Eucaristica III) c'è questa bellissima invocazione per i defunti: "Ammettili a godere la luce del tuo volto". I verbi della fede (adorare, lodare...) lasciano spazio ad un verbo umile ed umanissimo: 'godere'. La ragione cede alla gioia, la fede al godimento. Dio, nella sua più intima essenza, non risponde al nostro bisogno di spiegazioni, ma al nostro bisogno di felicità. Siamo chiamati alla gioia.
L'esperienza umana ci dice che tutto va dalla vita verso la morte. La fede cristiana dichiara invece che si va dalla morte alla vita.
"Quando arriveremo sul limitare della luce che conosciamo e saremo sul punto di fare un passo nella tenebra dell'ignoto, possiamo avere almeno una certezza: o Dio ci darà qualcosa di solido su cui poggiare i piedi, o ci insegnerà a volare" (Carolyn Brown).
 
 

 
Letture Messa I:
Giobbe 19,1.23-27
Salmo 26
Romani 5,5-11
Giovanni 6,37-40
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,37-40)

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno».
 
 

23 ottobre 2025

Sentire la necessità di Dio - 26/10/2025 - XXX Domenica tempo ordinario

 
Il fariseo e il pubblicano
Julius Schnorr von Carolsfeld

 
Il brano del Vangelo di oggi viene immediatamente dopo quello di domenica scorsa, e se prima Gesù parlava della necessità di una preghiera fiduciosa e insistente, adesso ci dice qual è l'atteggiamento da tenere nella preghiera. E lo fa con una storia 'esemplare' che si svolge nella cornice sacra del tempio, cioè nella casa di Dio, e usa la tecnica del contrasto tra i due personaggi.
 
Da una parte, in prima fila, abbiamo il fariseo, la persona pia per antonomasia, il fedele con la 'F' maiuscola. Difatti prega nella posizione giusta secondo le norme giudaiche: in piedi, a testa alta, le braccia sollevate al cielo. Anche il suo inizio è perfetto, difatti attacca con la preghiera più bella, quella di ringraziamento e di lode.
Ma subito dopo tutto il teatrino che ha messo in piedi crolla miseramente. Anche se i suoi occhi sono rivolti al cielo, il suo sguardo è concentrato solo su sé stesso.
La sua è una preghiera atea, perché il fariseo è talmente pieno di sé che nel suo animo non c'è il minimo spazio per Dio. Come fa notare Rinaldo Fabris "Dio è la copertura di un io ricco che strumentalizza il rapporto religioso per la propria esaltazione. L'uomo che si nasconde dietro questa preghiera non aspetta nulla da Dio, non ha nulla da chiedere, egli fa solo mostra di sé, dei suoi diritti, del suo credito davanti a Dio".
Il fariseo si è messo davanti ad uno specchio e ha chiamato 'dio' l'immagine che ha visto. Difatti in tutto il suo discorso ha usato sempre e soltanto la prima persona singolare. Per lui non c'è altra persona che non sia egli stesso.
 
E dall'altra parte, in fondo al tempio, c'è il pubblicano. Per i devoti è il peccatore per definizione, fa un mestiere infamante, è sinonimo di ladro, truffatore, collaborazionista con l'occupante romano.
Lui se ne sta in disparte. Non alza gli occhi al cielo, non alza le mani verso l'alto. Invece le usa per battersi il petto.
Ma il suo discorso è tutto alla seconda persona singolare. Anche se ha gli occhi bassi, il suo sguardo è rivolto al 'tu' di Dio. Lui si aspetta tutto dal Signore, riconosce di essere peccatore, di non avere neanche scusanti. Ma sa anche che per non esserlo più ha necessità dalla misericordia di Dio. Non ha niente da offrire, e quindi si aspetta tutto da Dio. Non critica gli altri per sentirsi, almeno un po', meno peccatore. Lui conta unicamente sulla grazia del Signore.
 
La differenza tra i due è che il fariseo si serve di Dio per essere ammirato. Il pubblicano ha necessità di Dio per ripartire, per ricominciare.
Il pubblicano è tornato a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo (Dio non si merita, neanche con l'umiltà), ma perché si apre ad un Dio più grande del suo peccato. Si apre alla misericordia («anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore» cfr. 1Gv 3,20), a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.
 
 

 
Letture:
Siracide 35,15-17.20-22
Salmo 33
2Timoteo 4,6-8.16-18
Luca 18,9-14
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo". Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me peccatore".
Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
 
 

16 ottobre 2025

Non dobbiamo avere paura della nostra debolezza - 19/10/2025 - XXIX Domenica tempo ordinario

 
La parabola dela vedova e del giudice ingiusto
(particolare)
Affresco del Palazzo delle Faccette
(Mosca 1882)

 
Una parabola un po' sconcertante.
 
C'è una vedova, immagine della debolezza disarmata che, a pensarci bene, deve lottare contro due avversari: il contendente e il magistrato. Si direbbe proprio l'emblema di tutti coloro che si trovano schiacciati dal potere e dalla prepotenza dell'egoismo.
 
Poi c'è il giudice. Un persona senza un briciolo di umanità, senza un minimo di coscienza né di senso della giustizia. Esattamente l'opposto del Padre giusto e misericordioso, pieno d'amore e tenerezza, di cui ci parla sempre Gesù.
 
La lezione della parabola è questa: la debolezza ha prevalso sulla forza. Non dobbiamo scoraggiarci per la nostra impotenza, lasciarci impressionare dalle difficoltà 'insormontabili'. Mi viene in mente san Paolo: «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Non dobbiamo avere paura della nostra debolezza.
Perché la nostra debolezza non è sola nella lotta contro la prepotenza, l'ingiustizia, ma è una debolezza (la nostra) alleata un'altra debolezza (quella dell'amore di Dio).
Dio, che sembrava assente dalla parabola, è presente a fianco della vedova: è Lui che la sostiene nelle sue suppliche, che la sorregge nelle fatiche, che le alimenta la speranza. Dio ama la nostra insistenza, gradisce le nostre richieste ribadite. Desidera essere importunato. Se lo facciamo ne è contento, non indispettito come il giudice.
Purché tutto gli arrivi attraverso il canale della fede.
 
«Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»
La parabola si chiude con questa domanda inquietante.
Ritorna il tema di due domeniche fa: la fede. Avere la fede che Gesù spera di trovare vuol dire avere con Lui una relazione, "farsi portare", lasciarsi guidare perché si è sicuri del suo amore.
Ma i tempi di Dio non sono i nostri.
Anche quando Dio ha fretta di esaudirci, può capitare che la nostra fede non sia più una relazione da cuore a cuore (anche con momenti di tensione, con litigi, ma sempre con la sicurezza di essere amati), ma che sia già spenta, ridotta a parole e gesti da ripetere per abitudine.
Se abbiamo interrotto il canale-fede, tante risposte non arrivano a destinazione perché ci passano accanto ma non le vediamo.
 
 

 
Letture:
Esodo 17,8-13
Salmo 120
2Timoteo 3,14-4,2
Luca 18,1-8
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,1-8)

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario".
Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi"».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
 
 

09 ottobre 2025

Tutto dev'essere rendimento di grazie - 12/10/2025 - XXVIII Domenica tempo ordinario

Guarigione dei dieci lebbrosi
miniatura dal Codex Aureus (1035-1040 circa)
Norimberga (Germania)

 
 
Dieci lebbrosi, e quindi esclusi dalla comunità, che si fidano della parola di Gesù «a distanza», e si incamminano per andarsi a presentare dai sacerdoti, incaricati ufficialmente di controllare l'avvenuta guarigione. E lungo la strada si accorgono della sparizione della malattia.
Ma uno solo, un Samaritano (per gli ebrei un rinnegato, un eretico), sente il bisogno di tornare indietro "per lodare Dio e ringraziare Gesù". Uno solo mostra riconoscenza, cioè 'riconosce' che ciò che gli è capitato è dono. Gli altri, probabilmente perché appartenenti al popolo eletto, ritengono normale la loro guarigione, quasi una cosa dovuta.
 
Gesù apprezza l'uomo che mostra gratitudine, che non dà nulla per scontato. Che sa aprirsi allo stupore, alla sorpresa, e quindi al ringraziamento.
Può essere facile ringraziare Dio quando otteniamo una grazia eccezionale, di fronte a un evento straordinario, ma la riconoscenza non scatta quasi mai di fronte alle cose che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno, alla presenza dei miracoli offerti dall'esistenza quotidiana. Li consideriamo diritti acquisiti, cose scontate; non sappiamo più coglierli come eventi straordinari pur nella loro banalità ordinaria.
Lo scrittore G.K. Chesterton osservava, con amara ironia, che "ogni anno ringraziamo commossi la Befana per i doni che ci mette nella calza appesa al camino, ma dimentichiamo di ringraziare Colui che, ogni giorno, ci dà un paio di gambe da infilare nelle calze".
Ci è mai successo, al mattino, di dire grazie al Signore per il nuovo giorno? Il sole che sorge viene considerato qualcosa che va da sé. Non lo sappiamo cogliere nel suo aspetto di 'evento straordinario' e, soprattutto, di dono. Dobbiamo convincerci che 'tutto è grazia'. Niente ci è dovuto, nulla è meritato. E se tutto è grazia, tutto dev'essere rendimento di grazie.
Se ogni cosa viene da Dio gratuitamente, tutto deve ritornare a Lui attraverso la lode e la meraviglia e la gratitudine.
Cristiano non è colui che chiede o riceve delle grazie, è colui che rende grazie. Difatti l'Eucarestia, che rappresenta l'atto più alto del culto cristiano, significa, letteralmente, 'azione di grazie'.
 
Ma Dio non si aspetta da noi dei ringraziamenti alla maniera paternalistica dei cosiddetti benefattori. Dio gradisce le persone che 'fanno funzionare' i suoi doni, che non li lasciano ricoprire dalla polvere dell'abitudine e della noia.
Ognuno di noi ha un compito 'eucaristico': dobbiamo fare memoria delle sue meraviglie per celebrarle nel canto, nella gioia, nella festa.
E questo compito non è limitato all'ambito della preghiera liturgica, ma deve estendersi alla totalità della nostra vita quotidiana. Ogni nostra azione dovrebbe celebrare i benefici di Dio: anche un sorriso può diventare un gesto liturgico.
 
Dunque non dobbiamo essere distratti di fronte al miracolo della vita, sbadati di fronte alle sorprese degli avvenimenti quotidiani.
Dobbiamo cercare le tracce del passaggio di Dio attraverso il fluire dei fatti più comuni e ordinari; non dare per scontato niente di ciò che ci viene offerto; scoprire le 'improvvisazioni di Dio' anche nei doni più piccoli e abituali.
E mantenerci sempre in atteggiamento di gratitudine, nelle sue due facce di accettazione e di gioia.
Allora anche la nostra vita sarà un grandioso "memoriale" delle opere del Signore.
 
 

 
Letture:
2 Re 5,14-17
Salmo 97
2Timoteo 2,8-13
Luca 17,11-19
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!».
 
 

02 ottobre 2025

Legarsi totalmente ad un Altro - 5/10/2025 - XXVII Domenica tempo ordinario

 
Il dono della vita. Il dono dell'amore.
La creazione di Adamo (particolare)
Michelangelo Buonarroti
(affresco soffitto Cappella Sistina - Roma)

 
«Accresci in noi la fede!»
Ma cos'è la fede.
Non è credere che Dio esiste: gli ebrei lo credono fermamente.
Non è neanche una sfilza di verità da credere, o un complesso di norme da rispettare: i farisei seguivano fedelmente non solo i 10 comandamenti ma anche le oltre 600 regole ebraiche, e Gesù decisamente non è tenero con loro!
Avere fede vuol dire avere fiducia, fare affidamento su di un Altro, legarsi totalmente ad un Altro. È stabilire un legame, una relazione con Dio; non per stare al sicuro, essere protetti, ma per "farsi portare", lasciarsi guidare. È una realtà dinamica, un affidarsi a Qualcuno in vista di un cammino. Si crede per "camminare con".
Non è un qualcosa dato una volta per sempre e sempre uguale. È una situazione da vivere giorno per giorno, a volte con fatica, a volte con gioia. È un cammino sempre diverso, da inventare.
 
Non ci rende dei privilegiati, non ci mette al riparo delle tempeste che si abbattono sui comuni mortali. La fede ci permette di camminare al buio, aggrediti dai soliti elementi ostili, in mezzo alle difficoltà di tutti, alle prese con i problemi comuni dei nostri fratelli, ma con l'unica sicurezza di una Presenza, di una mano che ci afferra, non per sottrarci alle intemperie, ma dopo che abbiamo superato la bufera (come è accaduto a Pietro che rischiava di affondare - Mt 14,31).
La fede non ci dispensa dal duro mestiere di uomini. Non ci spiana la strada. Semplicemente, le dà un senso.
 
La fede che vuole Gesù (e che chiedono gli apostoli) non è quella che ti fa muovere in uno spazio sicuro e ben definito, che ti dice ad ogni passo dove mettere i piedi.
La fede chiesta dagli apostoli ti spinge a camminare secondo l'imprevedibile geografia di Dio, seguire itinerari sconcertanti, esplorare territori sconosciuti, col solo bagaglio di una Parola che ti sloggia continuamente dalle posizioni acquisite («Vattene dalla tua terra, [...] verso la terra che io ti indicherò» - Gen 12,1), che ti obbliga a viaggiare al buio impedendoti di tirar fuori dalle tasche la bussola di una saggezza troppo umana. È una fede che si sforza di tener dietro a un Dio sempre più in là, che sempre ti precede («Egli vi precede in Galilea»» - Mc 16,7).
Non pretende di conoscere la strada prima di partire, ma si preoccupa di non perdere i contatti col Compagno di viaggio.
Non proclama di avere Dio dalla propria parte, ma si preoccupa di mettersi quotidianamente dalla parte di Dio.
 
Insomma, è una fede difficile, che a tratti brilla e a tratti si eclissa, che spesso tormenta e a volte consola. È una fede operante. Una fede che, trasformando radicalmente l'uomo, dà nuova forma al mondo. Una fede "levatrice di Dio". Insomma, la fede dei santi.
 
 

 
Letture:
Abacuc 1,2-3;2,2-4
Salmo 94
2Timoteo 1,6-8.13-14
Luca 17,5-10
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,5-10)

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? Non gli dirà piuttosto: "Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu"? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare"».