04 dicembre 2025

Due profeti (apparentemente) molto diversi - 7/12/2025 - II Domenica Avvento

 

 
Due profeti molto diversi nelle letture di oggi: nella prima lettura Isaia parla di un creato completamente riconciliato, di lupo che si accompagna all'agnello; nel Vangelo Giovanni Battista invece parla di scure alla radice degli alberi, di fuoco divorante.
Isaia ci parla di un dono immeritato, più bello anche del sogno più ardito.
Giovanni ci parla di un mondo da costruire.
Sono tutte e due voci che risuonano dentro di noi, perché tutti noi viviamo di opere nostre e di doni di Dio, di fatica e di poesia, di dure realtà da affrontare e di sogni da realizzare.
 
Però, nonostante le diversità, sono tutti e due profeti di speranza. Giovanni sa benissimo che non è la paura che ci libera dal male, che fa convivere il lupo e l'agnello. Sa che l'unica forza che riesca a cambiare le persone è la forza dell'amore, dell'amore divino che viene in noi, che ci cresce dentro facendoci crescere anche fuori.
 
È questo l'annuncio centrale del Vangelo di oggi: «il regno dei cieli è vicino!», cioè Dio è vicino. È vicino a tutti, è un abbraccio che accoglie in pace e in armonia il lupo e l'agnello, il bambino e la vipera, l'uomo e la donna, l'arabo e l'ebreo, il mussulmano e il cristiano, il bianco e il nero. È questo il sogno di Dio. E a questo sogno siamo chiamati. Siamo chiamati al futuro.
 
Ma c'è anche un altro elemento che è decisivo: «Convertitevi». Convertirsi è lasciare entrare un pezzetto di Cristo in me, lasciarmi scaldare dal fuoco del suo amore. Fuoco che mi scalda e mi ammorbidisce, che mi plasma sempre più a «immagine e somiglianza» (cfr. Gen 1, 26) di Dio.
Convertirsi non significa perdere tempo in rimorsi o in sensi di colpa, con gli occhi e il pensiero fissi sul passato, ma andare avanti cambiando strada, cambiando pensieri, cambiando azioni.
"Convertiti!" non è un ordine. È un'opportunità. Cambio strada perché nella nuova strada il cielo è più azzurro, ci sono più fratelli che gioiscono con me e per me, che mi soccorrono nelle difficoltà, che mi allungano una mano e mi aiutano a rialzarmi quando inciampo e cado.
 
La poetessa Alda Merini ha scritto:
      La fede è una mano
      che ti prende le viscere,
      la fede è una mano
      che ti fa partorire
 
La conversione mi fa partorire buoni frutti, gesti d'amore e vicinanza.
Quando accogli Dio che ti si avvicina, la tua vita si trasforma e diventa generatrice di frutti di pace.
 
 

 
Letture:
Isaia 11,1-10
Salmo 71
Romani 15,4-9
Matteo 3,1-12
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 3,1-12)

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».
E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Vedendo molti farisei e sadducèi venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all'ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: "Abbiamo Abramo per padre!". Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell'acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
 
 

27 novembre 2025

Un ladro che ci dona la sua ricchezza - 30/11/2025 - I Domenica Avvento


 
 
L'Avvento è un tempo per risvegliarci. È Il tempo dell'attenzione, cioè il tempo per imparare a rendere profondo ogni momento.
 
«Due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato». Il Vangelo non sta parlando della morte, ma di due modi diversi di vivere nel campo della vita: uno vive affacciandosi sull'infinito, uno è chiuso solo dentro sé stesso; uno è chino solo sul suo piatto, uno è generoso con gli altri di pane e di amore; uno vive donandosi, uno prendendo.
Tra questi due uno è pronto all'incontro con il Signore, quello che vive attento.
L'altro non si accorge di nulla, proprio come le persone ai tempi di Noè.
 
«Se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro...» Mi ha sempre lasciato molto perplesso questa immagine del Signore che viene di soppiatto come un ladro nella notte. Non ce lo vedo Dio nei panni di un ladro, Lui viene sempre per donare, per amare.
Allora forse non è la morte che viene intesa in questa piccola parabola, ma l'incontro.
Perché il Signore è un ladro molto strano, non ruba niente, dona tutto, viene con le mani piene. Ma l'incontro con Lui ti obbliga a svuotare te stesso dalle cento, mille cose inutili, altrimenti ciò che porta non trova spazio. Mette a soqquadro la tua casa, ti cambia la vita, la fa ricca di volti, di luce, di orizzonti spalancati.
 
Io sono qualcosa di prezioso che attira il Signore come la ricchezza attira il ladro. Agli occhi di Dio, l'impasto della mia vita, in cui si mescolano intimamente fango e pagliuzze d'oro, questo niente così fragile, è così glorioso da farGli desiderare di passare l'eternità abbracciandolo.
 
Vieni pure come un ladro, Signore, prendi quello che è prezioso per te: questo mio povero cuore rinsecchito, inaridito. Prendilo, per poi ridonarmelo rivestito di luce, straripante d'amore.
 
 

 
Letture:
Isaia 2,1-5
Salmo 121
Romani 13,11-14
Matteo 24,37-44
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 24,37-44)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».
 
 

20 novembre 2025

Cristo Re della Misericordia - 23/11/2025 - XXXIV Domenica tempo ordinario - Solennità di Cristo Re dell'Universo

 
Collina delle Croci
Šiauliai (Lituania)
Foto Miriam Ferrarin
 
Da un punto di vista umano, Gesù è nel momento del fallimento totale: condannato a morte, torturato, deriso. Eppure in questo contesto ci sono due persone che riescono a vedere la realtà regale e divina di Gesù. E colpisce molto che non siano né dei seguaci di Gesù né degli apostoli (che d'altra parte erano tutti scappati), ma siano un centurione romano (cfr. Lc 23, 47) e un delinquente confesso (che rimane l'unico santo canonizzato direttamente da Gesù).
 
Quest'ultimo dà una grande definizione di Dio: «è condannato alla stessa nostra pena». Dio è dentro la nostra sofferenza. Dio viene crocifisso in tutti i crocifissi della storia. Dio sceglie di entrare nella morte perché là entra ogni suo figlio.
Dio ci mostra che il primo dovere di chi ama è di essere insieme all'amato.
 
«egli invece non ha fatto nulla di male» In queste parole è racchiuso il segreto dell'autentica regalità: niente di male in quell'uomo, un'innocenza mai vista prima, nessuna ombra di odio o di violenza o di vendetta. Dio non fa il male, a nessuno, mai. Dio fa esclusivamente il bene. "Dio non può che amare" (fr. Roger).
Ecco il nostro Re: uno che ha la forza regale e divina di dimenticare sé stesso dentro la paura e la speranza dell'altro.
 
«ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». E Gesù fa di più, lo porta con sé. Come il pastore con la pecorella smarrita, se lo carica in spalla e lo porta a casa: «sarai con me». Mentre tutto il nostro mondo ragiona per esclusioni, per separazioni, per respingimenti alle frontiere, il Regno di Dio avanza per inclusioni, per accoglienze, per abbracci.
«Ricordati» chiede il condannato. Non sarà solo ricordo, sarà soprattutto abbraccio che avvolge per sempre, che porta l'amato al cuore e nel cuore per l'eternità.
A tutti i crocifissi dalla vita, i rifiutati dalla storia, gli esclusi dai benpensanti, Gesù ripete ogni momento «oggi con me sarai nel paradiso».
 
 

 
Letture:
2Samuele 5,1-3
Salmo 121
Colossesi 1,12-20
Luca 23,35-43
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23,35-43)

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
 
 

13 novembre 2025

Dio è un esperto d'Amore - 16/11/2025 - XXXIII Domenica tempo ordinario

 
"Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto"
Foto di Paolo Boaretto su Unsplash (particolare)


 
Il Vangelo di oggi sembra molto cupo, molto pessimista, ma lo scopo di Gesù non è anticiparci il futuro, dirci cosa e come succederà. Il Vangelo vuole svelarci il senso di quello che succederà. Nel muro di violenza e di paura vuole aprire una breccia di speranza.
Quel "ma voi..." implicitamente ripetuto più volte è un invito alla speranza, a resistere a tutto quello che sembra vincere nel mondo. È un'esortazione a non rassegnarsi, a non arrendersi. Il Vangelo sprona ad un tenace, umile e quotidiano lavoro dal basso, chiama a prendersi cura della terra e delle sue ferite, degli esseri umani e della loro lacrime, a "scegliere sempre l'umano contro il disumano" (p. David Maria Turoldo)
 
«Quando dunque accadranno queste cose?» Il quando è adesso. Perché è 'adesso' che il mondo è fragile, è 'adesso' che la convivenza tra gli uomini è difficile, è 'adesso' che l'amore sembra stia soccombendo. Il cristiano è chiamato non a nascondersi, ma a stare in mezzo al mondo e a prendersene cura. Stare vicino alle croci con perseveranza, non solo se capita, ma come un progetto di vita. Il cristiano è un costruttore. Deve essere un costruttore di giustizia, di pace, di amore, di fraternità. Perché questi sono i materiali per l'edificazione del Regno. Perché queste sono le realtà che sfuggono alla "fine dei tempi" e anticipano "i cieli nuovi e la terra nuova".
 
«Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» Ancora una volta l'infinita cura di Dio per l'infinitamente piccolo perché nulla è insignificante di ciò che appartiene all'amato. Gesù insegna a vivere lo slancio di un abbraccio che va dall'infinitamente piccolo alla grande storia, da uno solo dei miei capelli a tutto il futuro dell'universo. E a fare questo vivendo nella speranza.
Nel caos della storia lo sguardo di Dio è concentrato su di me, non come giudice che incombe, ma come custode attento ad ogni mia 'briciola'. Niente è troppo piccolo: e se non sarà esentato dalla distruzione nel giorno dell'odio, certamente sarà salvato poi nel giorno del Signore.
Come attendere quel giorno? Con una spiritualità del quotidiano, sporcandosi le mani per costruire 'umanità' e 'unità' nella trama dei giorni, nella fragilità delle cose terrene. Luca dice di essere saldi nella «perseveranza», un termine che racconta tutta la forza necessaria lungo la sofferenza attraverso cui si deve passare, ma che insieme respira la speranza in Colui che mi conta i capelli sul capo.
 
«Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». La vita si salva non nel disimpegno, ma nel tenace, umile, quotidiano lavoro che si prende cura della terra e delle sue ferite. Senza cedere né allo scoraggiamento né alle seduzioni dei falsi profeti.
E se attendo ancora il Signore non è in base ai segni deludenti che vedo nel groviglio sanguinoso dei giorni, ma per la serenità della fede in Qualcuno che mi conta i capelli in capo e si ripropone ogni istante come un Dio esperto d'amore.
 
 

 
Letture:
Malachia 3,19-20
Salmo 97
2Tessalonicesi 3,7-12
Luca 21,5-19
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 21,5-19)

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: "Sono io", e: "Il tempo è vicino". Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».
 
 

06 novembre 2025

La casa ultima del Padre sei proprio tu - 9/11/2025 - Dedicazione della Basilica Lateranense

 
Basilica di San Giovanni in Laterano

 
Gesù amava molto il tempio di Gerusalemme, lo ammirava, si è indignato coi mercanti, ha pianto pensando alla sua distruzione imminente (Lc 19,41-44).
Eppure lo ha anche radicalmente contestato: «Né in Samaria, né in Gerusalemme adorerete il Padre, ma in spirito e verità» (Gv 4,21) ha detto alla samaritana. Nel Vangelo di oggi proclama che «è la casa del Padre mio», ma aggiunge: «Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere». E l'evangelista specifica: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo».
Il Figlio si è incarnato per riavvicinare l'uomo a Dio, per farci trovare il luogo dove la presenza di Dio è più forte: non una stupenda costruzione di pietre, ma il vivo corpo di un essere umano. La piena rivelazione della divinità è l'umanità di Gesù. Il divino raggiunge la sua pienezza solo nell'umano, in un corpo d'uomo, in un corpo di donna. È nell'umanità di Gesù che scopriamo il volto accogliente, amante, misericordioso del Padre.
 
Gesù ci supplica di sostituire la teologia del tempio di pietra, con la teologia del tempio di carne, dei figli di Dio come santuario di Dio. Anch'io sono il luogo dove l'Onnipotente che non ha dove posare il capo, cerca casa.
San Paolo ci dice che «siete tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi» (seconda lettura). Dio, l'Infinito, ha scelto te per fare il suo nido. Gli sei piaciuto così tanto che ha fatto di te la sua casa, il luogo dove riposare, trovare sicurezza, godere del calore della famiglia e degli amici.
E i segni della vita e dell'età, le ferite delle malattie, per quanto grandi e profonde, non possono cancellare questa realtà; non riescono a sminuire la tua dignità, la tua grandezza, la tua bellezza. La casa ultima del Padre sei tu.
 
 

 
Letture:
Ezechiele 47, 1-2.8-9.12
Salmo 45
1Corinti 3,9-11.16-17
Giovanni 2, 13-22
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2, 13-22)

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
 
 

30 ottobre 2025

Siamo chiamati alla gioia - 2/11/2025 - Commemorazione di tutti i fedeli defunti (Messa I)

Danza Macabra

Hrastovlje (SLO)


 
(Pensieri sulla Commemorazione dei defunti)
 
Oggi la liturgia non ci ricorda la morte, ma ci apre alla speranza della risurrezione. Ci ricorda che le lacrime verranno asciugate dalla mano di Dio (Ap 7,17 e 21,4). Non è memoria della separazione, ma profezia di futuro, di nuova comunione.
 
Marta dice a Gesù «Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21). È quello che spesso pensiamo anche noi: se Dio esiste, perché tanta sofferenza, perché tanti morti innocenti? "Se Tu sei qui, i miei cari non moriranno..." Ma Dio è qui! Sempre. Ma non come esenzione dalla morte. Gesù non ha mai promesso che non saremmo morti. Per lui il bene più grande non è un infinito sopravvivere. Per Gesù l'essenziale non è non morire, ma vivere, e vivere una vita risorta.
L'eternità entra in noi con i piccoli e gradi gesti d'amore quotidiani. Il Signore ci insegna a temere più una vita vuota, senza amore e quindi inutile, che non la morte.
 
La vita eterna è la cosa più grandiosa che Gesù ha preparato per noi. «Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Né angeli né demoni, né vita né morte, nulla ci potrà mai separare dall'amore di Dio» (Rom 8,35-37). Questa certezza mi basta. Se Dio è amore e vita, vendicherà la mia morte. E la sua vendetta è la mia risurrezione, cioè un amore mai più separato né da Lui, né dai miei fratelli e sorelle, né da tutto ciò che ho amato e da chi mi ha amato.
Dio è il Salvatore e 'salvare' significa conservare, quindi nulla andrà perduto: non un affetto, non un bicchiere d'acqua fresca, non il più piccolo sorriso né la più piccola carezza.
In una preghiera eucaristica (Preghiera Eucaristica III) c'è questa bellissima invocazione per i defunti: "Ammettili a godere la luce del tuo volto". I verbi della fede (adorare, lodare...) lasciano spazio ad un verbo umile ed umanissimo: 'godere'. La ragione cede alla gioia, la fede al godimento. Dio, nella sua più intima essenza, non risponde al nostro bisogno di spiegazioni, ma al nostro bisogno di felicità. Siamo chiamati alla gioia.
L'esperienza umana ci dice che tutto va dalla vita verso la morte. La fede cristiana dichiara invece che si va dalla morte alla vita.
"Quando arriveremo sul limitare della luce che conosciamo e saremo sul punto di fare un passo nella tenebra dell'ignoto, possiamo avere almeno una certezza: o Dio ci darà qualcosa di solido su cui poggiare i piedi, o ci insegnerà a volare" (Carolyn Brown).
 
 

 
Letture Messa I:
Giobbe 19,1.23-27
Salmo 26
Romani 5,5-11
Giovanni 6,37-40
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,37-40)

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno».
 
 

23 ottobre 2025

Sentire la necessità di Dio - 26/10/2025 - XXX Domenica tempo ordinario

 
Il fariseo e il pubblicano
Julius Schnorr von Carolsfeld

 
Il brano del Vangelo di oggi viene immediatamente dopo quello di domenica scorsa, e se prima Gesù parlava della necessità di una preghiera fiduciosa e insistente, adesso ci dice qual è l'atteggiamento da tenere nella preghiera. E lo fa con una storia 'esemplare' che si svolge nella cornice sacra del tempio, cioè nella casa di Dio, e usa la tecnica del contrasto tra i due personaggi.
 
Da una parte, in prima fila, abbiamo il fariseo, la persona pia per antonomasia, il fedele con la 'F' maiuscola. Difatti prega nella posizione giusta secondo le norme giudaiche: in piedi, a testa alta, le braccia sollevate al cielo. Anche il suo inizio è perfetto, difatti attacca con la preghiera più bella, quella di ringraziamento e di lode.
Ma subito dopo tutto il teatrino che ha messo in piedi crolla miseramente. Anche se i suoi occhi sono rivolti al cielo, il suo sguardo è concentrato solo su sé stesso.
La sua è una preghiera atea, perché il fariseo è talmente pieno di sé che nel suo animo non c'è il minimo spazio per Dio. Come fa notare Rinaldo Fabris "Dio è la copertura di un io ricco che strumentalizza il rapporto religioso per la propria esaltazione. L'uomo che si nasconde dietro questa preghiera non aspetta nulla da Dio, non ha nulla da chiedere, egli fa solo mostra di sé, dei suoi diritti, del suo credito davanti a Dio".
Il fariseo si è messo davanti ad uno specchio e ha chiamato 'dio' l'immagine che ha visto. Difatti in tutto il suo discorso ha usato sempre e soltanto la prima persona singolare. Per lui non c'è altra persona che non sia egli stesso.
 
E dall'altra parte, in fondo al tempio, c'è il pubblicano. Per i devoti è il peccatore per definizione, fa un mestiere infamante, è sinonimo di ladro, truffatore, collaborazionista con l'occupante romano.
Lui se ne sta in disparte. Non alza gli occhi al cielo, non alza le mani verso l'alto. Invece le usa per battersi il petto.
Ma il suo discorso è tutto alla seconda persona singolare. Anche se ha gli occhi bassi, il suo sguardo è rivolto al 'tu' di Dio. Lui si aspetta tutto dal Signore, riconosce di essere peccatore, di non avere neanche scusanti. Ma sa anche che per non esserlo più ha necessità dalla misericordia di Dio. Non ha niente da offrire, e quindi si aspetta tutto da Dio. Non critica gli altri per sentirsi, almeno un po', meno peccatore. Lui conta unicamente sulla grazia del Signore.
 
La differenza tra i due è che il fariseo si serve di Dio per essere ammirato. Il pubblicano ha necessità di Dio per ripartire, per ricominciare.
Il pubblicano è tornato a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo (Dio non si merita, neanche con l'umiltà), ma perché si apre ad un Dio più grande del suo peccato. Si apre alla misericordia («anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore» cfr. 1Gv 3,20), a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.
 
 

 
Letture:
Siracide 35,15-17.20-22
Salmo 33
2Timoteo 4,6-8.16-18
Luca 18,9-14
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo". Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me peccatore".
Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
 
 

16 ottobre 2025

Non dobbiamo avere paura della nostra debolezza - 19/10/2025 - XXIX Domenica tempo ordinario

 
La parabola dela vedova e del giudice ingiusto
(particolare)
Affresco del Palazzo delle Faccette
(Mosca 1882)

 
Una parabola un po' sconcertante.
 
C'è una vedova, immagine della debolezza disarmata che, a pensarci bene, deve lottare contro due avversari: il contendente e il magistrato. Si direbbe proprio l'emblema di tutti coloro che si trovano schiacciati dal potere e dalla prepotenza dell'egoismo.
 
Poi c'è il giudice. Un persona senza un briciolo di umanità, senza un minimo di coscienza né di senso della giustizia. Esattamente l'opposto del Padre giusto e misericordioso, pieno d'amore e tenerezza, di cui ci parla sempre Gesù.
 
La lezione della parabola è questa: la debolezza ha prevalso sulla forza. Non dobbiamo scoraggiarci per la nostra impotenza, lasciarci impressionare dalle difficoltà 'insormontabili'. Mi viene in mente san Paolo: «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Non dobbiamo avere paura della nostra debolezza.
Perché la nostra debolezza non è sola nella lotta contro la prepotenza, l'ingiustizia, ma è una debolezza (la nostra) alleata un'altra debolezza (quella dell'amore di Dio).
Dio, che sembrava assente dalla parabola, è presente a fianco della vedova: è Lui che la sostiene nelle sue suppliche, che la sorregge nelle fatiche, che le alimenta la speranza. Dio ama la nostra insistenza, gradisce le nostre richieste ribadite. Desidera essere importunato. Se lo facciamo ne è contento, non indispettito come il giudice.
Purché tutto gli arrivi attraverso il canale della fede.
 
«Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»
La parabola si chiude con questa domanda inquietante.
Ritorna il tema di due domeniche fa: la fede. Avere la fede che Gesù spera di trovare vuol dire avere con Lui una relazione, "farsi portare", lasciarsi guidare perché si è sicuri del suo amore.
Ma i tempi di Dio non sono i nostri.
Anche quando Dio ha fretta di esaudirci, può capitare che la nostra fede non sia più una relazione da cuore a cuore (anche con momenti di tensione, con litigi, ma sempre con la sicurezza di essere amati), ma che sia già spenta, ridotta a parole e gesti da ripetere per abitudine.
Se abbiamo interrotto il canale-fede, tante risposte non arrivano a destinazione perché ci passano accanto ma non le vediamo.
 
 

 
Letture:
Esodo 17,8-13
Salmo 120
2Timoteo 3,14-4,2
Luca 18,1-8
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,1-8)

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario".
Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi"».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
 
 

09 ottobre 2025

Tutto dev'essere rendimento di grazie - 12/10/2025 - XXVIII Domenica tempo ordinario

Guarigione dei dieci lebbrosi
miniatura dal Codex Aureus (1035-1040 circa)
Norimberga (Germania)

 
 
Dieci lebbrosi, e quindi esclusi dalla comunità, che si fidano della parola di Gesù «a distanza», e si incamminano per andarsi a presentare dai sacerdoti, incaricati ufficialmente di controllare l'avvenuta guarigione. E lungo la strada si accorgono della sparizione della malattia.
Ma uno solo, un Samaritano (per gli ebrei un rinnegato, un eretico), sente il bisogno di tornare indietro "per lodare Dio e ringraziare Gesù". Uno solo mostra riconoscenza, cioè 'riconosce' che ciò che gli è capitato è dono. Gli altri, probabilmente perché appartenenti al popolo eletto, ritengono normale la loro guarigione, quasi una cosa dovuta.
 
Gesù apprezza l'uomo che mostra gratitudine, che non dà nulla per scontato. Che sa aprirsi allo stupore, alla sorpresa, e quindi al ringraziamento.
Può essere facile ringraziare Dio quando otteniamo una grazia eccezionale, di fronte a un evento straordinario, ma la riconoscenza non scatta quasi mai di fronte alle cose che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno, alla presenza dei miracoli offerti dall'esistenza quotidiana. Li consideriamo diritti acquisiti, cose scontate; non sappiamo più coglierli come eventi straordinari pur nella loro banalità ordinaria.
Lo scrittore G.K. Chesterton osservava, con amara ironia, che "ogni anno ringraziamo commossi la Befana per i doni che ci mette nella calza appesa al camino, ma dimentichiamo di ringraziare Colui che, ogni giorno, ci dà un paio di gambe da infilare nelle calze".
Ci è mai successo, al mattino, di dire grazie al Signore per il nuovo giorno? Il sole che sorge viene considerato qualcosa che va da sé. Non lo sappiamo cogliere nel suo aspetto di 'evento straordinario' e, soprattutto, di dono. Dobbiamo convincerci che 'tutto è grazia'. Niente ci è dovuto, nulla è meritato. E se tutto è grazia, tutto dev'essere rendimento di grazie.
Se ogni cosa viene da Dio gratuitamente, tutto deve ritornare a Lui attraverso la lode e la meraviglia e la gratitudine.
Cristiano non è colui che chiede o riceve delle grazie, è colui che rende grazie. Difatti l'Eucarestia, che rappresenta l'atto più alto del culto cristiano, significa, letteralmente, 'azione di grazie'.
 
Ma Dio non si aspetta da noi dei ringraziamenti alla maniera paternalistica dei cosiddetti benefattori. Dio gradisce le persone che 'fanno funzionare' i suoi doni, che non li lasciano ricoprire dalla polvere dell'abitudine e della noia.
Ognuno di noi ha un compito 'eucaristico': dobbiamo fare memoria delle sue meraviglie per celebrarle nel canto, nella gioia, nella festa.
E questo compito non è limitato all'ambito della preghiera liturgica, ma deve estendersi alla totalità della nostra vita quotidiana. Ogni nostra azione dovrebbe celebrare i benefici di Dio: anche un sorriso può diventare un gesto liturgico.
 
Dunque non dobbiamo essere distratti di fronte al miracolo della vita, sbadati di fronte alle sorprese degli avvenimenti quotidiani.
Dobbiamo cercare le tracce del passaggio di Dio attraverso il fluire dei fatti più comuni e ordinari; non dare per scontato niente di ciò che ci viene offerto; scoprire le 'improvvisazioni di Dio' anche nei doni più piccoli e abituali.
E mantenerci sempre in atteggiamento di gratitudine, nelle sue due facce di accettazione e di gioia.
Allora anche la nostra vita sarà un grandioso "memoriale" delle opere del Signore.
 
 

 
Letture:
2 Re 5,14-17
Salmo 97
2Timoteo 2,8-13
Luca 17,11-19
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!».
 
 

02 ottobre 2025

Legarsi totalmente ad un Altro - 5/10/2025 - XXVII Domenica tempo ordinario

 
Il dono della vita. Il dono dell'amore.
La creazione di Adamo (particolare)
Michelangelo Buonarroti
(affresco soffitto Cappella Sistina - Roma)

 
«Accresci in noi la fede!»
Ma cos'è la fede.
Non è credere che Dio esiste: gli ebrei lo credono fermamente.
Non è neanche una sfilza di verità da credere, o un complesso di norme da rispettare: i farisei seguivano fedelmente non solo i 10 comandamenti ma anche le oltre 600 regole ebraiche, e Gesù decisamente non è tenero con loro!
Avere fede vuol dire avere fiducia, fare affidamento su di un Altro, legarsi totalmente ad un Altro. È stabilire un legame, una relazione con Dio; non per stare al sicuro, essere protetti, ma per "farsi portare", lasciarsi guidare. È una realtà dinamica, un affidarsi a Qualcuno in vista di un cammino. Si crede per "camminare con".
Non è un qualcosa dato una volta per sempre e sempre uguale. È una situazione da vivere giorno per giorno, a volte con fatica, a volte con gioia. È un cammino sempre diverso, da inventare.
 
Non ci rende dei privilegiati, non ci mette al riparo delle tempeste che si abbattono sui comuni mortali. La fede ci permette di camminare al buio, aggrediti dai soliti elementi ostili, in mezzo alle difficoltà di tutti, alle prese con i problemi comuni dei nostri fratelli, ma con l'unica sicurezza di una Presenza, di una mano che ci afferra, non per sottrarci alle intemperie, ma dopo che abbiamo superato la bufera (come è accaduto a Pietro che rischiava di affondare - Mt 14,31).
La fede non ci dispensa dal duro mestiere di uomini. Non ci spiana la strada. Semplicemente, le dà un senso.
 
La fede che vuole Gesù (e che chiedono gli apostoli) non è quella che ti fa muovere in uno spazio sicuro e ben definito, che ti dice ad ogni passo dove mettere i piedi.
La fede chiesta dagli apostoli ti spinge a camminare secondo l'imprevedibile geografia di Dio, seguire itinerari sconcertanti, esplorare territori sconosciuti, col solo bagaglio di una Parola che ti sloggia continuamente dalle posizioni acquisite («Vattene dalla tua terra, [...] verso la terra che io ti indicherò» - Gen 12,1), che ti obbliga a viaggiare al buio impedendoti di tirar fuori dalle tasche la bussola di una saggezza troppo umana. È una fede che si sforza di tener dietro a un Dio sempre più in là, che sempre ti precede («Egli vi precede in Galilea»» - Mc 16,7).
Non pretende di conoscere la strada prima di partire, ma si preoccupa di non perdere i contatti col Compagno di viaggio.
Non proclama di avere Dio dalla propria parte, ma si preoccupa di mettersi quotidianamente dalla parte di Dio.
 
Insomma, è una fede difficile, che a tratti brilla e a tratti si eclissa, che spesso tormenta e a volte consola. È una fede operante. Una fede che, trasformando radicalmente l'uomo, dà nuova forma al mondo. Una fede "levatrice di Dio". Insomma, la fede dei santi.
 
 

 
Letture:
Abacuc 1,2-3;2,2-4
Salmo 94
2Timoteo 1,6-8.13-14
Luca 17,5-10
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,5-10)

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? Non gli dirà piuttosto: "Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu"? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare"».
 
 

25 settembre 2025

Dove un uomo non ha attorno a sé nessuno, se non dei cani, lì c'è Dio - 28/9/2025 - XXVI Domenica tempo ordinario

 
Parabola dell'uomo ricco e Lazzaro
Da un manoscritto di origine francese della fine del XIII secolo
British Library (Londra)

 
Per molti, troppi, secoli questa parabola è stata usata dai potenti, e anche da tanti uomini di chiesa, per tenere 'rassegnati' e sottomessi i poveri e gli indigenti: i poveri devono solo lasciare che i ricchi finiscano in pace il loro banchetto e abbiano la loro sepoltura, così poi, in Paradiso, avranno la loro rivincita.
Niente di più lontano dal senso biblico di 'rassegnazione'. Mai nella Bibbia si invita a rimandare all'aldilà la soluzione alle ingiustizie del presente. La fede è anche indignazione, denuncia delle disuguaglianze, lotta contro le ingiustizie. Il giudizio di Dio non è rimandato all'ultimo giorno, ma inizia e va proclamato nel presente, oggi.
Cerchiamo quindi di capire meglio cosa ci vuole comunicare questa parabola.
 
Innanzi tutto c'è una particolarità: in tutto il vangelo di Luca questa è l'unica parabola in cui uno dei protagonisti ha un nome. "Lazzaro" è un nome peraltro comune nell'ebraismo (significa "Dio aiuta", "Yahweh viene in soccorso"). Ma soprattutto è il nome di un amico carissimo di Gesù (Gv 11, 5). È un nome che sa di affetto e vicinanza, che ha il sapore di cene condivise nella gioia e nella semplicità (Lc 10, 38), un nome che sa di resurrezione (Gv 11, 38-44).
Se Gesù dà al povero il nome del suo amico Lazzaro, ogni povero dovrebbe avere, anche per me, un nome d'amico.
 
Il ricco invece non ha nome. Per i semiti il nome esprime la realtà della persona, la sua storia e la sua missione. Il ricco non ha nome perché non ha realtà, non ha storia, non ha missione. Ha costruito la sua vita sul vuoto, sulle cose e alla fine è divenuto 'cosa'. Ha perso il vero senso della vita, perché non si può vivere per «fare lauti banchetti» tutti i giorni.
Lui si è isolato, separato dalla vita. La ricchezza l'ha imprigionato nell'egoismo. La sua sarà anche, all'apparenza, una prigione dorata, ma sempre prigione è. Impegnato a guardare nel suo piatto ricolmo non vede il povero che sta alla sua porta. I cani vedono meglio di lui!
La sua è una vita apparentemente piena. Ma in realtà è vuota. Piena di cose, ma a ben guardare sono cose inutili. Se queste facciate posticce, queste maschere, cadessero non rimarrebbe niente, se non un'estrema solitudine e mancanza di senso. Una disperazione. Cioè un inferno, e non nell'aldilà, ma già qui sulla terra.
 
La morte non è un ribaltamento di quello che succede qua adesso, ma è il presente che viene 'fissato' nell'eternità.
Il ricco si accorge che ha bisogno degli altri (Abramo e anche Lazzaro) quando è dall'altra parte, quando ormai non è più in tempo. Lui si preoccupa degli altri (i suoi cinque fratelli) in ritardo.
Ma questa impossibilità non è dovuta ad una 'punizione' da parte di Dio. Anche se all'inferno il ricco rimane sempre un «figlio» (è così che lo chiama Abramo). Il fatto è che non sono i miracoli né la morte a convertire, ma è la Vita che converte!
 
«Hanno Mosè e i profeti», cioè hanno il grido dei poveri, che sono la parola e la carne di Dio («tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» Mt 25, 40). Nella loro fame è Dio che ha fame, nelle loro piaghe è Dio che è piagato. Non c'è miracolo che valga il grido dei poveri: "Se lasciate l'orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa". (San Vincenzo de' Paoli).
 
 

 
Letture:
Amos 6,1.4-7
Salmo 145
1Timoteo 6,11-16
Luca 16,19-31
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,19-31)

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma".
Ma Abramo rispose: "Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi".
E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno". Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"».
 
 

18 settembre 2025

Dio ama le "irregolarità" che vanno a vantaggio del prossimo - 21/9/2025 - XXV Domenica tempo ordinario

Parabola dell'amministratore scaltro (1540)
Marinus van Reymerswaele
Kunsthistorisches Museum (Vienna)

 
 
Se leggiamo questa parabola (L'amministratore disonesto) in maniera distratta ci sembra che Gesù lodi la disonestà di questo personaggio. Ma se andiamo al centro, al tema dominante, possiamo fare delle scoperte interessanti.
 
Gesù loda la capacità di tirarsi fuori da una situazione difficile. Dio ci ha donato un cervello ed è contento se lo usiamo. Usare la propria capacità di ragionare, la propria fantasia, ragionare con la propria testa è già un rendere grazie al Signore.
Il Signore ama le persone che di fronte a situazioni nuove non si chiudono dietro ad un 'si è sempre fatto così', ma usano le proprie capacità per leggere i segni dei tempi, per capirli, per dare nuove risposte e scoprire nuove strade.
 
L'amministratore ha fatto una scoperta decisiva: ha scoperto gli altri. Fino a quel momento aveva pensato esclusivamente a sé stesso, ai propri interessi. E adesso scopre la realtà dei rapporti personali, dell'amicizia oserei dire. Continua ad usare ingiustamente della proprietà altrui, ma adesso non lo fa più a suo vantaggio, ma a vantaggio degli altri.
Ha scoperto che la propria salvezza passa attraverso l'apertura agli altri.
 
Questa è una lezione essenziale per la Chiesa. Che non è padrona, bensì semplice amministratrice e dispensatrice dei tesori del suo Signore.
La Chiesa non può vivere pensando a sé stessa, alla propria sicurezza, ai propri diritti, al proprio prestigio, al proprio potere. Deve 'mettere in circolazione' i beni del suo Padrone. Deve scoprire la propria identità nel suo 'essere per' gli uomini.
I beni del Signore vengono 'dissipati' quando sono tenuti per sé, chiusi, protetti, difesi. La vera, grossa infedeltà consiste nel non largheggiare, nel non distribuire a piene mani.
Ed è giusto che la Chiesa - come l'amministratore che si dichiara incapace di maneggiare la zappa - non faccia altri mestieri che non siano il suo: perdonare, usare misericordia, compatire (nel senso di patire insieme), comprendere, aprire, liberare. E lo faccia nel modo più ampio possibile.
 
Ma la lezione riguarda anche ciascuno di noi. La parabola ci insegna a compiere 'irregolarità' in altra maniera. Dio ama le 'irregolarità' che vanno a vantaggio del prossimo.
Si tratta di minimizzare le colpe degli altri (e non di aumentarle, come facciamo abitualmente), ridurre i loro difetti, cancellare le offese, tirare una riga sopra i torti, non ragionare in termini di diritti o di ragione/torto ma in termini di amore.
Invece di chiudere le nostre mani per arraffare, dobbiamo spalancarle per donare, dobbiamo 'dissipare' per regalare gioia, luce, speranza.
Allora il Signore tornerà a fidarsi di noi.
 
Certo, alla fine, nei nostri conti mancherà sempre qualcosa. Lui però sarà soddisfatto egualmente della nostra 'cattiva amministrazione' se quello che manca potrà trovarlo 'altrove', e non nel nostro portafoglio.
E noi ci saremo fatti degli amici che parleranno bene di noi presso l'Amico.
 
 

 
Letture:
Amos 8,4-7
Salmo 112
1Timoteo 2,1-8
Luca 16,1-13
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,1-13)

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare".
L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua".
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: "Tu quanto devi al mio padrone?". Quello rispose: "Cento barili d'olio". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta". Poi disse a un altro: "Tu quanto devi?". Rispose: "Cento misure di grano". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta".
Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
 
 

11 settembre 2025

Amare non è un'emozione, ma un'azione - 14/9/2025 - Esaltazione della Santa Croce

 
Miniatura della Crocifissione
inizio dell'XI secolo (particolare)
(Codex Uta, Bayerische Staatsbibliothek - Monaco)

 
La festa della Esaltazione della Croce ha la sua origine in vicende storiche. La croce ritrovata e riconquistata nel VII secolo dall'imperatore Eraclio è il motivo storico della festa. Ma il motivo spirituale è molto più profondo e importante: la croce è lo svelamento supremo di Dio.
Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all'uomo che è in croce. Perché l'amore conosce molti doveri, ma il primo di questi è di essere con l'amato. Gesù è in croce solo per essere con me e come me. Perché io possa essere con Lui e come Lui.
 
«Dio ha tanto amato». È questo il cuore profondo del cristianesimo. "Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama" (Paul Xardel). La salvezza è Lui che ama me, proprio me e così come sono, e non io che amo Lui.
«Amare tanto» è cosa da Dio, e da veri figli di Dio. Ogni volta che una creatura ama tanto, in quel momento sta facendo una cosa divina, in quel momento è pienamente figlia di Dio, incarnazione del progetto del Padre.
«Ha tanto amato il mondo da dare»: amare non è una emozione, ma un'azione. Comporta un dare, generosamente, illogicamente, dissennatamente dare. E "Dio non può dare nulla di meno di se stesso" (Meister Eckart).
 
«Dio non ha mandato il Figlio per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Il mondo è salvato, non condannato.
Ogni volta che temiamo condanne per le ombre che ci portiamo dietro, siamo pagani, non abbiamo capito niente della croce.
Ogni volta che siamo noi a lanciare condanne, siamo pagani, scivoliamo fuori dalla salvezza di Dio.
Salvare vuol dire anche conservare, e per questo nessun gesto d'amore, nessun coraggio, nessuna forte perseveranza, nessun volto andrà perduto o dimenticato. Neppure il più piccolo filo d'erba. Perché è tutta la creazione che brama, che geme nelle doglie della salvezza (Rm 8,18-22).
 
 

 
Letture:
Numeri 21,4-9
Salmo 77
Filippesi 2,6-11
Giovanni 3,13-17
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,13-17)

In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo:
«Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
 
 

04 settembre 2025

Dio non è capace di fare le sottrazioni - 7/9/2025 - XXIII Domenica tempo ordinario


 
 
A noi, che sentiamo sempre le parole del serpente che ci invita a diffidare di Dio, sembra quasi che Dio si metta in concorrenza con i nostri cari, che ci chieda di rinunciare a loro per poter accogliere Lui. Siamo portati a pensare che l'amore per Dio ci debba portare ad una 'sottrazione' nei nostri amori umani. Ma Gesù usa una parola precisa: 'più'. Dio non fa sottrazioni, Lui fa solo addizioni!
 
L'accento delle parole di Gesù non è sulla rinuncia, ma sulla conquista. Non indicano un punto di partenza, indicano una meta da raggiungere. In pratica Gesù ci dice: "Tu sai quant'è bello amare tuo padre, tua madre, il tuo coniuge, i tuoi figli; quanto ti fa bene e ti rende felice. Ecco, io ti dono qualcosa di più, qualcosa che rende il tuo amore ancora più bello, qualcosa che ti fa stare ancora più bene, che ti rende ancora più felice",
Dio non toglie niente, anzi, aggiunge. Lui aggiunge il suo amore al nostro amore, accoglie, e fa suo, il nostro amore per amare ancora di più le persone, il mondo.
 
«Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo». 'Portare la croce' non significa 'sopportare' le sofferenze e le difficoltà della vita. Non è un sopportare passivo, ma un 'prendere' attivo.
Perché la croce è il riassunto della vita di Gesù, quindi 'portare' la croce significa vivere una vita come la sua, che sapeva amare come nessun altro.
Prendere la croce vuol dire prendere l'amore, perché senza amore non sei vivo, e prendere anche la parte di dolore che ogni amore porta con sé, perché sennò non ami.
Perché Dio non ci salva dalla croce, ma nella croce, non protegge dal dolore ma nel dolore, non dalla tempesta ma nelle tempeste della vita.
 
Essere figli di Dio non vuol dire essere figli di una sottrazione, ma di un'addizione. I credenti non sono uomini e donne diminuiti, ma sono uomini e donne che hanno più amore, più libertà, più consapevolezza. "Il cristiano è un essere umano finalmente promosso a uomo" diceva don Primo Mazzolari.
Il cristiano è uno che ha scoperto che il vivere il Vangelo rende più belle le esperienze belle che facciamo nella vita.
 
 

 
Letture:
Sapienza 9,13-18
Salmo 89
Filèmone 1,9-10.12-17
Luca 14,25-33
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,25-33)

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro".
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
 
 

28 agosto 2025

Quando offri un banchetto invita poveri... - 31/8/2025 - XXII Domenica tempo ordinario

 
Pranzo comunitario in una mensa della Caritas
(foto Ansa)

 
Questo brano del Vangelo è tutto un gioco di sguardi. Gli invitati osservano Gesù e Gesù osserva gli invitati. Ma sono sguardi molto diversi. Gli invitati osservano per cogliere in fallo. Gesù per trovare la strada per aprire i cuori all'amore di Dio («non sono venuto per condannare, ma per salvare» Gv 12,47).
 
Gesù nota che i farisei non si sono resi conto che il loro zelo per Dio, a poco a poco, si è trasformato in ricerca della propria affermazione. Gesù allora cerca di correggerli citando un brano del libro dei Proverbi che loro dovrebbero conoscere bene: «Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: "Sali quassù", piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante» (Prov 25,6-7).
Non dice questo per umiliarli né tanto meno per dettare un nuovo galateo, ma per ricordare, a loro come a noi, che l'ultimo posto non va scelto per umiltà o modestia, né tanto meno per 'farsi vedere'. Va scelto per amore: mi metto ultimo perché tu venga prima di me, tu abbia il meglio prima di me!
 
L'ultimo posto non è umiliante, è il posto di Dio. È il posto per chi vuole agire come Gesù, che è venuto per servire e non per essere servito. Gesù ci rivela che il volto del Padre è quello di un Dio 'capovolto', che non se ne sta su nei cieli ad aspettare che noi arriviamo fino a Lui, ma che scende fin sotto i nostri piedi per poterci, da sotto, sollevare fino al suo Regno.
 
Gesù ci invita, come diceva don Tonino Bello, a "opporre ai segni del potere il potere dei segni". Il linguaggio dei gesti lo capiscono tutti, perché è una lingua che va da un cuore ad un altro cuore. E certi gesti ribaltano totalmente la nostra scala di valori, creano una vertigine, un'inversione di rotta nella nostra storia, aprono la strada per un nuovo modo di abitare la terra. Sono veramente la primizia del Regno.
 
Ecco perché quando accogli chi non viene accolto, chi viene calpestato, «sarai beato perché non hanno da ricambiarti». La vera gioia la trovi quando fai le cose non per interesse, ma per generosità.
L'uomo per star bene deve dare. È la legge della vita. Perché è la legge di Dio.
È il segreto delle beatitudini: Dio regala gioia a chi produce amore.
Nel Vangelo il verbo "amare" si traduce sempre con il verbo "dare".
 
 

 
Letture:
Siracide 3,17-20.28-29
Salmo 67
Ebrei 12,18-19.22-24
Luca 14,1.7-14
 
 
 

 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,1.7-14)

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: "Cedigli il posto!". Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: "Amico, vieni più avanti!". Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».