31 dicembre 2020

Dio in mezzo a noi - 03/01/2021 - II domenica dopo Natale

«In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.»
In 'principio', all'inizio. Tutto comincia, o ricomincia, da qui. Il nostro viaggio, il nostro cammino di fede incomincia da Dio, e da Dio dobbiamo ripartire dopo ogni nostra caduta, scivolone, sosta. Ogni volta che nella vita ci sembra di aver smarrito la strada, di esserci persi, tornare all'inizio, da dove tutto era iniziato, alle nostre radici, ci aiuta a riprendere il cammino, a ritrovare la rotta. E non solo nella fede!

Ma per ripartire da Dio, da Gesù, dobbiamo sapere dov'è
«E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria»
Non è alzando gli occhi o la mente all'altissimo dei cieli che potremo trovarlo. Perché Dio ha preso i nostri -issimi e li ha rovesciati. Altissimo, potentissimo, con Gesù diventano bassissimo, debolissimo.
Per tornare a Dio non dobbiamo cercare di alzarci verso altezze siderali, ma dobbiamo scendere alla bassezza umana.
Per tornare a Dio non dobbiamo cercare di avere potenze immense, ma dobbiamo scendere fino alla debolezza di un neonato.

Di fronte ad un uomo che da Adamo in poi non ha fatto altro che fuggire, che nascondersi davanti a Lui, Dio ha deciso di farsi prossimo all'uomo.
La carne di Dio è la nostra stessa carne, ecco perché non può che essere il Vicinissimo, ecco perché possiamo contemplare la sua gloria, cioè constatare la sua presenza. Il presepe ci dice proprio questo: possiamo essere piccoli e poveri, sentirci inadeguati, non all'altezza, falliti (e possiamo continuare): Dio sarà sempre il Vicinissimo, presente oggi nella nostra vita, nel nostro dolore, nella nostra inadeguatezza. È per questo che si fa festa a Natale! Perché Dio non si fa i fatti suoi su una nuvoletta, ma vive nel nostro mondo, percorre le nostre strade, soffre il nostro dolore, senza nessuno sconto.

Betlemme e la sua estrema povertà sono lo specchio di chi sei tu: poverissimo, lontanissimo da casa, irregolarissimo, inadeguatissimo.
Betlemme è l'offerta che Dio ti fa, Lui il Vicinissimo, l'innamoratissimo, Lui che fa pazzie per te.
Betlemme è la meta del viaggio per scoprire finalmente che anche tutte le tue miserie sono amate da Dio, per contemplare la sua presenza proprio là dove provi vergogna e imbarazzo.
Betlemme è il nuovo punto di partenza, ma questa volta si viaggia in due: Dio ti prende a braccetto e inizia a camminare con te. Per sempre.


(Sir 24,1-4.12-16; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18)


25 dicembre 2020

Buon Natale

 Due Presepi un po' particolari, ma che a me piacciono tanto per il ruolo di san Giuseppe

Questo è il primo:


e questo, in cui Giuseppe pare dica "lasciamo riposare la mamma", è il secondo:



B U O N   N A T A L E   A   T U T T I !


24 dicembre 2020

Facciamo il Presepe una statuina alla volta: il BAMBINO

Riprendo (aggiornando) alcune riflessioni proposte anni fa.*


Qualche anno fa su un quotidiano hanno pubblicato una vignetta con questa battuta:"Cosa aspetti per Natale?"-"Gesù Bambino". Ecco, noi questa sera mettiamo nel Presepe la statuina principale: il BAMBINO GESÙ.

Ma dove lo mettiamo? e poi, per cosa è venuto?

In questi giorni il Bambino lo possiamo trovare un po’ dappertutto: nella carta da regalo, sulle scatole di cioccolatini, sulle bottiglie di spumante, nelle vetrine dei negozi. Ma più noi lo mettiamo in ogni posto, più Lui non si fa trovare. Sembra che non voglia aver niente a che fare con questa confusione. Non vuole essere preso a pretesto per i nostri interessi, per una verniciatura di buoni sentimenti, per una patina di religiosità.
Per "fargli posto" non dobbiamo aggiungere, ma togliere, ripulire, ed è proprio quello che non vorremmo fare. Il Bambino che si fa dono esige purificazione, mani pulite, cuore in ordine. Natale non è un di più, ma una riduzione all'essenziale. Un Natale grandioso, trionfale, è quasi una bestemmia nei confronti di un Dio che sceglie la strada della piccolezza, quasi della clandestinità.
La cosa peggiore non è non fargli posto, ma sistemarlo secondo i nostri gusti. Se Lui arrivasse davvero, magari sotto il travestimento di un immigrato, di un anziano, di un ex-carcerato, per partecipare alla nostra festa, c’è da giurare che il Natale ci andrebbe di traverso. Un presepe che sia da allestire dal vero, spalancando la nostra porta allo sconosciuto, al clandestino, ci fa paura, disturba il "nostro" Natale, non è previsto dal cerimoniale.

Rimane l'altra domanda: per cosa è venuto? Lui viene per essere il Dio-con-noi (Mt 1,23). Ma non viene in visita, per togliere il disturbo subito dopo i festeggiamenti. Viene per rimanere, per condividere, vuole essere il Dio dei giorni feriali, di tutti i giorni.
E qui cominciano i guai. Perché un Dio sempre con noi esige tutto un cambiamento di mentalità, di scala di valori, di vita. Ma non negli altri, lo esige in noi stessi. Perché Lui viene come un amico sincero, come un fratello. Viene per gioire della nostra gioia, festeggiare con noi i nostri successi, consolarci nelle nostre sconfitte, abbracciarci nei momenti del nostro dolore. Ma anche per dirci chiaro e tondo quando sbagliamo, quando facciamo delle cavolate, quando ci comportiamo non proprio onestamente. E ce lo dice senza smettere di amarci, sempre in piena sincerità, ma anche in pieno rispetto della nostra libertà.


* Spunti tratti da "La novena di Natale davanti al presepe" di A. Pronzato - Gribaudi (2001)

BUON NATALE!!

23 dicembre 2020

Gesù, Bambino tra bambini - 27/12/2020 - Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

Per ben cinque volte Luca sottolinea che tutto viene fatto «per adempiere la legge». Giuseppe e Maria dimostrano l'attaccamento al loro popolo e la loro adesione alla tradizione. Non è un semplice atto esteriore, ma è una realtà sentita in maniera profonda da tutto il popolo, è il riconoscimento che tutto è dono di Dio e che tutto a Lui deve tornare. È il ricordarsi che anche la fertilità è dono di Dio.

Però in questo "adempiere la legge" c'è continuità, ma anche rottura. Colui che "non è venuto ad abolire la legge, ma a darle compimento" già ora porta la sua novità. E la profezia di Simeone lo dice chiaramente: Cristo sarà un segno di contraddizione.
Gesù porta a compimento la legge liberandola dalla casistica, dall'attaccamento ai cavilli che oscurano l'intenzione d'amore del Signore che questa legge ha donato. Gesù la purifica dalla caricatura del legalismo. E tutto questo lo inizia proprio qui, sottoponendosi umilmente alla Legge. Soltanto l'obbediente riesce a cogliere lo spirito della legge e ad essere sovranamente libero di fronte ad essa.

Ma il punto cruciale di questo passo sta nella "rivelazione" di chi sia il Bambino che avviene all'interno del Tempio. E questa rivelazione avviene sì nel tempio, ma non da parte della gerarchia, ma per mezzo di due fedeli, due persone anziane che in questo modo di trovano a fare da cerniera, da collegamento tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. La Legge ha spinto la Sacra Famiglia a salire a Gerusalemme e al Tempio, e lo Spirito Santo ha spinto Simeone. E da questo incontro, col canto del 'Nunc Dimittis', l'orizzonte si allarga oltre i confini del popolo d'Israele per abbracciare tutti i popoli.

Ma sotto traccia c'è un altro tema: quello della giovinezza. Simeone e Anna appaiono come due vecchi, ma in realtà sono riusciti a rimanere giovani. Più che accumulare esperienze e delusioni, loro hanno accumulato speranza. Hanno avuto il coraggio dei propri sogni, non hanno rinunciato ad un'attesa impossibile. Sono rimasti «creature di desiderio».
Nel cortile del Tempio, il Bambino è stato preso in braccio da un fanciullo di nome Simeone e da una ragazzina di nome Anna. Maria stessa è una fanciulla. E pure Giuseppe, nonostante una certa iconografia, era un giovane.

Dio si concede esclusivamente ai bambini. Anche a quelli con tanti anni.


(Gen 15,1-6; 21,1-3; Sal 104; Eb 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40)


19 dicembre 2020

Facciamo il Presepe una statuina alla volta: GIUSEPPE

Riprendo (aggiornando) alcune riflessioni proposte anni fa.*


Dopo Maria e i pastori, un’altra statuina immancabile è quella di san Giuseppe.
Immancabile anche se la mettiamo sempre in un angolino della grotta, un po' in fondo e un po' in disparte, dove avanza un posticino.
Ma non penso che questo gli dispiaccia. In fondo tutta la sua vita è stata all'insegna del nascondimento. La sua azione è poco appariscente, e anche la sua paternità è all'insegna della discrezione e del riserbo.
Di fronte all'annuncio dell’angelo, che non fornisce spiegazioni esaurienti, lui ubbidisce, accetta una realtà misteriosa, ma anche tormentosa, nella propria vita, non rifiuta il mistero.

Noi vorremmo sempre tutto chiaro, avere una soluzione convincente a qualsiasi problema, una risposta sempre chiara a ogni dubbio. Ragioniamo, discutiamo, chiariamo, e solo poi facciamo (ma tante volte ci accontentiamo di dire).
Proprio l’opposto di Giuseppe. Lui prima fa e poi, eventualmente, capisce. Noi invece vogliamo prima capire e poi eventualmente fare.

Anche il suo mestiere, falegname dice la tradizione, in realtà a quel tempo era un po’ il tuttofare della comunità, colui che aggiustava, riparava, sistemava ogni cosa, mobili, utensili, case. Anche noi dovremmo imparare l’arte di Giuseppe. Dopo gli incidenti, gli scontri, le liti, quando qualcosa dentro si rompe o si blocca nel nostro rapporto con gli altri, dovremmo avere la pazienza e la delicatezza di riparare i guasti, tentare di rimediare agli inconvenienti, cercare di ricucire, rimettere insieme.
Soprattutto dovremo resistere alla tentazione di fare come si usa oggi con le cose che non funzionano bene: buttare via. Dovremmo resistere alla tentazione di gettare le persone, scartarle, ignorarle, dichiarare che non c’è più niente da fare. Ma soprattutto nel mettere nel presepe la statuina di Giuseppe dovremmo pregarlo perché aggiusti tutto ciò che non funziona. Non nel presepe, ma nella nostra vita di credenti, nella nostra vita di uomini.

Ricordo che dall'8/12/2020 e fino al giorno dell'Immacolata 2021, per volere di Papa Francesco, ricorre l'Anno di san Giuseppe


* Spunti tratti da "La novena di Natale davanti al presepe" di A. Pronzato - Gribaudi (2001)


17 dicembre 2020

Diventa la casa di Dio - 20/12/2020 - IV domenica Avvento

Nella prima lettura sentiamo che il re Davide è preoccupato perché, mentre lui ha una casa per ripararlo dal freddo e dal maltempo, l'Arca dell'Alleanza, cioè Dio stesso, è costretto in una tenda, è senza una dimora adeguata. E invece Dio gli risponde, per mezzo del profeta Natan, che sarà Lui, Dio, a costruire una casa per la discendenza di Davide e per tutto il popolo d'Israele.
Dio dice che la casa che fisserà come dimora universale per tutti gli uomini sarà Lui stesso nel suo Verbo, che verrà a dimorare fra gli uomini per essere la loro stessa dimora, luogo d'incontro. E tutto questo si realizza nell'estrema umiltà, nella semplicità, in quella piccolezza in genere rigettata dagli uomini, ma che invece è esaltante per il Creatore del mondo.

Dio per costruire questa sua casa in mezzo a noi ha fatto le cose con calma, senza clamori ed effetti speciali. Il Vangelo di oggi ci ricorda che Gesù ci ha messo anche lui, come tutti noi, nove mesi per venire al mondo. Gesù non era un bambino speciale, e alla sua nascita non c'è stato nulla di spettacolare, anzi, la nascita del figlio di Dio è posta sotto il segno del rifiuto degli uomini. Gesù non ha bruciato le tappe, non ha fatto salti mortali, è semplicemente cresciuto, poco a poco come ognuno di noi. Ogni nascita è qualcosa di lento, che chiede tempo, pazienza, rispetto; se un seme diventa subito albero, vuol dire che c'è qualche forzatura. Gesù è cresciuto nella fatica, come tutti, nessun privilegio, nessuna scorciatoia. Non è "nato imparato", ma come tutti noi ha dovuto imparare tutto, a parlare, a camminare, a mangiare, a leggere e scrivere, insomma, ha dovuto anche lui imparare a vivere.

Il Vangelo di oggi ci dice che Dio è venuto tra di noi per mezzo di una giovane ragazza sconosciuta, senza meriti particolari; in una ragione, la Galilea, molto periferica e con una brutta fama; in una "città" (che in realtà contava solo circa un centinaio di abitanti) chiamata Nazareth mai prima nominata nella Bibbia; in una casa qualunque, ma che viene visitata da Dio.
Dio è un visitatore. E se noi vogliamo incontrarlo dobbiamo farlo qui, in questa nostra vita quotidiana, perché per rendersi presente, per raggiungere l'intera umanità, Lui ha scelto la comunissima e banalissima quotidianità di Nazareth.

Ma Dio per nascere ha bisogno degli uomini, ha bisogno di una donna e del suo grembo! Una donna, Maria, ha messo a disposizione sé stessa. La grandezza dell'uomo sta in questo: mettere a disposizione sé stesso! È bellissimo quello che chiede il vangelo: non accontentarti di costruire a Dio una chiesa, diventa invece la sua casa, come ha fatto la Vergine Maria! Diventa la casa di Dio!
Dio non si vede ed è vero! Ebbene, anche duemila anni fa non si vedeva, quando una donna lo portava in grembo. È necessario tornare al tempo della gravidanza di Dio; anche questo è il tempo di un Dio che non si vede, il tempo di un Dio nascosto nella vita degli uomini e delle donne di oggi.

Il Vangelo di oggi ci ricorda che non siamo noi ad allestire il presepe per accogliere il Signore, ma è il Signore che crea un solo presepe per accogliere ciascuno di noi.
Quella dei nostri presepi non è un'immagine sentimentale, una semplificazione del vangelo. Al contrario, ne esprime l'essenza. Il Signore stabilisce la sua dimora nella nostra casa. Vive con noi. La nostra storia e la sua storia sono una sola cosa. Stabilisce con noi un'alleanza, una amicizia eterna. Il nostro destino è per sempre legato al suo.


(2Sam 7,1-5.8-12.14.16; Sal 88; Rm 16,25-27; Lc 1,26-38)


15 dicembre 2020

Facciamo il Presepe una statuina alla volta: i PASTORI

Riprendo (aggiornando) alcune riflessioni proposte anni fa.*


Un presepe senza pastori non è un Presepe. In effetti proprio loro sono stati i primi invitati, i primi destinatari della "buona notizia", portata a loro direttamente dagli angeli.

Però nella realtà loro non erano come quelle statuine belle pulite che usiamo noi per i nostri presepi. Anzi!
Nella società ebraica di quei tempi erano considerati al pari di soldati, marinai, prostitute, usurai, esattori delle imposte, cioè dei pubblici peccatori.
A motivo della loro vita errabonda non potevano studiare e quindi osservare la Legge. E quindi erano gente senza legge.
E invece proprio loro, che a causa del loro mestiere, non potevano testimoniare in tribunale, sono chiamati a diffondere la notizia della nascita di Dio in terra, sono chiamati ad esserne i primi testimoni.

Decisamente i modi di Dio non sono i nostri modi. Quando noi dobbiamo diffondere una notizia riempiamo i social, indiciamo una conferenza stampa a cui ci preoccupiamo di invitare le persone più importanti, cerchiamo di metterci sotto le luci più forti.
Dio invece viene di notte, e chiama solo gli ultimi, i reietti, gli esclusi.
I pastori nel presepe ci dicono che le preferenze di Dio non sono le nostre, che la sua lista degli invitati boccia sonoramente la nostra. Lui gradisce la presenza, ma soprattutto la vicinanza, della gente da niente, degli individui che non contano, di quelli che non hanno le carte in regola perché le carte non le hanno (e in effetti sono i primi 'senza permesso di soggiorno').
Ci dicono che c'è sempre qualcuno, che noi magari disprezziamo, che è più vicino al Bambino di quanto noi pretendiamo di essere; e questo perché lui è arrivato prima di noi, ha capito meglio le esigenze del Vangelo, e fa la verità, mentre noi ci accontentiamo di conoscerla.

Ma soprattutto ci ricordano il dovere di accogliere i diversi, gli esclusi, gli immigrati, gli extracomunitari. Quando mettiamo i pastori nel presepe occorre farlo con uno stile penitenziale, domandando perdono per tutti i nostri razzismi, per tutte quelle volte che abbiamo detto, o anche solo pensato, che gli zingari ... i romeni ... i cinesi ... gli arabi ... e via dicendo. Dobbiamo chiedere perdono per tutte quelle volte che abbiamo diviso l'umanità in due: da una parte "noi", i buoni, i giusti, i sani; e dall'altra gli "altri", cioè i cattivi, gli sbagliati, i delinquenti.


* Spunti tratti da "La novena di Natale davanti al presepe" di A. Pronzato - Gribaudi (2001)


12 dicembre 2020

Trieste by night

 Come ogni città, la notte Trieste ha un fascino particolare:

Politeama Rossetti

albero davanti al politeama Rossetti

Politeama Rossetti














luna dietro palazzo Carciotti

le rive

chiesa greco ortodossa di san Nicolò

palazzo della regione

castello di Miramare da piazza Unità

piazza Unità


11 dicembre 2020

Facciamo il Presepe una statuina alla volta: le PECORE

Riprendo (aggiornando) alcune riflessioni proposte anni fa.*


Riprendiamo a mettere nel nostro presepe degli animali. Gesù spesso ci ha parlato di loro e quindi un "discorso su Dio" in cui mancassero sarebbe incompleto, zoppicante.
Oggi metteremo le pecore, gli agnelli. È questa una presenza necessaria, direi insostituibile, per due motivi. Primo, l’agnello ci ricorda il destino "sacrificale" di Gesù, è la profezia della sua Passione (come il suo essere "deposto" (si depone un cadavere) in una "mangiatoia", cioè dove si mette il cibo, è profezia dell’Ultima Cena, dell’Eucaristia). E secondo, la pecora ricorda al futuro Pastore il suo programma di "sollecitudine" verso il gregge: "Il pastore offre la vita per le pecore" (Gv. 10,11-15).

Il Battista ci presenta Gesù proprio così: "Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo" (Gv. 1,29). Al peccato, alla potenza del demonio, Dio non contrappone la forza, ma l’innocenza e la debolezza. Il peccato vede minacciato il suo dominio sul mondo dall'essere più innocuo, indifeso, fragile, vulnerabile.
Il peccato sghignazza di fronte alle voci roboanti, alle condanne implacabili, anche di tanti predicatori. Trema unicamente di fronte alla voce silenziosa, direi quasi al silenzio assordante, del candore, della debolezza, dell’amore che si dona. Tutta la sua potenza non può nulla contro la forza dell’amore.

Noi invece oggi non ci fidiamo più dell’agnello, siamo convinti che per combattere il male del mondo ci vuole ben altro. L’agnello è troppo timido, remissivo, insomma, troppo "buonista". In fondo pensiamo che Gesù è vissuto in un altro tempo, molto diverso dal nostro, che oggi occorre essere equipaggiati, e anche molto bene, per la lotta, bisogna avere armi efficaci. E non ci si accorge che questo agnello così equipaggiato per la lotta, per il dominio, invece di togliere il male dal mondo, finisce per incrementarlo.
Ci dimentichiamo che Gesù ha già definito la nostra società un mondo di lupi. Però non ci ha detto: "siccome dovete affrontare i lupi, attrezzatevi di conseguenza, mostrate i denti, azzannate prima di essere azzannati". Invece ci ha detto: "Vi mando come pecore in mezzo ai lupi" (Lc 10,3). Che ci piaccia o no, i lupi dobbiamo affrontarli, ma con la debolezza dell’Agnello.

L’agnello deve comportarsi da ciò che è, sempre, senza mai neanche travestirsi da lupo. Solo così potremmo contare sul Suo aiuto. «Finché siamo agnelli, noi viviamo. Se diventiamo lupi veniamo vinti. Perché ci mancherebbe l'aiuto del Pastore, il quale pasce agnelli, non lupi» ci ricorda s. Giovanni Crisostomo.


* Spunti tratti da "La novena di Natale davanti al presepe" di A. Pronzato - Gribaudi (2001)


10 dicembre 2020

Mandati da Dio - 13/12/2020 - III domenica Avvento (GAUDETE)

Nel Vangelo di oggi torna Giovanni il Battista, che l'evangelista ci presenta come 'testimone della luce'.
Il Battista è testimone di qualcosa che è molto più grande di lui. Ma questo qualcosa si affida proprio a lui, ad un semplice e umile uomo in un deserto, per manifestarsi.
Ed è bellissima la testimonianza di Giovanni Battista: quando viene interrogato sulla sua identità dice subito chi lui NON è ("non sono il Cristo", "non sono Elia", "non sono il profeta"). Non mette al centro la sua persona. Sa benissimo che lui deve diminuire, per lasciar crescere la luce che viene (Gv 3,30), ed è felice di questo. È importante sapere e accettare ciò che non si è. Solo così è possibile realizzare dei progetti rimanendo sereni e contenti.

E il progetto del Battista è di essere 'voce'. Voce di qualcun altro. Voce che grida nel deserto, luogo dove c'è desolazione e vuoto. Ma è un vuoto che può riempirsi di Dio. Non per niente per gli ebrei il deserto è il luogo dell'incontro con Dio, luogo in cui Dio, per mezzo della Legge, di dona al suo popolo.
E proprio qui questa voce grida: "Rendete diritta la via del Signore", cioè rendetela semplice e accessibile a tutti. Date a tutti la possibilità di incontrare il Signore, di farlo entrare nella propria vita. Giovanni Battista con le sue parole e con la sua vita, indica Qualcuno che è più grande, che sta oltre ma nello stesso tempo è vicino, viene.

Ma il Battista è anche "un uomo mandato da Dio". Un titolo che ci fa pensare a tutti quei piccoli incontri, quelle piccole esperienze che fanno parte della nostra vita e che sono state occasioni di crescita umana e di fede, di conversione e di consolazione. Esperienze e persone che, proprio come Giovanni Battista, non hanno indicato sé stesse, non hanno portato alla dipendenza mentale e non hanno cercato il successo personale. Chi è mandato da Dio come il Battista, attraverso quello che fa e quello che dice, libera il prossimo, indica la strada e lascia andare. È una persona che fa sentire le carezze di Dio, te lo fa sentire vicino.
Ognuno di noi è un 'mandato da Dio' quando aiuta qualcun altro a trovare il proprio posto nel mondo e gli fa sentire Dio vicino, senza fare di sé stesso il metro di tutto .

Come cristiani siamo chiamati a fare come Giovanni: chi sta con noi dovrebbe vedere, dietro il viso, le parole, i gesti e le scelte, che tutto questo richiama qualcun Altro di più grande da cui riceviamo luce e amore, e che è oltre di noi. Dobbiamo essere come belle finestre che si aprono su di un panorama splendido!
Questa è la vera testimonianza cristiana, questo ci fa essere "mandati da Dio"


(Is 61,1-2.10-11; Lc 1; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28)


07 dicembre 2020

Facciamo il Presepe una statuina alla volta: MARIA

Riprendo (aggiornando) alcune riflessioni proposte anni fa.*


Domani è l'Immacolata, e allora oggi nel presepe metteremo la statuina di Maria.

Il Vangelo della Natività non riporta neanche una parola della Madonna. E neanche di Giuseppe. Loro due nel presepe custodiscono il silenzio. Avvolgono il Bambino nel silenzio, ed è questo il loro modo di custodirlo.
L'evangelista Luca è quello che ci parla di più di Maria. E usa spesso questa frase: "serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore".
Noi viviamo in un tempo in cui l'ultima notizia cancella tutto ciò che è accaduto solo pochi minuti prima. Abbiamo la memoria corta, l'ultima emozione cancella ogni altro sentimento. E in questo modo tutto ci scivola addosso, niente ci rimane, ma soprattutto finiamo per non capire più niente, per essere sballottati qua e la come una foglia secca nella corrente di un fiume tumultuoso.

Invece occorre custodire, avvolgere nel silenzio il mistero. Bisogna leggere gli avvenimenti alla luce della fede. Aprirsi progressivamente (e tante volte anche faticosamente, tra molte incertezze e tanti dubbi) alla rivelazione e alla comprensione.
I "valori" vanno prima di tutto custoditi nel profondo dell'anima, riscaldati da un cuore. Senza una fase di raccoglimento, di meditazione, di interiorità non ci può essere racconto, annuncio.
In fondo sia il "riferire" dei pastori che il "serbare in cuore" di Maria fanno parte di una stessa esigenza missionaria. Si tratta di essere attivi nella contemplazione e contemplativi nell'azione. 'Contempl-attivi', secondo una formula di alcuni anni fa.

Ma c'è un'altra cosa. Maria che offre il Bambino all'adorazione dei pastori è una patena. La Vergine ha letteralmente "messo al mondo" il proprio Figlio. Perché lo ha donato al mondo, agli uomini, ai legittimi destinatari. Maria nel presepe è ostensorio e patena. Compie una specie di liturgia eucaristica, ci dice, senza bisogno di parlare: "Questo è il mio Figlio che è per voi ...". A Betlemme, ossia nella "casa del pane" (perché questo è il significato di 'Betlemme'), Maria offre il proprio Figlio per la fame degli uomini.


* Spunti tratti da "La novena di Natale davanti al presepe" di A. Pronzato - Gribaudi (2001)


04 dicembre 2020

Facciamo il Presepe una statuina alla volta: l'ASINO

Riprendo (aggiornando) alcune riflessioni proposte anni fa.*


La Bibbia (Dt 22,10) vieta di mettere insieme, per l’aratura, il bue e l’asino, ma siccome nel nostro presepe noi non dobbiamo lavorare i campi, li possiamo benissimo mettere insieme.
E qui nel nostro presepe la presenza dell'asino può avere due significati.

C’è un episodio molto famoso nella Bibbia (Nm 22,22 e ss.), quello dell'asina del profeta Balaam, che si mette a parlare e salva il profeta. Anche s. Pietro (2 Pt 2,16) fa un commento a questo fatto e sembra che ci suggerisca che se gli uomini ascoltassero gli asini, non commetterebbero tante sciocchezze.
Cioè la verità può benissimo uscire dalla bocca di un asino (anche di quelli a 2 zampe). E questo non ci dovrebbe meravigliare: la verità non dipende dalla nostra supposta grandezza, dai nostri studi o dalla nostra intelligenza. La sua luce dipende unicamente da se stessa, non da chi la dice o la proclama. La verità anzi non è mai così grande come nell'umiltà e nella piccolezza di chi l’annuncia.

Il profeta, nel brano che ho detto, bastona più volte la sua asina. E questo ci da il secondo senso della presenza dell'asino nel nostro presepe: rappresenta le innumerevoli creature "bastonate", umiliate, sfruttate, maltrattate dalla vita e dai propri simili. È l’evidenza agghiacciante di come l’uomo riesca ad essere perverso e disumano nei confronti dei deboli, siano essi animali o esseri umani. Esprime la presenza di tutti gli esseri viventi sottoposti, nei secoli e purtroppo ancor oggi, alle torture più brutali. Porta la protesta di tutti gli uomini e di tutti gli animali maltrattati, violentati, uccisi per i nostri interessi, per la nostra noia o per il nostro egoismo.

Penso che il nostro asino, nel presepe, se ne stia silenzioso. E se farà qualche raglio, lo farà solo per divertire il Bambino. Ma penso anche che non riesca a trattenere qualche sospiro. E Lui capirà: tra deboli ci si intende senza bisogno di parole, basta uno sguardo.


(*) Spunti tratti da "La novena di Natale davanti al presepe" di A. Pronzato - Gribaudi (2001)

03 dicembre 2020

Una notizia che dona gioia - 6/12/2020 - II domenica Avvento

Nella versione greca dei 70 (la versione della Bibbia ebraica per gli ebrei della diaspora che non conoscevano l'ebraico), il libro della Genesi iniziava con la parola 'Arché', la stessa che usa Marco per iniziare il suo Vangelo.
Con Gesù non si ha solo una novità esteriore, di facciata, ma si ha un nuovo inizio della storia. È tutto il creato che rinasce, che ha una nuova vita. E questo nuovo inizio è un Vangelo, cioè una "notizia che dona gioia". La venuta di Gesù è all'insegna della gioia, della felicità!
La gioia è sapere che con Gesù è tutto nuovo, non importa ciò che eri, ma ciò che puoi diventare. Perché Gesù fa nuove tutte le cose e tutte le persone.

E per entrare in questa gioia c'è un posto e una strada: il deserto e la conversione.

Il deserto ha un posto molto speciale nella storia di Israele. È il luogo dell'esodo, del percorso di liberazione dalla schiavitù, ma anche del dono della Legge, dell'alleanza con Dio. È un luogo fisico, ma non solo. Soprattutto è un luogo spirituale, è il momento della vicinanza e dell'intimità con Dio, della purificazione, dell'affidamento totale all'abbraccio di Dio.
È quindi naturale che il tempo definitivo della salvezza inizi proprio da qui. Solo dal silenzio, dal riconoscere i nostri limiti e le nostre debolezze, dallo sperimentare che solo da Dio viene la nostra vita, cioè dai doni del deserto, possiamo aprirci all'incontro con Dio, alla novità di Gesù.

È dall'incontro con Gesù, dal lasciarsi 'fare nuovi' da Lui, che nasce la conversione. Conversione non è un semplice 'smettere di fare il male'. È un cambio totale di mentalità, di modo di pensare, di vedere e percepire il mondo. Smetterò realmente di fare il male solo con un cuore nuovo, solo lasciando che il Signore tolga da noi il cuore di pietra e ci dia un cuore di carne (Ez 36, 26-27).
Convertirsi, più che un 'fare' è un 'lasciarsi fare'. Più che cercare di convertirci, dobbiamo lasciarsi convertire da Gesù. Abbandonare le nostre sicurezze, soprattutto quelle su Dio, per aprirci alla novità di un Dio che si fa piccolo, neonato.

La 'Bella Notizia' è proprio questa: il nostro Dio non se ne sta lassù aspettando che noi facciamo di tutto per arrampicarci fino a Lui. No! Il nostro Dio, il Dio di Gesù, scende fino a noi per prenderci in braccio e portarci fino a Lui. Come una madre amorosa ci porta al suo cuore per consolarci, coccolarci e donarci tutto il suo amore.
La buona notizia è che l'unica fatica che dobbiamo fare è lasciarci abbracciare, lasciarci amare. Nulla di più, nulla di meno.

Oggi è san Nicola. Qui a Trieste è san Nicolò che porta i regali ai bambini, non babbo Natale. Faccio a tutti i bambini gli auguri di un BUON SAN NICOLÒ, che sia l'ultimo che dovete passare lontano dai vostri amici!


(Is 40,1-5.9-11; Sal 84; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8)


30 novembre 2020

Facciamo il Presepe una statuina alla volta: Il BUE

Riprendo (aggiornando) alcune riflessioni proposte anni fa.*


La prima figura che mi capita tra le mani è quella del bue. Non è una figura che sia presente nel vangelo natalizio, però nel presepe ci entra di diritto a furor di tradizione.

Ma che significato ha il bue nel presepe?

Chi ha la mia età, o ancor di più, si potrà ricordare di aver visto in gioventù il bue attaccato all'aratro che percorre il campo. Su e giù, solco dopo solco. Passo lento, sforzo costante, fatica, regolarità. È la nostra vita di tutti i giorni: un lavoro spesso nascosto, a volte duro, comunque ripetitivo, monotono.
Le solite cose ordinarie, i soliti impegni gravosi, i compiti non sempre graditi e poco gratificanti.
Si tratta di realizzare la propria santità con i materiali comuni che ci fornisce la nostra vita ordinaria; nel quotidiano, attraverso il quotidiano, insieme al quotidiano; arrivare a Dio con i vestiti, la polvere e il sudore del nostro vivere quotidiano.

Il bue è a disposizione per le faccende più gravose, i servizi più umili. Non partecipa alle sfilate, non rivendica ruoli più importanti.
Il bue ci ricorda che nella vita ci vuole costanza, determinazione, tenacia, applicazione, pazienza, disposizione al sacrificio, voglia di ricominciare sempre da capo. Ma soprattutto impegno ad arrivare fino in fondo.

Inoltre il bue ha bisogno del giogo per poter esprimere tutta la sua forza. A noi invece il giogo da fastidio; vorremmo muoverci liberamente, senza imposizioni. Scambiamo la spontaneità, la naturalezza, la creatività con l’arbitrarietà, il velleitarismo e il rifiuto di ogni regola e disciplina. Dimentichiamo che la passione va accoppiata col rigore; che la disciplina interiore è indispensabile a governare la propria vita. Picasso sosteneva che ogni quadro era frutto per il 5% di talento e per il 95% di duro studio e lavoro, invece noi vorremmo fare solo ciò che ci piace e senza nessuna fatica, e non ciò che è utile e necessario.

Gesù ha detto: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo su di voi... Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero.” Bella solidarietà, bell'aiuto: noi siamo stanchi, non ce la facciamo più... e lui ci appioppa un carico supplementare. In realtà siamo stanchi perché non camminiamo abbastanza. Siamo stanchi per i pesi, soprattutto degli altri, che non intendiamo portare.


(*) Spunti tratti da "La novena di Natale davanti al presepe" di A. Pronzato - Gribaudi (2001)


26 novembre 2020

ATTENZIONE! Arrivo In Corso! - 29/11/2020 - I domenica Avvento

Inizia oggi l'Avvento, il tempo dell'attesa, del tempo che sembra non arrivare mai, della lentezza. Michelangelo Buonarroti, che oltre ad essere scultore era anche scrittore, diceva che "l'attesa è il futuro che si presenta a mani vuote". Ma la nostra non è l'attesa alla coda della cassa del supermercato o quella in una delle tante sale d'aspetto della nostra vita. È per questo che Vangelo di oggi è racchiuso tra due verbi: 'attendere' e 'vegliare'.

Attendere. Ricorda un arciere che sta per scoccare la sua freccia verso il bersaglio, ricorda Usain Bolt (o un qualsiasi altri velocista) ai blocchi di partenza di una finale olimpica. Una situazione apparentemente statica, ma in realtà piena di energia pronta a liberarsi. L'attesa dell'Avvento non è un'attesa passiva, annoiata, fatta pensando ad altro tra un'occhiata veloce all'orologio e una annoiata al vicino. È l'attesa attenta per cogliere il momento di liberare la freccia, di liberare tutta l'energia dei muscoli allenati.
È l'attesa di cogliere il passaggio di colui che sta arrivando, ma che è già qui. Di colui che ci ha assicurato 'io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo' (Mt 28, 20)

Vegliare. Penso ad un genitore che passa la notte accanto al letto del figlio malato, penso ad un padre che attende trepidante fuori da una sala parto. Penso alle mie notti in raffineria, quando si iniziava ad alzare gli occhi dagli impianti per guardare il cielo verso est in attesa di vedere 'un sole che sorge dall'alto' (Lc 1, 78). Anche se notte, anche se piena di stanchezza, però non è una situazione sonnolenta.
È un essere attenti al presente, ma col cuore colmo di speranza proiettato al futuro. Ad un futuro di cui già ora si vedono i primi segni, di cui già ora si inizia a sentire il profumo.

Attendere, vegliare non sono altro che un modo di vivere la virtù teologale della speranza. In spagnolo "attendere" si dice "esperar". Solo un cuore pieno di speranza riesce ad attendere, riesce a vegliare. Solo un cuore pieno di speranza riesce a vedere i segni della fine dell'attesa, della fine della notte.
Senza attesa attenta, senza veglia vigile, quindi senza speranza, corriamo il rischio di fare come gli abitanti di Betlemme. Loro dicevano di aspettare il Messia, ma la loro era l'attesa stanca di chi aspetta solo che la fila davanti a lui si esaurisca. Per questo quando è passato tra di loro chiedendo 'permesso, posso entrare?' non gli fecero posto. Né nelle loro case, né nel loro cuore.

Quando guidiamo dobbiamo stare attenti a tutti i segnali stradali, tra i quali c'è quello di "Attenzione!!! - Lavori in corso". Nella nostra vita di fede l'Avvento è simili ad uno di questi segnali. È un segnale che ci dice: "Attenzione!!! - Arrivo in corso"


(Is 63,16-17.19; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37)


19 novembre 2020

Dio ci vuole tutti promossi - 22/11/2020 - XXXIV domenica tempo ordinario - Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo

Penso che questo passo del Vangelo rappresenti il sogno di ogni studente: avere, molto tempo prima, tutte, ma proprio tutte, le domande che ti verranno fatte all'esame finale!
In questa scena descritta da Gesù ci appare un Dio molto differente da quello che i nostri timori, quando non le nostre paure, ci facevano immaginare. È chiaro che Dio, all'esame di matura della nostra vita, ci vorrebbe tutti promossi.

A ben guardare, Gesù non pronuncia nessun giudizio di condanna: Lui prende atto, convalida le nostre scelte. Dio è amante totale della nostra libertà, perché solo nella libertà si può amare veramente. Donandocela ha scelto di dipendere dalla nostra libertà. Ma il suo sogno non è mai cambiato: che nessuno si perda di tutti quelli che ha creato. Però qualcuno desidera andare per conto suo, fare di testa sua. In questo caso Dio accetterà di vedersi rifiutato l'amore pagato col sangue. E noi non potremmo mai immaginare quanta sofferenza gli costi questo!
In fondo il giudizio sarà proprio questo: rivelarci la nostra verità. E alla fine Lui approverà il nostro progetto di eternità. Sarà la benedizione della libertà. Perché amare è aspettarsi tutto, anche il contrario di tutto. E se il nostro progetto è contrario al suo, Lui, con sofferenza infinita, lo firmerà lo stesso. Lui rispetta la nostra libertà. Si è fatto anche ammazzare, per non limitarla. E questo, non per indifferenza, ma per Amore. Per un amore così immenso, che noi non riusciamo neanche ad immaginare!

Dio ci vuole tutti salvi, ma alla fine separa le pecore dalle capre. Ma non è Lui che decide chi è l'una o l'altra. Se essere pecora o capra, buon grano o zizzania, vergine saggia o stolta, lo decidiamo noi, solo noi. Noi con la nostra vita, con le nostre opere. Con l'amore che abbiamo vissuto o non vissuto.
Una cosa mi colpisce: nel racconto della nostra vita che il Re fa alla fine della nostra esistenza, non c'è una sola volta la parola 'Dio'. Perché? Forse perché non dobbiamo venerare Dio? Assolutamente no, solo che è una cosa riservata solo ad alcuni, a quelli che credono e praticano una religione. Di andare a messa tutte (o quasi) le domeniche, di dire le preghiere e fare il segno di croce, di amare Dio, la Madonna e i Santi recitando con devozione qualche litania, di evitare la bestemmia e di avere un solo Dio in testa, sono capaci tutti. Ma Dio non vuole limitare la sua gioia, il suo non è un banchetto a numero chiuso. Lui mette le sue richieste al minimo, proprio per far entrare più gente possibile. Alla fine chiede una cosa sola: aver amato. 'Alla sera della vita, ciò che conta è aver amato', diceva san Giovanni della Croce.

E in questa pagina Gesù ci spiega anche come fare. Lui coniuga il verbo amare nel tempo feriale, nel tempo della nostra vita di tutti i giorni, non in quello festivo, delle solennità e delle feste comandate. Andare a Messa, pregare sono cose importanti, ma se non si incarnano in atti concerti di amore non ci portano alla salvezza, ma alla condanna.
Gesù non fa lezioni né interrogazioni di teologia, ma usa i verbi della vita quotidiana: mangiare, bere, ospitare, vestire, visitare, provare pietà. Sono verbi che, se li mescoliamo insieme, danno come un solo risultato: il Paradiso.
L'eternità la possiamo trovare in un boccone di pane condiviso, in un sorso d'acqua offerto, in un sorriso, in un abbraccio, in una porta aperta, in un cuore accogliente. Chiudere le porte, anche quelle del nostro cuore, agli altri vuol dire chiuderci le porte del Paradiso e spalancarci quelle dell'inferno.



(Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46)


14 novembre 2020

Pensa agli altri


Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.


(Mahmoud Darwish 1941-2008)


12 novembre 2020

Guadagnare la gioia divina - 15/11/2020 - XXXIII domenica tempo ordinario

Il ritratto del Padre che ci fa Gesù in questa parabola è quello di un uomo molto generoso, che conosce molto bene i suoi servi e si fida di loro al punto di affidargli le sue ricchezze. Per capire il valore di quanto consegnato dobbiamo tener presente che un talento era l'equivalente di circa 20 anni di uno stipendio medio del tempo!
Dobbiamo poi ricordare che servo non è schiavo. A quel tempo essere servo di un signore era una carica di un certo prestigio, quasi un titolo onorifico, in quanto era riservato a coloro che erano più vicini al padrone, coloro che erano maggiormente degni di fiducia e anche di confidenza.

E questo padrone dimostra di conoscere i suoi servi in quanto non fa parti uguali dei suoi averi, ma li affida in base alle capacità di ognuno. E poi parte. Cioè si ritrae, si fida talmente che lascia fare. E due dei servi, pieni di entusiasmo, si danno da fare, mentre uno, pieno di paura, non fa niente, si nasconde.
Penso che quel padrone abbia sofferto moltissimo per quella frase "ho avuto paura". Lui ha cercato fino dall'inizio un rapporto di fiducia e confidenza, un rapporto di amicizia e calore. E invece il servo non ha capito niente. Quella paura è quasi uno schiaffo. È un ripetersi del peccato di Adamo! (Gen 3,10)
Dio, perché questo padrone della parabola descrive proprio il Padre, avrebbe preferito un investimento sbagliato, piuttosto che questo non aver fatto niente. Un investimento sbagliato vuol dire che comunque ho avuto fiducia sul fatto che il padrone mi avrebbe capito. Vuol dire che non ho dubitato né di Lui né di me.
Dio si sente più offeso dalla paura di Lui che dai nostri errori, specie se fatti in buona fede.
Il padrone non ha avuto paura di rischiare la fiducia nel servo, il servo ha avuto paura di affidarsi alla fiducia del padrone.
Il Dio della paura è dannoso, è frutto della malizia di Satana, che sogna di far morire l'uomo. Al contrario, Dio Padre, a chi ha fiducia in Lui, assegna cifre enormi, da capogiro: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone». Il guadagno della gioia. Ma non una gioia qualunque, bensì una gioia divina, infinita.

Un'ultima considerazione. Fin dai primi secoli si sono identificati i 'talenti' affidati come delle capacità. E lo si è fatto sino al punto che ancora oggi 'talento' è sinonimo di 'particolare capacità, abilità innata'. Ma il Vangelo non dice questo. Il Vangelo dice che il padrone dà i talenti «secondo le capacità di ciascuno». Le capacità ci sono già prima di ricevere i talenti.
E allora cosa sono, per noi qui e oggi, questi talenti, questi doni enormi che il Signore ci dà?
Ognuno di noi nasce con delle capacità, delle abilità particolari. Penso che i talenti che il Signore ci dà sono le situazioni e le persone che Lui mette ogni giorno nella nostra vita. Le mette perché possiamo usare i nostri 'talenti' per imparare ad amare sempre di più e meglio, per essere testimoni e ambasciatori del suo amore, e così fare in modo di portare avanti e far crescere il suo Regno. È questa la Sua e nostra più grande ricchezza.
Non approfittare di questa ricchezza che ci viene affidata, paralizza il regno di Dio, ci rende più soli e più tristi. Da costruttori di un regno di gioia ci fa scavatori di tombe.


(Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30)


08 novembre 2020

 Trieste di mattina presto e con un po' di foschia ha un fascino tutto particolare:


(foto fatta il 2/11/2020)


05 novembre 2020

L'olio dell'amore - 8/11/2020 - XXXII domenica tempo ordinario

Ho lottato con questa parabola per decenni. Non la capivo, mi sembrava in aperto contrasto con quanto diceva Gesù di solito. Lui che diceva che "nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv. 15, 13) adesso loda chi non ha dato un po' di olio! I casi sono due: o Gesù si contaddice o io non capisco cosa vuole dire. In tutta sincerità penso che la risposta corretta sia la seconda!

E allora ho iniziato a cercare di capire, a leggere, appena mi capitava, commenti e spiegazioni. Ma nessuna mi convinceva. Nonostante tutto, le cinque vergini, più che sagge, mi sembravano sempre delle egoiste un po' inacidite. E non mi interessava sapere se fosse normale che lo sposo facesse ritardo o che ci fosse un matrimonio ma la sposa fosse assente o almeno neanche nominata.
Questo fino a che non trovai una spiegazione di un monaco russo (Teofane il Recluso, per chi volesse sapere chi fosse).

Sono dieci vergini, cioè dieci persone che hanno vissuto secondo la legge. Hanno seguito tutte le regole: hanno santificato le feste, hanno fatto regolarmente la comunione, non hanno rubato, non sono state invidiose o meschine, non hanno mai né sparlato né pensato male di nessuno. Insomma, una vita da sante.
Allora cos'è che le rende differenti, cos'è quell'olio "in piccoli vasi" che fa la differenza tra loro? e perché non è possibile condividerlo con chi non ce l'ha?

Quell'olio è l'amore. Le sagge hanno condotto la loro vita in maniera santa per amore. Per amore del Signore e per amore del prossimo. Le stolte invece l'hanno fatto per altro, forse per abitudine, forse per dovere, forse per consuetudine, per tradizione. Cioè per tanti motivi, che non è detto siano riprovevoli, ma che non sono l'unico motivo valido, l'unico necessario: l'amore.
L'amore vero, e la fede si colloca a questo livello di relazione tra Dio e l'essere umano, produce una conoscenza della persona amata che l'intelletto, da solo, non potrà mai assicurare. Non è un caso che la Bibbia parli del rapporto intimo coniugale, utilizzando l'espressione 'conoscere uomo' e 'conoscere donna'. È l'amore, cioè la fede vissuta in modo non superficiale, distratto, formale, che rende sapienti e sagge quelle cinque ragazze.

E quindi chiaro perché non potevano condividere l'olio: posso amarti, posso mostrarti il mio amore per Dio e per gli esseri umani, posso anche cercare di insegnarti ad amare, ma non posso prendere il mio amore e mettertelo nel cuore. Posso coprire la tua vita di amore, sommergerla, ma non posso far entrare l'amore dentro te. Sei tu che devi lasciarlo entrare.

La differenza tra le ragazze è che le stolte professavano una religione, le sagge vivevano una fede.


(Sap 6,12-16; Sal 62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13)


29 ottobre 2020

Dio ci vuole felici - 1/11/2020 - Solennità di TUTTI I SANTI

Le letture di oggi ci presentano una moltitudine di esseri umani. Veramente la santità riguarda tutti. La "vocazione universale alla santità" dice il Concilio Vaticano II (Lumen gentium, 39-42). Dio non esclude nessuno, neanche l'uomo più dimenticato, neanche la persona più peccatrice. Neanche chi non ha mai sentito parlare di Gesù il Cristo, morto e risorto. Tutti siamo chiamati ad entrare nell'esperienza dell'Amore di Dio. Dio è di tutti. Dio è per tutti. Lui vorrebbe che tutti partecipassero alla sua gioia.

La santità non è una cosa che riguarda preti, frati e, se va bene, qualche suora. No! Riguarda tutti. Riguarda l'operaio in cassa integrazione, il sindacalista che si batte per diritti sacrosanti, la madre che vive del lavoro e del tempo a casa, gli adolescenti ribelli e smarriti, i malati degli ospedali, i carcerati, gli uomini che hanno trovato casa sotto i ponti o nei portoni, gli immigrati sballottati tra un ufficio e l'altro delle nostre burocrazie. Se facciamo attenzione, nessuna delle caratteristiche dei beati, tranne l'ultima, ha a che fare con l'essere religiosi o anche solamente credenti. Perché la santità è per tutti gli uomini 'di buona volontà'. E lo è per il solo fatto di essere uomini, non per il loro status o la loro religione.

Perché la chiamata alla santità non è altro che la chiamata alla felicità. Essere santi vuol dire essere felici. In una vita santa non c'è spazio per la tristezza.
Ma attenzione: felicità non vuol dire darsi alla pazza gioia, ridere e scherzare sempre, oppure comportarsi da 'gaudente' attraverso una vita di solo divertimento. Credo che neppure la metà delle persone che passano la loro esistenza a divertirsi e a fare baldoria, possa dirsi realmente felice.
Non si deve confondere la felicità con la pazza gioia! Perché, nell'ottica del Vangelo, la ricerca della felicità coincide con la ricerca della santità. E la santità la ritroviamo in quella parolina ripetuta per ben nove volte nel Vangelo di oggi: 'Beati'.
Essere incamminati verso la santità significa essere felici; ed essere felici significa essere 'beati'.
Che è l'esatto contrario di quello che pensa il mondo, e tante volte anche noi, cioè 'avere fortuna', una fortuna da suscitare invidia (della serie: 'Beato te!', 'beata lei!').
No: essere beati significa esserlo 'nonostante tutto', o, meglio, 'grazie a qualcosa'.
- Possiamo essere beati grazie alla nostra ricerca dell'essenzialità, che ci fa essere poveri nello spirito;
- possiamo essere beati grazie alla nostra mitezza, che ci fa spegnere ogni tentativo di inutile polemica;
- possiamo essere beati grazie ai nostri comportamenti misericordiosi, che ci renderanno amati da tutti;
- possiamo essere beati grazie alla nostra purezza di cuore, alla nostra semplicità quasi ingenua, che ci fa impazzire di gioia stando insieme ai bambini e sapendo giocare con loro e come loro anche se siamo adulti;
- possiamo essere beati grazie alla nostra opera di pacificazione e di ricerca della pace sempre, sopra tutto e nonostante tutto.

Nonostante tutto, infatti, si può comunque essere beati, santi, se si ha la serenità nel cuore:
- nonostante ci si trovi nella sofferenza per la malattia o nel pianto per la morte di una persona cara;
- nonostante ci si senta perseguitati dalle ingiustizie, a livello personale o sociale;
- nonostante desideriamo giustizia per noi e per i nostri cari e non la otteniamo;
- nonostante ci sentiamo minacciati, oppressi, condizionati, controllati, perseguiti, vessati, oggetto di ossessioni, privati della nostra libertà.
Perché la ricerca della beatitudine, la felicità, passa attraverso la lotta contro ogni forma di oppressione, di ingiustizia, di negazione della libertà o della dignità umana.
Non possiamo essere incamminati verso la santità, se non siamo felici; non possiamo sentirci veri cristiani se non abbiamo la felicità nel cuore; e se non l'abbiamo, Dio oggi vuole da noi che facciamo di tutto, ma veramente di tutto, per essere felici.
Perché lui ci vuole così: non ci vuole martiri e sofferenti, ci vuole santi.
Cioè felici.


(Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12)


21 ottobre 2020

Dieci parole riassunte in una sola - 25/10/2020 - XXX domenica tempo ordinario

Anche uno studente dei primi anni di una scuola rabbinica sapeva che il comandamento più grande, più importante era il quarto (terzo per noi) cioè quello che prescrive il riposo del Sabato, perché anche Dio lo aveva osservato («e il settimo giorno si riposò», Gen 2,2). È chiara quindi l'intenzione del dottore della legge di incastrare Gesù.

La risposta di Gesù va oltre, spiazza, esce dal risaputo per andare al cuore non solo della Legge, ma di tutta la Bibbia. E riduce, condensa le dieci Parole, le seicento e passa regole ebraiche, in una sola parola: "amerai". E la sua è una riduzione che non toglie niente, anzi, aggiunge ancora più significato, ancora più senso!

'Amerai' non come comandamento, non come obbligo (il verbo 'amare' non ha l'imperativo, perché non si può obbligare ad amare) ma come risposta. Amerai perché sai di essere amato. Amerai perché hai scoperto che Dio ti ama così come sei, con tutti i tuoi pregi ma anche con tutti i tuoi difetti, con tutte le tue luci, ma anche con tutte le tue ombre e le tue oscurità, con tutto ciò che di bello e grande hai fatto nella tua vita, ma anche con tutte le tue meschinerie e le tue brutture. Amerai perché quando scopri il Suo amore non potrai farne più a meno. Amerai, al futuro, perché solo l'amore ti apre all'eternità, solo l'amore ti proietta nell'eternità.
Amerai Dio perché ti sei scoperto amato da Lui. E il suo amore è immenso, è totale, ma soprattutto è del tutto immeritato. Amerai Dio perché hai scoperto che non devi valere per essere amato da Lui, ma che vali perché sei amato. E il Suo amore ti rende una persona preziosa.

E proprio per questo amore che Dio riversa con sovrabbondanza nel tuo cuore, nella tua vita, non potrai non amare chi Lui ama, cioè tutti gli esseri umani, nessuno escluso. Amerai il prossimo perché è amando il prossimo che rendi concreto e vivo l'amore per Dio, l'amore di Dio.
L'amore per Dio e l'amore per il prossimo sono simili. Vengono in mente le parole della Genesi, dove dice che l'uomo e la donna sono stai creati simili a Dio (Gen 1,27). L'uomo è l'immagine di Dio! Dio mette nel volto e nella vita di ogni singolo essere umano il suo volto e la sua vita. Non possiamo dire di amare Dio se non amiamo il prossimo, tutto il prossimo!

E poi c'è la terza parte, molto spesso dimenticata quando non denigrata! Amerai te stesso.
Ama te stesso, amati come un prodigio della mano di Dio, come un sorriso divino. Amati perché sei un figlio prediletto, amati perché sei una perla preziosa, amati perché sei un dono d'amore che Dio fa al mondo.
Se non ami te stesso, non sarai capace di amare nessuno, saprai solo prendere e accumulare, fuggire o violare, senza gioia, né intelligenza, né stupore.


(Es 22,20-26; Sal 17; 1Ts 1,5-10 ;Mt 22,34-40)


15 ottobre 2020

Entrare nella gioia di Dio - 18/10/2020 - XXIX domenica tempo ordinario

Frase famosissima quella di oggi: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». I farisei sembra non abbiano nient'altro da fare che non cercare di 'cogliere in fallo' Gesù.
Ma Gesù non si lascia abbindolare. Chiede di vedere la moneta del tributo, ma non perché non la conoscesse, anzi. Così dalle borse di chi aveva posto la questione usce quella moneta; eppure non era lecito ad un ebreo osservante avere immagini, ma sappiamo bene che gli affari sono affari e nella vita occorre usare i compromessi. Ecco quella moneta messa in mezzo, da imputata diventa testimone d'accusa.
I farisei domandano se è lecito pagare a Cesare. Gesù dice che dobbiamo rendere, cioè tutti dobbiamo pagare per i servizi che raggiungono tutti. Sanità, scuola, strade, servizi vari vanno pagati da tutti perché raggiungono tutti. Evadere le tasse, cioè non restituire, non è seguire ciò che dice Gesù.

Date a Cesare come si dà a Cesare, cioè dò cose per avere cose, ma date a Dio come si dà al Signore. Ma come si dà ad un padre? Cambia la modalità. Deve cambiare il cuore. Da un rapporto di dare-avere dobbiamo passare ad un rapporto filiale, da un rapporto economico dobbiamo passare ad un rapporto d'amore.
A Cesare non si da mai per gioia, ma per dovere. Nella relazione col Padre scopriamo che veramente «c'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). A Dio diamo con gioia, non perché ci dia, ma perché ci ha dato. Diamo non per dovere, ma per amore. Diamo per gioia. Diamo per entrare nella sua gioia.

La seconda parte della frase non è un parallelismo della prima. In realtà è un salto di livello totale. Se per vedere l'immagine di Cesare è stata necessaria una moneta, qual è l'immagine di Dio? L'uomo! Noi siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio. Noi siamo l'immagine di Dio. E allora restituire a Dio, vuol dire anche restituire ai poveri, agli esclusi, agli sfruttati, alle vittime dell'ingiustizia, ai senza voce, ai dimenticati, a tutti i bastonati dalla vita, nessuno escluso, la loro dignità. Dio non incassa i suoi tributi solo in chiesa. Anzi, Lui preferisce incassare agli sportelli dell'umanità.


(Is 45,1.4-6 Sal 95 1Ts 1,1-5 Mt 22,15-21)


08 ottobre 2020

Di fronte ai nostri rifiuti, Dio allarga ancora di più il suo amore - 11/10/2020 - XXVIII domenica tempo ordinario

E così, dopo tre domeniche a lavorare nella vigna, oggi Dio si mette i vestiti della festa. Proprio come i nostri nonni, che una volta finito il raccolto, una volta finita la vendemmia, facevano una grande festa invitando tutti, i vicini, gli amici, i conoscenti.
Ma questa volta c'è un motivo più importante del raccolto per festeggiare: il figlio si sposa! Fare festa - mangiare, bere, ridere, ballare, cantare, insomma, raccontarsi e godere la vita - è la caratteristica principale del Dio cristiano. Il Padre che ci rivela Gesù è un dio che vuole la felicità e la gioia per noi, perché è felice solo se lo siamo anche noi.

Dio vuole sempre fare festa insieme a noi. Siamo noi che non vogliamo fare festa con Lui. Abbiamo sempre qualcosa di più importante, qualcosa di più urgente, qualche impegno inderogabile, qualche affare più redditizio. Anche se ci arriva l'invito del re, gli diciamo chiaramente che lui non è abbastanza importante per noi; che lui, per noi, non conta niente.
Matteo per indicare l'invito alla festa usa il termine greco 'kalèo', che significa chiamare, dare il nome. Indica l'atto di interpellare un altro allo scopo di farlo venire più vicino a sé sia fisicamente che nel senso di un rapporto personale. Ecco cosa si perde chi è troppo concentrato sulle sue cose e rifiuta l'invito: la relazione, il rapporto personale, l'intima amicizia col re!

Ma Dio non si lascia scoraggiare dai nostri rifiuti. Non sono le nostre defezioni che faranno fallire la festa! Noi non riusciamo a spezzare i sogni di Dio, anzi! Magari gli facciamo allungare un po' la strada, ma nello stesso tempo glieli allarghiamo, li rendiamo più grandi. Perché Dio non si arrende mai. Provocato dal rifiuto, accelera in amore: «andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». Ecco, gli invitati da molti sono diventati tutti.
Questi invitati arrivano dagli scantinati, dai nascondigli, dalle scarpate, dai tuguri polverosi di periferia. Sono mendicanti, gente con le occhiaie, persone smunte dal troppo patire, frequentatori assidui dei nostri cassonetti delle immondizie. Sono loro che realizzano il sogno del re: «la sala delle nozze si riempì di commensali»

Alla fine anche il re entra nella sala. Gesù ci parla di un Dio vicino, ci svela un Dio che si siede accanto per magiare e brindare con noi gomito-a-gomito. Non un Dio assiso nell'alto dei cieli, ma seduto al tuo fianco a festeggiare. Dio è qui, non lassù. È con noi nei giorni di festa e in quelli di mestizia, nelle lacrime e nei sorrisi, nei momenti di tremore e in quelli di stupore.
Ma è un Dio attento ai più piccoli particolari: «Scorse un uomo che non indossava l'abito nuziale». Tutti sono riusciti a trasformare, non si sa come, i loro cienci in un abito nuziale, ma lui no. È come se non avesse creduto alla festa. Non ha capito che Dio viene come uno Sposo, che è un esperto di feste. Non ha capito che in cielo si fa festa per un ogni peccatore pentito, per ogni figlio che torna.
Non credere che Dio goda a festeggiare ogni essere umano, significa venir cacciati dalla Sua festa.


(Is 25,6-10 Sal 22 Fil 4,12-14.19-20 Mt 22,1-14)


01 ottobre 2020

Per Dio amare vuol dire 'non trattenere per sé' - 04/10/2020 - XXVII domenica tempo ordinario

Anche oggi al centro del Vangelo c'è una vigna.
Una vigna piantata e curata con molto amore dal padrone. Un bene amato e prezioso, lasciato poi alla cura di alcuni contadini. E il padrone si fida tantissimo di questi contadini, al punto che se ne va lontano. Dio consegna tutto, la vigna e la passione per la vigna. Dio non tiene niente per sé.
In questo si misura la distanza tra i pensieri di Dio e i nostri pensieri.
Quando noi ci siamo dati da fare, abbiamo faticato e sudato per fare, per ottenere una cosa bella, facciamo fatica a separarcene. Dio invece la vuole condividere. Per Dio amare vuol dire 'non trattenere per sé'.

In cima ai pensieri di Dio c'è la speranza di una vigna goduta insieme, gli uomini e Lui, in una festa senza fine. C'è la condivisione.
In cima ai pensieri umani l'eredità. C'è l'avere, il possedere, il prendere, l'accumulare.

Visto che siamo in una vigna, si potrebbe dire che ci troviamo di fronte a due ubriacature contrapposte:
- da una parte Dio, ubriaco di speranza e di amore;
- dall'altra l'uomo, ubriaco del sentirsi capo, dell'auto nominarsi padrone.

Ma Dio non si arrende. È così innamorato di noi che dopo ogni tradimento continua a venirci incontro con nuovi servitori, nuovi profeti, con il figlio! Il desiderio di Dio è che gli uomini possano ricevere il frutto di quello che è stato il suo lavoro attento e premuroso. Il desiderio di Dio è che gli uomini possano lavorare responsabilmente dove Dio stesso ha lavorato.

Gesù sta parlando con persone che si sentivano padroni della vigna che Dio aveva affidato al popolo eletto, e gli racconta di qualcuno che si comporta da padrone di qualcosa che non è suo, ma gli è stato affidato. Però Gesù, con la sua vita, ci insegna che ciò che veramente conta è condividere e non trattenere, farsi servi e non desiderare di essere padroni, ascoltare sempre e non credere di sapere già tutto della Sacra Scrittura e di Dio. Sentirsi padroni allontana dai pensieri di Dio e dal suo modo di agire, tanto che quando Gesù fa una domanda sulla reazione del padrone della vigna alla notizia dell'assassinio del figlio, la risposta dei sacerdoti e degli anziani manifesta ancora una volta una logica distante anni luce dalla logica di Dio: Una morte terribile! Li farà morire miseramente!
Questa non è la logica di Dio, perché il nostro Dio non conosce la vendetta, o meglio la sua vendetta è il perdono, è la misericordia, la sua vendetta è che quello che gli uomini rifiutano, scartano, Dio lo sceglie per costruire il suo Regno: suo Figlio sarà la pietra angolare di una nuova costruzione, di una nuova vigna.

Perché Dio non si lascia abbattere dai nostri tradimenti. Lui continua a lavorare per preparare una vigna che darà il vino per il banchetto finale.
Perché se noi ci allontaniamo da Lui, Lui non ci rincorre, Lui ci viene incontro.
Non ci raggiunge alle spalle. Anche se credevamo di avergli voltato le spalle, ce lo troviamo di fronte.
A guardarci negli occhi. Con un amore infinito e mai stanco (Pietro ce lo può confermare per esperienza diretta).


(Is 5,1-7 Sal 79 Fil 4,6-9 Mt 21,33-43)


23 settembre 2020

Dio vuole fare festa con tutti noi - 27/09/2020 - XXVI domenica tempo ordinario

Ancora una volta una vigna.
Come domenica scorsa, come tanti passi dei Vangeli e di tutta la Bibbia.
Ma mentre nell'Antico Testamento la vigna è simbolo del popolo d'Israele, per Gesù ha anche un altro significato, più profondo. È il simbolo del Regno di Dio che è già qui, adesso e ora, ma che sarà pieno un domani, quando le viti avranno fruttificato e i grappoli spremuti avranno dato il loro dono: il vino per la festa senza fine. È per questo che 'lavorare nella vigna del Signore' non è faticare sotto un padrone esigente o un padre tiranno. Lavorare nella vigna è la gioia di preparare insieme una grandissima festa. La vigna è la speranza di un futuro felice e sereno con tutti i fratelli e le sorelle. Speranza che possiamo rendere reale e concreta.

Una vigna dicevo. Ma qui invece del padrone della settimana scorsa abbiamo un Padre e due figli. Viene in mente la parabola del Padre Misericordioso (Lc 15,11-32). Anche lì abbiamo un Padre con due figli, e anche lì la parabola è indirizzata ai capi religiosi (sacerdoti e anziani in Matteo, farisei e scribi in Luca).
Il fondamento di tutta la nostra fede è qui: Dio è padre, è Padre di ogni uomo! È da qui che deve partire la nostra fede. Perché negare la fraternità con tutti gli esseri umani significa negare la paternità di Dio, significa negare Dio.
Possiamo sapere a memoria tutto il catechismo, tutta la Bibbia, ma se non riconosciamo tutti gli altri come nostri fratelli, siamo come il secondo fratello, quello che dà la risposta corretta ma non fa la volontà del Padre, come il fratello più grande in Luca, che non vuole partecipare al banchetto.

Ma c'è anche l'altro figlio, quello che dice di no. Un figlio impulsivo, che cerca lo scontro più che il confronto. Ma a cui poi succede qualcosa che l'ha disarmato, gli ha fatto cambiare idea, gli ha fatto cambiare modo d'agire, gli ha fatto cambiare vita! Cosa sia successo non sappiamo, a ognuno di noi è successo qualcosa di differente e unico, ma ha scoperto che il Padre non era un despota, non era uno interessato al possibile guadagno, ma era un papà pieno di amore che voleva solo fare festa per godere della reciproca compagnia.

Perché il desiderio più grande di Dio è proprio questo: fare festa con noi. Con tutti noi. E per questo Lui discende. Ce lo dice proprio la seconda lettura di oggi. Dio è disceso con l'Incarnazione, ma anche dopo si è chinato su ogni uomo per invitarlo alla festa. Si è chinato con l'adultera, con la lavanda dei piedi, con la cananea. Tutto il Vangelo è un chinarsi di Gesù. Gesù è Dio che discende e si china per poter Ascendere portandosi dietro tutta la storia, tutta l'umanità.

Tutti siamo invitati alla festa, sta a noi accettare o meno l'invito. Perché Dio, come il padre della parabola, ha bisogno della collaborazione dei suoi figli. Non può salvare me senza di me e non può salvare te senza di te. Come diceva Sant'Agostino "Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te"


(Ez 18,25-28 Sal 24 Fil 2,1-11 Mt 21,28-32)


17 settembre 2020

Dio non pensa come noi. Per fortuna! - 20/09/2020 - XXV domenica tempo ordinario

Ha proprio ragione il profeta Isaia quando, nella prima lettura, dice che il modo di pensare di Dio è lontanissimo dal nostro. Per rimanere nella parabola di oggi, noi pensiamo che il padrone dovrebbe pagare gli operai per il lavoro fatto. Ma Dio non è d'accordo.
Pagando gli operai dell'ultima ora come quelli della prima, Dio non si è limitato a pagargli il lavoro, ma li ha anche risarciti di tutte le porte sbattute in faccia durante la giornata. Li ha risarciti di tutti i "le faremo sapere" detti mentre la domanda veniva buttata nel cestino, di tutti i "non ha abbastanza esperienza", "ha troppa esperienza", di tutti i "non assumiamo stranieri", "non assumiamo neri", "non assumiamo donne". Li vuole risarcire di tutte quelle volte che la loro dignità di persone è stata calpestata, di tutte quelle volte che gli è stato negato il diritto di potersi guadagnare il pane quotidiano con onestà e senza doverlo mendicare.

Perché Dio non sta in casa ad aspettare che gli vengano a chiedere un lavoro. Lui esce, va per le strade a cercare le persone. E non si accontenta, continua ad uscire fino al termine della giornata, sempre pronto a chiamare chi trova ancora per strada. Come non abbandona la pecorella smarrita, così non abbandona le persone spogliate della loro dignità. Lui è più interessato ai lavoratori che al lavoro da fare. È per questo che è sempre Lui a chiamare, sia gli ultimi operai che i primi.

È difficile per noi capire questo sguardo di Dio. Questo padrone buono non viene capito neanche dai suoi operai, specie quelli della prima ora. Dimenticano che loro hanno patteggiato con Lui, sono giunti ad un accordo economico, e quello ricevono, alla fine. Ma gli altri si sono semplicemente fidati, non hanno chiesto niente.
Con Dio non conviene mai trattare! Se tratti con Lui, al massimo ricevi quello che hai chiesto; se invece ti fidi, e ti affidi, ricevi il tutto.

Dio non vuole dare lavoro a tutti, quello che Lui vuole è di aprire a tutti la sua vigna!
Perché lavorare nella sua vigna non è fatica, è Grazia, è già ricompensa. La paga più grande, il salario immenso, non è nel denaro guadagnato alla fine della giornata, ma in ogni istante vissuto con Dio nella sua vigna. Anche di questo ha voluto risarcire gli operai dell'ultima ora: dei mancati momenti insieme.
Anche per questo esce ogni ora e ogni giorno alla ricerca di tutti noi.


(Is 55,6-9;   Sal 144;   Fil 1,20-24.27;   Mt 20,1-16)


09 settembre 2020

Perdonare è tipico di Dio - 13/09/2020 - XXIV domenica tempo ordinario

"Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt. 5, 48) è l'impegnativa richiesta di Gesù. Richiesta che ci diventa particolarmente difficile quando arriviamo al problema del 'perdono'.
Pietro pensava di essere stato molto generoso concedendo di poter perdonare sette volte. Infatti per gli scribi e i dottori della legge, il massimo delle occasioni per perdonare era di quattro volte per i figli e per i fratelli, e di solo tre volte per tutti gli altri. Ma Gesù lo invita, e ci invita, a puntare più in alto. Ci invita a raggiungere la perfezione di Dio: il perdono sempre e comunque.

Perché innanzi tutto il perdono di Dio è, come dice la parola stessa, un dono. Ci viene proposto non perché ce lo meritiamo, ma solo per dono, per regalo. Anche se avessimo col Signore un debito enorme, umanamente impossibile da restituire (10.000 talenti erano pari a circa tutto il gettito delle tasse di un anno nel regno d'Israele), Dio è pronto a condonarcelo. Gli basta solo che noi impariamo da Lui. Scoprirci perdonati per imparare a perdonare.

Perché perdonare è una cosa tipica di Dio. Innanzi tutto il perdono ci rende liberi dal passato. Ci libera dal rancore, quel tarlo che scava il nostro cuore e lo rende arido. Ci libera da tutti quesi lacci del passato che ci impediscono di vivere appieno. Perché perdonare non significa dimenticare, significa non lasciare che il nostro dolore continui a condizionare la nostra vita. Perdonare significa spezzare le catene del dolore che limitano la nostra vita.
Ma significa anche aprire la nostra vita al futuro. Un futuro in cui chi ci ha fatto del male possa essere liberato dal male fatto proprio da noi.

Perché la parabola ci insegna che prima di tutto c'è il perdono di Dio nei nostri confronti. È da qui che bisogna partire, perché umanamente parlando il perdono è una follia, una debolezza. Ma se noi ci scopriamo perdonati per primi, perdonati non per i nostri meriti, ma solamente perché siamo amati, allora, e solo allora, troviamo la forza per perdonare a nostra volta. E questa forza la troviamo non in noi, ma in Dio. È Lui che ce la dona. Perdonare non è una dimostrazione di debolezza, ma una dimostrazione di forza: non mi lascio guidare dal male, dalla sofferenza, ma dalla vita, dall'amore. È la scoperta di essere stati perdonati senza alcun nostro merito che ci dona la forza di perdonare a nostra volta.

Ma di fronte a cose che proprio non riusciamo a perdonare? "Quello che non è possibile agli uomini è possibile a Dio". In ogni processo di perdono, perché il perdono è un processo a volte anche molto lungo e anche doloroso, non siamo mai soli. Dio ci accompagna, ci prende per mano sempre. E se proprio non ce la facciamo, affidiamoci a Lui e affidiamogli chi proprio non riusciamo a perdonare. Lui conosce i nostri limiti, e continua ad amarci.

E man mano che ci scopriamo perdonati e capaci di perdono, iniziamo anche a perdonare la persona forse più difficile da perdonare: noi stessi.